Col ritenere che avessero una memoria labilissima – 8" per alcuni, 30" per altri – si è sempre stati ingiusti coi pesciolini rossi, così ci redarguì uno studio della MacEwan University di Edmonton, in Canada, che del 2014 diede prova inconfutabile del fatto che queste deliziose bestioline riescono a ricordare pure ciò che è accaduto fino a 12 giorni prima. Tenuto conto che alcune varietà (il Chromobotia macracanthus, per esempio) possono vivere anche 15 anni, non è affatto poco: fatta proporzione con gli 83,3 anni della vita media di un italiano (Eurostat, 2015), significa riuscire ad andare addietro con la memoria ad oltre 2 mesi, il che non riesce sempre agli italiani, come l’esperienza ci insegna. Non fossero così miti e così poco inclini a darsi arie – i pesciolini rossi, dico – li vedremmo sbellicarsi a branchie spalancate per la smemorataggine di cui le assai poco deliziose bestioline – gli italiani, dico – danno prova di continuo.
Berlusconi, ricordate? Quello che per lustri fu fatto bersaglio di critiche feroci, insulti micidiali e statuine del Duomo di Milano, avete presente? Non scherzate, via, è impossibile che l’abbiate dimenticato: il nano, il caimano, il mafioso, il puttaniere... Afferrato, il ragguaglio? Sì, lui – Berlusconi, dico – avete presente? Perfetto, ero sicuro che col ragguaglio... Bene, dite: servì a niente quel poderoso esercito di giullari armati di geniale sberleffo, di battutisti professionali o d’accatto, di sciantose frementi in accorate indignazioni, di solerti archivisti delle gaffes, degli spropositi, delle mattane e perfino delle analisi delle urine del Gran Cafone? A niente, tutt’al più a far trascorrere gli anni incanalando frustrazione e rabbia in una consolatoria forma di intrattenimento, che ebbe i suoi fasti nei salottini di un Santoro, di una Dandini, coi rispettivi epigoni, più o meno mal riusciti. Tutto di qualche utilità, sia chiaro, soprattutto a chi in quel filone seppe scavarsi la sua nicchietta o il suo nicchione, ricavandoci la marchetta o il contrattone, ma il fine dichiarato restò sempre lontano. Meglio la magistratura, senza alcun dubbio. Meglio ancora lo stesso Berlusconi, che finì per carbonizzarsi da solo, anche se solo – onestà vuole gli sia dato merito – dopo lunghissima combustione, che offrì il calduccio a frotte di papponi e di ruffiani.
Ecco, che cosa resta nella memoria del paese? Praticamente niente. Monta un’altr’onda minacciosa, stavolta giallo-verde, e cosa le fa diga? Il Foglio al posto di Repubblica, la Gruber al posto di Santoro, Zoro al posto della Dandini, e appresso, come i sorci dietro il piffero, gli arguti e meno arguti girotondini stavolta a far centocinquanta-la-gallina-canta su Twitter, un Marco Taradash che sbraita come un Pietro Ricca. Tutto legittimo, sia chiaro, il negoziante è giusto si rifornisca della merce più richiesta, gli ambulanti è giusto battano i marciapiedi dove le loro cianfrusaglie vanno via meglio, i clienti è giusto possano portare a casa l’articolo che più s’adatti a gusto e tasca. Ma illudersi che anche stavolta sia Resistenza, e che a sbattersi come ossessi si ottenga la Liberazione – più che da pesciolini rossi è da cozze.
«Siamo
in parte responsabili anche Marx ed io –
scrive Engels nella lettera a Bloch datata 21 settembre 1890 – del
fatto che [da
parte di qualche marxista] si
attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta
convenga»:
è che «di
fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale,
che essi negavano, e non sempre c’era
il tempo, il luogo e l’occasione
di riconoscere quel che spettava agli altri fattori»;
vero è – tiene a precisare – che, «secondo
la concezione materialistica della storia, la produzione e
riproduzione della vita reale è nella storia il momento in
ultima
istanzadeterminante»,
ma «né
io né Marx abbiamo mai affermato di più».
Una
lezione di grande onestà intellettuale, ma anche un serio monito a
quanti inclinano a un ferreo riduzionismo economicista per spiegare
il mondo, e semmai senza neppure essere marxisti, giacché è noto
che Marx è sempre stato letto poco e male, ma più dai
capitalisti che dai proletari. Questi ultimi, infatti, hanno da tempo
deposto le armi della lotta di classe, fino a smarrirne addirittura
la ragione e il fine, mentre invece tocca sentire un Buffet, terzo in
classifica tra gli uomini più ricchi al mondo, dire che «la
lotta di classe c’è
e al momento la vittoria è nostra».
Il
monito di Engels, per esempio, non fu recepito da Togliatti, che nel
suo Corso
sugli avversari
(Opere,
III, 2, pagg. 531-671 – Editori Riuniti, 1973) non tenne in alcun
conto i caratteri sovrastrutturali del fascismo, limitandosi a darne
una definizione in tutto sovrapponibile a quella data dalla Terza
Internazionale: «Il
fascismo è una dittatura apertamente terroristica degli elementi più
reazionari, più sciovinisti e imperialisti del capitale
finanziario»;
è «agli
ordini del suo padrone, la borghesia»,
che se ne serve per «esercitare
una pressione armata sulle classi lavoratrici»;
e questo accade quando le contraddizioni interne alla borghesia
giungono a un punto tale che essa, «impossibilitata
a governare con i vecchi sistemi»,
«è
costretta a liquidare le forme di democrazia».
Questo
forse può andar bene – ma neppure tanto – per dar conto del
fenomeno al suo affacciarsi sulla scena del XX secolo, quando era
fascismo agrario, ma basta a descriverlo per intero, soprattutto nei
suoi sviluppi? Si può dar conto del suo diventare in tempi così
brevi, come lo stesso Togliatti è costretto a riconoscere, un
«partito
di massa»,
con un consenso ampio e un profilo decisamente interclassista, senza
riconoscergli un saldo aggancio a quella complessa sovrastruttura che
per certa infelice pubblicistica è la «natura
dell’italiano»,e
che al variare delle condizioni storiche sembra mostrare continuità
in una dimensione etico-estetica che riesce a rappresentarsi, seppur
fallacemente, come metastorica?
