Si
trattasse solo della sua parabola umana, potremmo anche fare a meno
di occuparcene, perché quella di Matteo Renzi è del genere che non
offre alcun interesse particolare. Noto il fuoco, nota la direttrice,
nota la formula che ne genera la curva, noti i valori che ne
determinano il profilo, quale che sia il piano sul quale possiamo
andare a considerarla come percorso personale, apologo morale o caso
clinico, è parabola che sappiamo come sale e che sappiamo come
scende. Lungo tutta la salita, d’altronde,
abbiamo visto confermati tutti i caratteri di questo genere di curva,
mentre dal 4 dicembre ad oggi, in questo primo tratto di discesa, ne
abbiamo puntualmente avuto il riscontro atteso.
Potremmo,
insomma, lasciar perdere Matteo Renzi, dedicandoci a questioni più
interessanti, per limitarci a metterci una pietra sopra quando tra tre o quattro anni sarà tornato da dov’era
partito, ma coperto di merda. E
invece occorre occuparcene, perché alla sua parabola umana sembra
ormai indissolubilmente legata quella di una parte del paese.
A
scanso di equivoci, però, chiariamo: Matteo Renzi non nasce dal
nulla per legare indissolubilmente a sé il Pd con chissà quale
fatale e subdolo sortilegio. Senza voler affatto sottovalutare gli
strumenti che gli hanno permesso di trasformarlo in un partito
personale, è il caso di aprire gli occhi su ciò che il Pd era fin
dalla sua nascita, e che spesso pare sia rimosso, per piegare alla
vulgata della «mutazione
genetica»
che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al
momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista.
Il
rimosso è che, almeno in nuce, il Pci aveva, fin dal 1975, acquisito
i tratti di quel partito socialista borghese (cfr. Gian Franco Venè,
La
borghesia comunista,
SugarCo 1976), che «corrisponde
al suo proprio carattere solo quando diventa pura figura retorica»
(Karl Marx/Friedrich Engels, Il
manifesto del partito comunista,
3, 2). Di questa figura retorica del socialismo era riuscito a
conservare i tratti fin dopo la Svolta della Bolognina, quando,
peraltro senza alcuna elaborazione critica del suo più prossimo e
recente passato, cominciava a dirsi socialdemocratico, per diventare
sempre più solido cooperante della trasformazione cui intanto il
capitale andava incontro, a fronte del processo di globalizzazione
del mercato. Restava solo la blairizzazione del partito in cui il
Pci-Pds-Ds andava a confluire, per dare pienamente conto delle
politiche sempre meno «di
sinistra»
del Pd, e
tuttavia rivendicate come tali, con una temeraria faccia di culo.
[Per citare solo due dei più recenti tentativi di accreditare come
partito «di
sinistra»
quello che ormai sarebbe il caso di ribattezzare PdR (Partito di
Renzi), bastino quelli di Francesco Cundari con «L’ottimismo
è di sinistra (e pure marxista)»
(Left Wing,
17.1.2017) e «Una
Leopolda gramsciana»
(l’Unità,
14.3.2017), che è difficile dire se più irritanti o esilaranti.]
Il fatto che Matteo Renzi
vinca le primarie del Pd con il 68% nel 2013 e con il 71% nel 2017,
dunque, non è da interpretare come investimento sull’uomo
che promette di dare al partito una salda e duratura egemonia
culturale e politica, costi quel che costi, fosse pure il rendere
sempre più problematico poterlo dire (anche solo in parte, e per
«pura
figura retorica»)
«di
sinistra».
Al contrario, rivela in una consistente parte di quell’elettorato
che cominciò a votare il Pci dal 1975 in poi, per rimanervi fedele
mentre diventava Pds, e poi Ds, fino a confluire nel Pd,
un acquistato disinteresse per quella «pura
figura retorica»
del socialismo che prima sembrava indispensabile a far da velo a un
partito borghese, dunque sostanzialmente prono alla logica del
capitale.
Un punto, tuttavia, resta da
chiarire sul perché, e sul come, sia venuta a mancare la
preoccupazione di salvare almeno le apparenze, fino a sentire
rivendicare quasi con orgoglio una sostanziale neutralità ideologica
nell’analisi
dei problemi e nella ricerca delle soluzioni.
[È il caso, per esempio, delle politiche riguardanti il flusso di
migranti dalle coste africane verso quelle italiane: dopo aver
affermato che
«il
problema della sicurezza non è di destra, né di sinistra»,
si è passati a rivendicare come senza dubbio «di
sinistra»
la soluzione dei Cpr avanzata da Marco Minniti in forza della sola
ragione che sarebbero più efficienti dei Cie, così come definiti
nel 2008 dal governo allora presieduto da Silvio Berlusconi, e con
Roberto Maroni agli Interni: stessa logica concentrazionaria, ma –
appunto – più efficace, e senza alcuna rottura rispetto al modo in
cui il centrodestra concepiva e affrontava il problema.]