Senza
dubbio, il riduzionismo economicista di Togliatti trascura «quel
che spettava agli altri fattori»,
ma il fatto che «attribuisca
al lato economico piú rilevanza di quanta convenga» è
solo un limite di analisi o di fatto si traduce in uno strumento di
lotta politica? Riducendo il fascismo a mero strumento del capitale
in funzione antioperaia, non cercava forse di insinuare che il più
genuino e il più efficace antifascismo potesse essere solo quello
anticapitalistico, e cioè quello comunista? A quale altra logica può
rispondere, altrimenti, il mettere tra gli «avversari»
su cui tiene il suo «corso»
–
le sue Lezioni
sul fascismo – anche
i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani e gli azionisti? Il
riformismo – chiede Togliatti – non è forse da considerare come
«principale
sostegno della borghesia» in
quanto trappola per ingabbiare il movimento operaio, suadendolo ad
accettare la logica del capitale e stornandolo dalla rivoluzione che
invece mira a sovvertirla? E non è stato il riformismo a spaccare, e
quindi a indebolire, il movimento operaio italiano, con ciò
spalancando di fatto le porte al fascismo?
Lasciar
fuori dall’analisi
del fascismo ogni altro fattore che non fosse quello economico gli
serviva in sostanza a presentare il comunismo come sola valida
alternativa al fascismo, preparando in favore del Pci la vulgata di
una Liberazione tutta comunista. Effetto collaterale: lasciare a
sinistra del Pci chi si sarebbe poi sentito pienamente autorizzato a
una ripresa della «Resistenza
interrotta»,
ovviamente armata.
Non
so se quello giallo-verde possa essere considerato un nuovo fascismo.
Tenderei ad escluderlo, anche se non c’è
dubbio che nel M5S ci sia stato, e in parte ancora sussista, qualcosa
di sansepolcrista, mentre nell’humus
leghista sono evidenti germi di nazionalismo, autarchia e xenofobia.
A ridarci in farsa la tragedia del fascismo manca la sincresi tra
questi elementi, che è difficile possa darsi in assenza di
catalizzatore: non c’è
un genio politico come Mussolini, ci sono due talentuosi sfessati che
vivono l’avventura
alla giornata, manca soprattutto un Pareto col suo «ora o mai più».
E tuttavia facciamo finta di essere alla riedizione di un 1921,
quando erano in pochi a intuire cosa si parava e in tanti a ritenere
che il fascismo sarebbe imploso proprio per la velocità con la quale
era cresciuto: facciamo finta che i sondaggi annuncino la nascita di
una cosa vecchia, ma ovviamente completamente nuova, un fascismo 2.0
che riesca a costituirsi in regime. Bene, cosa gli consentirà di
essere «partito
di massa»?
Di quali tratti della «natura
dell’italiano»
sapràrivestirsi?
E poi: come sarà spiegabile un tale fenomeno con un’analisi
che faccia propria la ratio di un ferreo riduzionismo economicista?
Non si fosse capito, il tema è posto al sociologo, allo psicologo
delle masse, all’archeologo
che cerca archetipi. E sì, anche al marxista che voglia attribuire
«al
lato economico più rilevanza di quanta convenga».
1. Ho
incontrato per la prima volta la politica nei primi anni Sessanta,
quando nelle passeggiate pomeridiane con mio nonno si finiva
regolarmente ai tavolini di un bar, io a leccare il mio gelato a
limone e lui – sia consentito l’eufemismo – a chiacchierare con
i «nemici del popolo», come regolarmente finiva per stigmatizzarli
quando doveva chiudere la discussione, perché dopo il terzo gelato
al limone mostravo – sia consentito l’eufemismo, qui con puntina
di lirismo – un aurorale disìo di casa.
Dal
vago dei ricordi, oggi, emergono con qualche più nitida immagine le
sue tirate contro Saragat, che in quanto socialdemocratico risultava
dunque «nemico del popolo» due volte, com’era evidente dai sette
anni di vitto e alloggio al Quirinale con cui la borghesia gli aveva
liquidato il tradimento della classe operaia.
È che
il buon Peppino Carneglia era uscito – sia consentito l’eufemismo
– un po’ esacerbato da vent’anni di fascismo: un mezzo litro di
olio di ricino nel ’27, continue seccature sul lavoro, un anno e
mezzo di «villeggiatura» a Ponza. Né trovò mai pace dopo, perché
la Resistenza che doveva dare alla luce una gloriosa dittatura del
proletariato aveva prodotto l’aborto di una misera repubblichetta
democristiana.
Ecco
cosa mi sembrò, la politica, le prime volte che la incrociai: una
variante del pugilato in cui i bicipiti, però, non erano decisivi.
Non necessariamente, almeno. In quanto al resto, per ciò che ancora
mi toccava apprendere, nessuna differenza: pubblico eccitato dal
sangue, puzza di sudore e olio canforato, scommesse vinte o perse.
Con
questo genere di inprinting era inevitabile che finissi per diventare
un ragazzino più interessato a Tribuna politica che a Chissà
chi lo sa?, con quanto doveva conseguirne per l’adolescente,
l’adulto e l’anziano: impossibile il disinteresse – sia
consentito l’eufemismo – per ogni incontro, che si trattasse di
pesi piuma o di pesi massimi.
Da un
certo punto in poi, inoltre, a questa non saltuaria né pigra
consuetudine di spettatore s’aggiunse – pure qui sia consentito
l’eufemismo – il prender nota, in una sorta di diario, imbottito
di ritagli di giornali. Un blog cartaceo, diciamo. Il primo post –
quindici righe su un foglio a quadretti – reca la data del 26
maggio 1970, a commento di quel che alla tv, la sera prima, aveva
detto un semisconosciuto Almirante, che lanciava il suo appello a
quanti non avessero intenzione di «farsi comunistizzare»...
A che
pro, nell’economia dell’argomentazione, questa premessa
autobiografica? Per millantare un po’ di auctoritas –
confesso – e facendolo nel modo più disonesto, che è quello di
far scivolare suggestioni tra aneddoti. Il maestro indiscusso di
questo trucchetto era Andreotti: partiva sempre da un aneddoto che
datava trenta, quaranta, cinquant’anni addietro, nessuno poteva
smentirlo, i personaggi erano tutti morti, rimaneva solo lui a
testimoniare che fosse andata veramente come raccontava, sicché
l’aneddoto era – insieme – memoria e messaggio, storia e
metafora, deposito e trincea.
Insomma,
avrei potuto farla meno lunga, e soprattutto più pulita, dicendo «è
da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane», e
subito arrivare al punto, ma a quel punto il punto non sarebbe stato
fermo al punto cui volevo fissarlo: infilandoci Saragat e Almirante,
nonno e tv in bianco e nero – avevo pensato di infilarci pure papà
che a quattro anni mi insegna a leggere sui titoli de l’Unità,
poi mi è sembrato troppo – volevo darle un peso che forse non ha,
perché in fondo l’età non fa merito in nulla, comunque non di
questi tempi, e insomma, niente, facciamo come quando il blog era
cartaceo: un tratto di penna sopra, e tutto daccapo.
* * *
1. È
da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane, ma
non ho mai visto un governo cui i sondaggi attribuissero tanto consenso
e che – insieme – godesse di tanta cattiva stampa.
Chiariamoci.
So bene che i sondaggi sono spesso inattendibili, e che ancor più lo
è il prestare ascolto alle chiacchiere colte al volo su un mezzo di
trasporto pubblico o alla cassa di un supermercato, che peraltro
possono cambiar di segno nel giro di pochi mesi, visto che la plebe è
plebe, e sul fatto che lo sia nessuno nutre dubbi, soprattutto se non
sente di farne parte. Io che da sempre me ne sento fuori, e che da
sempre trovo plebei anche molti patrizi, porgo l’orecchio a queste
voci ed è in esse, assai più che in quelle di Di Maio e di Salvini,
che trovo l’embrione di una dittatura: leghisti e grillini hanno il
consenso che di solito la plebe dà a chi incarica di far riscatto,
previa vendetta.
Le ho sentite, in questo mezzo secolo, le voci di
consenso a Fanfani e a Craxi, a Berlusconi e a Renzi, ma in esse già
c’era la crepa che apriva al dopo, all’ennesimo riscatto, previa
vendetta. Stavolta, no. Stavolta è il consenso disperato che si dà
all’ultima speranza, come se dopo non ci fosse più niente di
seppur vagamente somigliante alla democrazia. Perciò credo che, se
questo governo dovesse cadere troppo presto, ne vedremmo delle
brutte, ma brutte davvero, perché un’opposizione in grado di farlo
cadere non c’è, e quindi a farlo potrebbe essere solo chi sarebbe
comunque sentito come «nemico del popolo», innescando una reazione
a catena dagli esiti imprevedibili, ma comunque esiziali. Credo che
l’unico ad averlo capito sia Mattarella, che non è mai riuscito a
mandar giù il rospo uscito dalle urne, ma si muove con molta più
circospezione del suo predecessore, conscio che a sputarlo fuori
dovrebbe ingoiarlo di nuovo: cerca di digerirlo, ma si vede che è
digestione difficile.
Gli altri – Pd in primis – scommettono sul
default, contano su Bruxelles, sperano che salti l’intesa tra
leghisti e grillini, stanno agguerriti sull’omesso congiuntivo,
sulla felpa cafona, sul tweet improvvido. C’è da compiangerli,
poveretti, non hanno capito niente: sperare che lo spread salga,
facendo finta di disperare; chiamare in soccorso l’esercito
straniero, che non soccorre mai a gratis; seminare zizzania tra due
anime diverse, certo, ma ormai saldate da un inaudito consenso
popolare, disponibili a dissaldarsi solo per lo spazio di una nuova
campagna elettorale; segnalare quanto siano zotici e ignoranti questi
parvenu al governo, e segnalarlo a un popolo che in gran parte è
zotico e ignorante; questo, e il resto, si traduce nello sterile e
ormai logoro esercizio di parlare a se stessi, chiudendosi in
assedio. Non hanno capito niente, e si può capire, sennò non
dimezzavano i voti in un lustro: cretini e arroganti, incapaci non
meno di chi accusano d’incapacità, non si rendono conto che è
impossibile recuperare consenso, che sono bruciati più di
Berlusconi.
Anche
volendo dar per certo che il consenso attribuito a questo governo dai
sondaggi sia assai sovrastimato, però, c’è di incontestabile che
tv e giornali non sono mai stati tanto ostili ad un governo che dalla
sua formazione ad oggi, invece, non mai visto flettere il consenso
all’unione delle forze che lo sostengono in Parlamento; e «tv e
giornali» è da intendere in senso estensivo, con quanto ci gira
dentro e intorno, ed è questo che dà la più evidente misura della
distanza tra l’opinione pubblica e quello che dovrebbe
rappresentarla (eventualmente formarla), perché questa variegata
gens che campa di intrattenimento e arti varie sconta il peccato
originario d’essere stata sempre a libro-paga di chi investiva nell’informazione a copertura di ben più seri cazzi propri, e ora vive il disorientamento di chi è a corto di marchette.
Mai
tanta ostilità a un governo da parte di tv e giornali: sul piano
quantitativo, giacché le voci che gli sono a favore si contano
davvero sulle dita di una mano, e parlo delle voci che godono di
qualche autorevolezza, perché quelle dei social network sono
aristocrazia della plebe, ma pur sempre plebe (diciamo che il
bandwagon del 4 marzo fa fatica a imbarcare vip); ma pure su quello
qualitativo, perché neppure con Berlusconi a Palazzo Chigi ho visto
tanto accanimento, la cui misura sta nella qualità degli argomenti,
con intelligenze che fino a poco tempo fa davano prove di raro acume
e oggi, contro i giallo-verdi, producono argomenti davvero patetici,
che finiscono per andare a loro favore...