Senza addentrarci troppo
nelle dinamiche socio-economiche che hanno cambiato corpo e faccia al
ceto medio negli ultimi trent’anni
(con una
sensibile accelerazione
negli ultimi venti, diventata convulsa negli ultimi dieci), potremmo
semplificare dicendo che la crisi in cui è precipitato sul piano
economico, prima, e su quello culturale, dopo, ha sottratto il lusso
di poter essere «di
sinistra»
a buona parte di quell’elettorato
che dal 1975 in poi ha preso a votare Pci-Pds-Ds-Pd, finendo infine
per toglierle anche il lusso di onorarne almeno la «pura
figura retorica».
In buona sostanza, parliamo
di quella «aristocrazia
operaia»
che non è affatto da intendere come la parte degli operai meglio
pagati, ma come quell’eterogeneo
insieme di dirigenti e di funzionari
di partito e di sindacato, di intellettuali (giornalisti, scrittori,
ecc.) in maniera diretta o indiretta orbitanti attorno al Pci, prima,
e al Pd, poi, e dei parlamentari, dei consiglieri regionali,
provinciali e comunali in rappresentanza nazionale o locale del
partito (cui ovviamente vanno aggiunti i componenti dei loro staff e
quant’altri
adibiti in pianta stabile alle attività di propaganda sovvenzionate
dal partito).
Per
il progetto di «egemonia
culturale»
perseguito dal Pci fin dai primi anni dell’ultimo
dopoguerra, quando gli accordi di Yalta sbarrarono la strada ad ogni
soluzione violenta per la presa del potere in Italia, questa
«aristocrazia
operaia»
è venuta a rappresentare una consistente porzione della base
elettorale comunista, ampliandosi nei numeri proprio grazie alle
politiche sociali promosse dal Pci nel regime di sostanziale
consociativismo pattuito con la Dc.
Scrive
Venè nel lavoro già citato: «La
borghesia comunista è composta da borghesi che, con il loro voto,
hannofatto del Pci un partito candidato ad entrare nell’area
del potere. Quali interessi e quali prospettive può avere un
borghese per offrire il proprio suffragio a una forza politica che,
per propria natura, dovrebbe essere “antiborghese” e
“anticapitalista”? […] Tutto ciò pone il Pci di fronte a una
serie di scelte essenziali, delle quali si cerca di non parlare mai,
e meno che mai nell’imminenza
delle elezioni. Quale atteggiamento può assumere, concretamente, un
partito che nasce dal movimento operaio nei confronti dei milioni di
borghesi che si sono giovati delle lotte sindacali per mantenere i
propri privilegi parassitari partecipando allo sfruttamento della
classe operaia? In base a quali criteri il Pci può selezionare,
all’interno
degli strati borghesi, i voti realmente utili alla formazione di una
nuova società da quelli suggeriti dall’opportunismo
o da una semplice fiducia nelle riforme “tecniche” proposte dagli
efficienti quadri di partito? E soprattutto: a quali voti “borghesi”
il Pci dovrebbe rinunciare per tener fede ai suoi programmi di
rinnovamento?».
È
da correggere, dunque, l’idea
che in questi ultimi anni si è fatta strada anche nelle analisi dei
commentatori politici più acuti: con il PdR non siamo dinanzi alla
«mutazione
genetica»
che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al
momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista, ma
alla chiusura di quel lento processo che ha portato con successo la
«borghesia
comunista»
a marginalizzare la base elettorale tradizionalmente «di
sinistra»,
per renderla dapprima solo esornativa, quasi esclusivamente
epidittica nella narrazione del partito «di
(centro)sinistra»,
fino a espellerla di fatto dal partito. Basti pensare che da tempo in
Parlamento non siede un solo operaio sui banchi del Pd, mentre
abbondano figure dell’«aristocrazia
operaia»,
insieme a imprenditori e notabili di questo o quel potentato. Matteo
Renzi non ha democristianizzato il Pd: è la democristianizzazione
del Pci iniziata nel 1975 ad essersi finalmente palesata in modo
inequivoco, per finire col non avere nemmeno più bisogno di essere
dissimulata.
Ecco
perché la parabola di Matteo Renzi riveste un interesse che va ben
oltre lo studio dell’ennesimo
stronzo a forma di serpente, soprattutto adesso che il pieno
controllo del Pd gli consente di non avere altri freni lungo la
discesa. È chiaro che, per assecondare la sua malata smania, non
potrà che stringere un patto col centrodestra un minuto dopo aver
incassato il risultato delle prossime elezioni politiche, e alla
perdita di consensi cui lo porterà la frettolosa rimozione della
lezione del 4 dicembre si aggiungerà quella ulteriore conseguente
alla grande coalizione che stringerà con Silvio Berlusconi, la cui
vita non si prospetta facile, né lunga, a fronte delle spinte che
verranno da un paese ormai avvitato in un declino dal quale potrebbe
venir fuori solo con politiche sgradite tanto all’elettorato
del centrodestra quanto a quello del Pd, per quel che ormai è
diventato. Matteo Renzi non consegnerà l’Italia
al M5S nel 2018, ma nel 2020 o nel 2021 senza meno.
È
solo lì che la sua parabola toccherà il punto più basso, e quasi
certamente gli risulterà assai più doloroso di quanto oggi sia in
grado di immaginare, perché il «buon
selvaggio» di
Rousseau, contrariamente a quanto riteneva Rousseau, sa essere
candidamente cattivo, praticamente una bestia.