No, neanche così va bene, sembra il delirio di chi goda del veder finalmente soddisfatto un personale desiderio di vendetta. Ha il sapore di un risentimento infine ristorato dalla tragedia. Peraltro non sa neppure farsi scudo di eufemismi: come se chi ha sempre considerato plebei tutti i patrizi che gli capitavano a tiro oggi sbottasse in un «vi meritate che la plebe vi sbrani: sono bestie, ma voi non siete diversi, e in più siete sempre stati prepotenti e supponenti». No, non va bene, che figura ci faccio? Tutto daccapo, via.
* * *
Direi
che il paese sia di nuovo spaccato in due, ma stavolta la spaccatura
non è verticale, tra destra e sinistra, ma orizzontale, tra basso e
alto, e il fronte non divide due campi pressoché speculari, ma, d’un lato, c’è un ventre che col tempo è diventato sempre più gonfio di rabbia e, dall’altro, un
cervelluzzo rammollito da agi e privilegi. Così, quando si afferma
che lo scontro oggi è tra popolo ed élite, e che questo prepara la
catastrofe della democrazia, che invece può reggere solo sulla capacità dare
legittimità all’élite che è capace di selezionare per darle la guida della
società, io mi chiedo perché quella selezionata non sia
riuscita a farlo a dovere, né a rinnovarsi per far fronte ai
problemi insorgenti. Rinunciando all’eufemismo, che cazzo di élite
era? E con quale diritto, dunque, oggi reclama l’autorevolezza di
cui si sente essere stata spogliata con l’inganno e la violenza
degli spregiudicati avventurieri che menano l’Italia alla rovina?
Con quale credibilità ritiene di poter mettere in allarme il paese
perché il Def dei giallo-verdi minaccia di aggravare un debito
pubblico che è proprio lei ad aver portato al 132%?
Sulla
polemica accesasi con la divulgazione in audio del contenuto di una
conversazione privata tra Rocco Casalino e due giornalisti
di Huffington Post, credo si debba innanzitutto far chiara
distinzione tra la questione che sta al nocciolo di quanto affermato
dal portavoce della Presidenza del Consiglio e quelle che le si sono
immediatamente sovrapposte per riproporci ancora, ma a parti
invertite (il che ci dà misura di quanto siano idealmente motivate),
le solite risse tra gli estremisti della privacy e quelli della
trasparenza, tra chi sostiene il primato della politica e chi quello
della competenza tecnica, tra chi afferma che la forma è sostanza e
chi invece che della forma la sostanza può sbattersene i controcoglioni.
Comincerei
con lo sbarazzare il tavolo da queste ultime, per dare più
attenzione a quella centrale. Lo faccio ponendo alcune domande.
Solitamente, Huffington Post è benevolo col M5S? E Rocco
Casalino, scafatissimo com’è, non ha messo in conto che quanto
diceva a due giornalisti di quella testata venisse testuamente
riportato? A uno dei due non è data forse esplicita consegna di informare i suoi lettori che «nel M5S è pronta una mega-vendetta»,
ancorché di riferirla a «fonte parlamentare»? Era tutto
previsto, via, compreso il pressoché generale biasimo per il tono arrogante e
minaccioso: era necessario mostrare il muso duro ai tecnici del Mef,
occorreva che il muso duro fosse visto da tutti, per poterli poi
additare più efficacemente all’opinione pubblica come i soli
responsabili di un eventuale flop del Def. Il copione era già
scritto, comprese le repliche alle critiche, peraltro tutte
prevedibilissime.
Il messaggio è chiaro, e arriva nel modo più
efficace a tutti i destinatari: non solo ai tecnici del Mef, ma anche
a chiunque volesse assimilarli al titolare del dicastero per creare
spaccature nel Governo e attriti col Quirinale, perché – sia
chiaro – Giovanni Tria è «un ministro serio che si occupa dei
problemi degli italiani».
Fa ridere, chi chiede la rimozione di
Rocco Casalino dall’incarico affidatogli: è stato solerte
esecutore di ordini che venivano dall’alto e, a considerare le
dichiarazioni di Matteo Salvini sul caso, è assai probabile che la
cosa fosse stata opportunamente concordata tra i vertici di Lega e
M5S.
Tra due giorni non se ne parlerà più, ma intanto i tecnici del
Mef adesso sanno cosa rischiano e non potranno più ritenersi al
sicuro nella certezza, consolidata dalla pratica che ha accomunato
Prima e Seconda Repubblica, che i politici passano, ma i tecnici
restano.
Ma
veniamo alla sostanza del problema, che direi si possa porre in
questi termini: Rocco Casalino ha esposto in modo rozzo e volgare un
concetto che tra le personcine fini ed eleganti è noto come «spoils
system», e che peraltro è stato pienamente
recepito dalla nostra legislazione, con la legge n. 145 del 15 luglio
2002, che dalla Consulta ha avuto conferma di legittimità
costituzionale con la sentenza n. 233 del 16 giugno 2006.
Vi si legge
che «per
il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene
conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli
obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità
professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione
dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella
direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro»;
che
«con il provvedimento di conferimento dell’incarico,
ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei
ministri o del Ministro competente per gli incarichi [...], sono
individuati l’oggetto
dell’incarico
e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai
piani e ai programmi definiti dall’organo
di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche
degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la
durata dell’incarico,
che deve essere correlata agli obiettivi prefissati»;
che «il
mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l’inosservanza
delle direttive imputabili al dirigente [...], comportano, ferma
restando l’eventuale
responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel
contratto collettivo, l’impossibilità
di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla
gravità dei casi, l’amministrazione
può, inoltre, revocare l’incarico
[…] ovvero recedere dal rapporto di lavoro».
Di
là dal ritenere giusta o no una legge che consente alla politica di
sbarazzarsi dei tecnici che a proprio insindacabile giudizio ritenga
incapaci o indisponibili allo scopo loro preposto, dov’è
la differenza con quanto ha detto Rocco Casalino? C’è
quell’antipatico
dare del «pezzo
di merda»
a chi si considera responsabile del «mancato
raggiungimento degli obiettivi» o,
peggio, dell’«inosservanza
delle direttive»,
e c’è
quella minaccia di «mega-vendetta»
invece di una più mite constatazione dell’«impossibilità
di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale»,
e infine c’è
quella «cosa
ai coltelli» che
dà un fastidioso eccesso di colore al ben più neutro «revocare
l’incarico»,
ma il giovanottone è un villico, esce dalla tv berlusconiana, cosa
si può pretendere?
Leggevo l’articolo di un tizio
che lamentava il degrado della comunicazione pubblica: brutali
volgarità, laide menzogne, diffusa aggressività e, soprattutto,
ignoranza, tanta ignoranza. Bel pezzo, devo dire, non si poteva fare
a meno di annuire ogni tre righe.
Costretto ad annuire di continuo,
era possibile accadesse, e infatti è accaduto: annuendo mentre
accostavo alle labbra il mio tazzone di caffè, me n’è caduto un
po’ sul giornale.
D’istinto ho tamponato con un kleenex, ma ho
fatto peggio: un pezzo del giornale è venuto via, lasciando un buco
nella pagina. E qui viene il bello, perché attraverso il buco vedo
che sotto c’è la ruvida superficie di un papiro sul quale sono
impressi caratteri che compongono parole inconfutabilmente latine:
«-ata peroratio atque pro- / -ptum in quo rata- / -ibi bene
cecid- / …».
Trasalisco, ovviamente, e prima grattando con
l’unghia, poi strappando a brani tutta la pagina del giornale,
davanti a cosa mi trovo? Al De causis corruptae eloquentiae di
Quintiliano, per tutti andato perduto. In realtà
non si trattava dell’opera completa, ma solo del proemio, per
giunta mutilo del finale.
Non vi dico con quale eccitazione mi fiondo
a leggere. È lui, è lui, non c’è dubbio che sia proprio lui:
periodo faticoso, frequenti ripetizioni, ogni concetto espresso
sempre in due o tre modi diversi, ciascuno aperto a dare aggancio a uno sviluppo diverso. Da estenuare chi oggi non
concepisce un saggio che non sia innanzitutto una sequenza di
aneddoti, citazioni, citazioni di citazioni, carinerie e rimandi a ciò che si
dà scontato si sia già letto, e che poi semmai non ha letto neppure chi
scrive, ma di cui, a onor del vero, ha sentito parlare.
Quintiliano, no. Quintiliano procede per proposizioni che
sono squadrate con pazienza dal granito, che vanno a costruire edifici resistenti
pure ai terremoti di magnitudo 9, nei cui meandri a volte ci si
perde, ma solo per tornare da dove si è partiti.
È con piacere che
offro al mio lettore il proemio del De causis corruptae
eloquentiae. Tradotto con qualche libertà, ovviamente, per non tediare troppo chi è abituato ad argomentazioni non più lunghe di 280 battute.
Superfluo dire, com’è
d’obbligo per tutto ciò che è vecchio di secoli: di strabiliante
attualità.
Non
è obbligatorio scendere nel foro in cui l’uditorio sia
manifestamente refrattario alla retta argomentazione per cercare di
persuaderlo alle proprie ragioni. Se lo si fa, però, non ci si può
lamentare che la retta argomentazione non ottenga il risultato
voluto. D’altronde, se si sente irrinunciabile persuaderlo alle
proprie ragioni, la retta argomentazione non è l’unico strumento a
disposizione: ve ne sono di scorretti, ma assai efficaci, anzi, tanto
più efficaci quanto più scorretti, perché la refrattarietà alla
logica che informa la proposizione valida rende solitamente
estremamente ricettivi a sofismi, paralogismi, antinomie, fallacie.
Usare
strumenti scorretti potrà far sorgere qualche scrupolo, che però
non sarà difficile soffocare nella convinzione che il fine
giustifichi ogni mezzo, soprattutto se si sente indispensabile
ottenerlo in fretta. Se non si è dominati da questa urgenza e, ancor
più, se non si è disposti a usare un mezzo scorretto per ottenere
il proprio fine, rimangono due sole alternative: non scendere affatto
in quel foro; oppure scendervi, ma armati di coraggio e pazienza,
disposti a spendere tutte le proprie energie in uno sforzo che in
buona sostanza è tutto e solo pedagogico, avendo ben presente, però,
che, anche se instancabilmente operoso, non è affatto detto sia
destinato a trovare successo, tanto meno in tempi brevi.
Ciò
premesso, a nessuno sfuggirà che lo spazio di comunicazione pubblica
sia un foro; che il motivo per il quale solitamente vi si scende è
sempre (in senso stretto o in senso lato) politico; che in
quest’ambito relazionale la persuasione si traduce in consenso;
che, quando questo sia maggioritario, darà legittimità al governo
della cosa pubblica; che chi aspira al governo della cosa pubblica lo
considera quasi sempre un fine irrinunciabile.
Non
credo sia necessario tradurre nei termini che sono propri della lotta
politica quanto si è poc’anzi detto: se il discorso pubblico è,
al pari di ogni altra forma di comunicazione, l’articolazione di
proposizioni che possono rispondere o meno alle norme della retta
argomentazione, data una platea in cui gli analfabeti funzionali
siano oltre il 75%, c’è da attendersi che il ricorso a strumenti
scorretti possa senz’alcun dubbio dare risultati assai migliori, e
in tempi assai più brevi.
Cosa
può dissuadere dal farlo? Nulla, in realtà. In teoria
potrebb’esserci il sapere che un buon fine difficilmente resta tale
quando è ottenuto con mezzi disonesti; sta di fatto che, quando il
fine è considerato irrinunciabile, difficilmente si riuscirà a
valutarne la bontà lungo l’iter necessario a conseguirlo, e questo
a voler dar per certo che fosse buono all’inizio. Sempre in teoria
potrebb’esserci il sapere che la persuasione ottenuta in tempi
troppo brevi e con metodi scorretti è estremamente labile, perché
su basi poco salde; in pratica, tuttavia, si finisce quasi sempre per
credere, e anche a ragione, che a un consenso ottenuto con argomenti
invalidi si possa dare continuità con nuovi argomenti, altrettanto
invalidi, ma altrettanto efficaci.
Direi
sia veramente difficile rinunciare a strumenti retorici disonesti
quando si ha la certezza, fondata sull’esperienza, che una platea
in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75% risponde meglio a
questi che a quelli onesti. È del tutto naturale, dunque, che anche
chi scenda in un tal foro armato delle migliori intenzioni sia
costretto a scegliere: un consenso facile e immediato, largo ancorché
labile, ottenuto in modo disonesto, o un’onesta, lunga e faticosa
missione pedagogica che miri ad un consenso che c’è attendersi
comunque assai limitato? Solo scrupoli di natura morale possono
scoraggiare dallo scegliere la prima opzione, ma non s’è sempre
detto che politica e morale non hanno nulla da spartire? Come si può
continuare a dirlo sostenendo nel contempo che è lecito acquistare
consenso solo usando mezzi onesti? Che c’entra l’onestà con una
pratica i cui risultati devono essere giudicati solo sul piano della
capacità? E da cosa è dato, il giudizio, se non dalla misura del
consenso? È dato dalla sua misura, non già da come lo si è
ottenuto. E dunque si sia seri: chi ha fede nella retta
argomentazione non può e non deve attendersi consenso nel foro in
cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%.
Non
a caso parlo di fede. Se alla logica, infatti, attribuiamo le qualità
che il credente attribuisce a Dio (ve n’è
evidente corrispondenza quando questi lo chiama Logos), occorre
rassegnarsi al fatto che il suo regno – il regno in cui la logica
detta le norme al dire e al fare – non è di questo mondo; che, se
decide di incarnarsi, la logica, deve essere disposta ad esser
crocifissa, dopo essere stata offesa e derisa; che eventualmente può
risorgere, ma solo per tornarsene da dov’è venuta, dopo una fugace
Pentecoste che serve solo a lasciare a evangelisti, apostoli e
discepoli il mandato al martirio; che può darsi tornerà alla fine
dei tempi, ma solo per trovare sulla terra una sparuta manciata di
giusti.
Si
scherza, ovviamente, sappiamo che la logica non ha nulla di divino: è
una tecnica, oppure, per meglio dire, è una disciplina, e ha regole
ferree, inderogabili. Possiamo a buon diritto ribaltare quanto detto,
com’è per tutto ciò che è divino: non è la logica ad aver
creato l’uomo, ma viceversa; non apparve sulla terra così come la
vediamo oggi, ma nel tempo, a dispetto del ritenerla anteriore e
superiore ai tempi, ha subìto una profonda trasformazione, tanto
profonda da farle perdere la primigenia natura; ha pretese
universalistiche, ma deve fare i conti con le condizioni che incontra
e non di rado l’inculturazione le riesce male, trovando resistenze
che sembrano più biologiche che culturali; i suoi sacerdoti
predicano bene, ma spesso sono sorpresi a razzolare male, e in più
vestono insegne di casta; la fede in lei può facilmente trasformarsi
nella vuota celebrazione di rituali astrusi, in un arido sistema di
precetti algebrici che la vita quotidiana s’incarica di dimostrare
inapplicabili.
Si
fa torto al presente pensando che questo non sia accaduto sempre...
Nota
al testo
Al
lettore che si stupisse di trovare in un testo del I secolo la
locuzione «analfabeti
funzionali» occorre
far presente che nell’originale
essa era resa dalla perifrasi «stulti
qui vivunt, cogitant et loquuntur ad mentulam canis».
In
linea di principio, potrei anche rinunciare alla democrazia in favore
di una forma di governo in cui il potere sia esercitato da un’élite
illuminata, ma è che sul piano pratico vedo ostacoli insormontabili.
Il primo, e il più grosso, sta nel fatto che da un certo punto in
poi potrei smettere di considerarla illuminata, ma allo stesso tempo
non aver alcun diritto di metterne in discussione il potere, il che
di fatto me la trasformerebbe in una dittatura. Infatti, delle due,
una: o è sempre illuminata, e non può smettere d’esserlo (non è
questo, infatti, che legittima il suo potere in alternativa alla
democrazia?), e allora sono io in errore a pensare che non lo sia più
(ma questo non implica che potrei essere stato in errore anche quando
pensavo che lo fosse?); o è realmente possibile che abbia smesso
d’essere illuminata (come è possibile che non lo sia mai stata), e
allora non si capisce che bisogno avrei di rinunciare alla democrazia
che mi consente di poter rivedere il mio giudizio a scadenze
prefissate dopo aver verificato l’operato di chi ho eletto o dopo
aver constatato che si trattava di un giudizio errato in partenza.
È
che «élite» significa – appunto – «eletta», «scelta», ma
il nodo del problema sta nel «da chi», perché, se su quanto sia
illuminata, e per ciò legittimata ad esercitare il potere, devono
esprimersi quanti in un sistema democratico sono periodicamente
chiamati a scegliersi dei rappresentanti, tra élite e rappresentanza
scompare ogni differenza, così come smette di esserci alternativa
tra due forme di governo che in realtà sono una sola. Si dovrebbe, altrimenti, dar ragione a chi afferma che una democrazia regge
solo se riesce a esprimere un’élite illuminata, che però si dà a
intendere non possa sortire da un voto. Chi lo afferma, infatti, fa
chiara distinzione tra élite ed eletti dal popolo, anche se ammette
possano esserci aree di sovrapposizione e coincidenza tra i due
insiemi in quelle personalità che riescano ad ottenere un rinnovato
mandato elettivo per un lungo periodo. È tuttavia evidente che, se a
esprimersi su quanto sia illuminata una cerchia di personalità cui
si voglia affidare l’esercizio del potere devono essere chiamati
tutti, la qualità in oggetto sarà semplicemente conferita da un
consenso maggioritario, che non potrà mai avere peso assoluto, né tanto
meno oggettivo: l’élite sarà illuminata del tanto che le sarà
riconosciuto dalla maggioranza degli aventi diritto al voto e per la
sola durata del mandato, ma allora che senso avrà considerare
alternative due forme di governo che in realtà sono una sola?
Sì,
confesso, fin qui ho giocato un poco a fare il finto tonto. In realtà
so bene che, per definizione (ancorché all’etimo piaccia far
confusione), un’élite illuminata non può sortire da un voto
popolare: «da chi» dovrebbe essere «scelta», dunque? E
soprattutto: come dovrebbe essere legittimata a esercitare il potere?
Io qui credo che non ci sia altra soluzione: un’élite illuminata
non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti
che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a
quelle medie, come conoscenze e capacità a un alto grado
d’eccellenza; non può altrimenti essere legittimata a esercitare
il potere, dunque, che autolegittimandosi; né può altrimenti
arrivare a esercitarlo se non indipendentemente dal consenso di chi
in un sistema democratico sceglie i propri rappresentanti, nel senso
che un eventuale consenso popolare potrà facilitarle il fine, con
ciò dandole un mandato che si tradurrà in un’investitura
d’autorità in tutto coincidente ad un’attribuzione di
autorevolezza, ma non precluderglielo, perché c’è da supporre che
i mezzi a sua disposizione siano in grado di raggiungerlo comunque,
ancorché il buonsenso possa poi consigliare di non renderne
manifesto il conseguimento (l’élite illuminata potrebbe decidere
sia più opportuno esercitare il potere senza darlo da vedere, semmai
condizionando le decisioni di chi il potere lo detiene solo
formalmente per averne avuto investitura per suffragio universale).
Finto
tonto anche qui? Sì, un pochino, ma era per mettere in evidenza la
sostanziale coincidenza tra élite illuminata e oligarchia, dove non
è affatto escluso che, nel prendere in mano il potere e
nell’esercitarlo, entrambe possano godere del consenso popolare
(almeno nella sua espressione maggioritaria, foss’anche nella forma
di un’acquiescenza passiva) o della soggezione di chi il popolo ha
scelto come suo rappresentante: finto tonto per alzare il velo
d’ipocrisia e di mistificazione che sta nell’affermare
l’impossibilità di una democrazia senza un’élite illuminata a
correggerne gli errori, che sarebbero tutti nel volere degli
elettori.
Ci sono due modi per dirlo, e per entrambi ricorrerò a
degli esempi.
Il primo è rozzo, ma assai efficace, quasi a prendere
dal bignamino la teoria di Robert Michels: «Una
oligarchia bene organizzata somiglia ad una democrazia possibile»
(Giuliano Ferrara, Il Foglio, 22.5.2008).
Il secondo è un po’ più
articolato, e forse anche perciò meno efficace, perché, quando c’è
da affermare un principio sostanzialmente antidemocratico,
l’articolazione finisce sempre per essere d’impaccio. Si tratta
del rimprovero a chi ha «scarsa
consapevolezza del fenomeno democratico quale organizzazione elitaria
del potere. Dalla Gloriosa rivoluzione fino ai moti liberali
dell’Ottocento, la strada per la democrazia è stata la strada per
l’individuazione di una legittimazione del potere che comunque
separasse l’élite dal volgo, i capaci dagli incapaci a governare.
Le teorie e gli istituti democratici sono nati e si sono sviluppati
al servizio di una teoria oligarchica della democrazia che
consentisse una legittimazione nuova rispetto al potere assoluto del
re, una legittimazione popolare sì, ma per un governo estraneo e
riparato dai governati. Nella schizofrenia del continuo appello alla
sovranità popolare e alle forme di democrazia diretta e partecipata
e, d’altro lato, della contestuale delusione per le sue scelte,
pensiamo che il busillis sia nelle soluzioni istituzionali che
razionalizzino il principio maggioritario: voto sì ma non su tutto,
e persino voto sì ma non per tutti. Ma il punto è molto più
delicato dell’ingegneria istituzionale: democrazia non vuol dire
necessariamente appello assoluto alla sovranità popolare, come
troppo spesso si sente dire da alcuni partiti e movimenti politici e
da una certa classe intellettuale, quando le torna comodo. Al
contrario, la fortuna della democrazia si è avuta con l’erigersi
del voto a illusione politica e col rafforzamento di una teoria del
potere e della sovranità diversa dall’assolutismo ma comunque
elitaria, che identificasse nella oligarchia degli eletti la
legittimazione ad agire e al tempo stesso la garanzia dei talenti. Se
questa è la democrazia, è democratico anche un sistema, come quello
italiano, dove su certi argomenti il popolo non può esprimersi, o un
regime che non fa della trasparenza e della volontà popolare il
feticcio del potere legittimo. Se questa precisazione non ci piace,
non ci resta che accettare sempre la volontà popolare, anche quando
si esprime come non vorremmo» (Serena Sileoni, sempre su Il Foglio
[dove sennò?], 5.7.2016). Che poi sarebbe stare al gioco anche quando se ne perde una tornata.
Ecco,
direi di essere arrivato al punto cui mi proponevo di arrivare con
questo intervento. Dobbiamo concepire la democrazia come
«legittimazione
popolare» di un «governo estraneo e riparato dai governati»?
Dobbiamo credere che la democrazia possa reggere solo sull’assunto
che il voto sia «illusione politica»? Dobbiamo ritenere che una
«sovranità diversa dall’assolutismo» sia possibile, ma solo se
«comunque elitaria», consistente in una «oligarchia degli eletti»,
che già sarebbe tanto, visto che darsi per illuminata può pure
essere un’élite
religiosa o militare?
Già, perché ancora non abbiamo chiarito a chi
spetterebbe darle la certificazione di «illuminata». Si trattasse
di un’élite
teocratica, sarebbe tutto facile, e invece chi sostiene che una
democrazia è possibile solo a maquillage di un’oligarchia
professa molto spesso un credo laico, anche se poi altrettanto spesso
si tratta di una laicità che s’appoggia
al «veluti si Deus daretur». Sarebbe tutto facile anche con
un’élite
militare – anche troppo facile, direi, basterebbe contare i bernoccoli invece che le schede che escono dalle urne – ma dopo Julius Evola
nessuno più contempla l’ipotesi.
Illuminata, allora, sì, ma certificata tale da chi, se a darle tale
certificazione a mezzo di elezioni significherebbe renderla un po’
meno élite?
Non se ne esce: abbiamo detto che un’élite
illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione
tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga
superiori a quelle medie? È evidente allora che solo in tale
contesto può darsi legittimità a definire superiori certe qualità.
In sostanza, non può essere che un’élite
illuminata a potersi dire illuminata. Non funziona col pazzo che dice
di essere Napoleone, ma con l’élite
illuminata occorre funzioni.
Trattandosi
di élite illuminata, non c’è dubbio che i criteri di cooptazione
per entrare a farne parte sarebbero ineccepibili. Non c’è dubbio,
per esempio, che l’entrare a farne parte non potrebbe mai essere
motivato unicamente dall’esser figlio di chi già ne fa parte, ma
da meriti incontestabili. D’altronde, chi mai potrebbe contestarli,
questi presunti meriti, se non chi già ne faccia parte? E dunque:
chi mi può assicurare che tra i membri di questa élite non si
finisca per trovare un seppur tacito accordo del tipo «se chiudi un
occhio su mio figlio, io poi ne chiudo uno sul tuo»? I figli so’
piezze ’e
core, si sa. Qui in Italia, poi, più che mai. Non c’è
il rischio che quest’élite
mi diventi anche dinastica?
Basta
fare il finto tonto, sta stufando pure me: la sovranità, o
appartiene al popolo o non gli appartiene. Deve esercitarla nelle
forme e nei limiti prefissati dalla Costituzione che si dà, ma non
possiamo dire gli appartenga solo per modo di dire. Sennò è del
tutto naturale che si senta preso per il culo. E preso per il culo
oggi, preso per il culo domani, finisce che s’incazza
e dà il peggio di sé. Allora sì che, come dice la Sileoni, diventa
«volgo», ma diciamo che diventa difficile capire quanto già lo fosse di
suo e quanto lo sia diventato per incazzatura. Che lo diventi potrà
rafforzare in qualcuno la convinzione che un’élite
illuminata sia cosa estremamente necessaria, ma è evidente che
quella messa in discussione dal «volgo» non fosse tanto illuminata
da riuscire a conservare il potere che fino a un certo punto ha
esercitato senza trovare ostacoli. Illuminata fino a un certo punto,
diciamo, ma poi non più. Le dinastie decadono, diciamo. E se proprio
è necessario che sia un’élite
a dare anima a una democrazia, ogni tanto un ricambio non guasta. Se
al «volgo» spetta solo il ruolo di spettatore, ben venga ogni tanto
una guerra per bande. Non si capisce, però, perché non debba
vincere il migliore, e cioè l’oligarchia
che meglio riesca a darsi faccia «volgare». Le elezioni dovevano
servire unicamente a dare legittimazione a un’oligarchia?
Bene, siete serviti.
La
logica che imporrebbe al becero grillozzo di tacere dinanzi al sommo
Burioni quando si discute di vaccini – parlo della logica che in
una discussione su un tema di natura squisitamente tecnica nega
parità di peso all’opinione
di chi è esperto in materia, soprattutto se carico di titoli che ne
comprovano l’autorevolezza,
e a quella di chi esperto non è, e anzi non di rado è un emerito
coglione – pretenderebbe, quando in questione è il codice penale,
che l’imputato
taccia quando parla l’avvocato,
che l’avvocato
stia zitto quando il giudice legge la sentenza, che il giudice di
primo grado non apra bocca sulla decisione della Corte d’Appello,
che sia la Cassazione a dire l’ultima
parola, se a volersela prendere non è la Consulta. Ahinoi, non va
così.
Come il becero grillozzo pretende di tener lezione di
virologia a Burioni, così Il Foglio pretende di spiegare al
presidente della Corte d’Appello
di Roma perché ha sbagliato a condannare Buzzi e Carminati per
associazione a delinquere di stampo mafioso. Con ineguagliabile
garbo, però. Perché il grillozzo è aggressivo e petulante, e c’è
pure il caso che, a vedersi sbattere sul muso indiscutibili prove
scientifiche, cerchi di svicolare per la tangente, tirando in ballo
Popper e Feynman (ovviamente a cazzo di cane), arrivando addirittura
all’insulto
e alla minaccia. Il Foglio, no: saldo nella convinzione che la
sentenza d’appello
sia stata imposta al giudice da un torbido ordito mediatico, né più
né meno di come il grillozzo è saldo nella convinzione che Burioni
faccia spot per i vaccini perché al soldo delle case farmaceutiche, ma tutt’un
altro stile.
Con la sentenza di primo grado, giorni e giorni a
ricamare chiose e glosse, e «com’eravamo
stati bravi a dirlo fin dall’inizio»,
e «aspetta
che adesso te lo faccio rispiegare meglio da Tony e da Fiandaca»,
e «se
proprio ti resta un dubbio, c’è
il simpatico Bordin che te lo fa passare in meno di mille battute,
sennò c’è
la Chirico, che alla simpatia aggiunge un assai convincente accavallo
di coscia»;
con la sentenza d’appello,
profilo basso (musetto lungo, posa da Viandante sul mare di nebbia di
Caspar David Friedrich dinanzi ai marosi di una giustizia malata, un
flemmatico «aspettiamo
il deposito delle motivazioni»,
e il tutto in una sola giornata di magro).
Altro stile, ma stessa
coriaceità del grillozzo: proprio non si vuol capire che quel
benedetto art. 416 bis non parla di associazioni mafiose, ma di
«associazioni
di tipo mafioso»,
e che dunque in questione è una tipologia di reato, non la sua
specchiabilità nel connotato di mafia come fin qui si è
storicamente configurato. Pensi che sia un articolo stronzo? Legittimo pensarlo, ma intanto vige: facciamo finta di no? Niente da fare, si insiste: «No
violenza generalizzata, no attacco e infiltrazione nel cuore dello
stato, no famiglie e cosche e rituali omertosi correlativi...»,
ma quando mai l’art.
416 bis dice che è tutto questo a configurare la fattispecie? «Non
c’è né un arsenale né un tesoro o tesoretto di capitali di un
qualche peso...»,
ma forse che l’art.
416 bis li contempla come indispensabili?
Niente da fare, «c’è
stato un tribunale che ha stabilito che il fatto è il fatto, e la
bolla la bolla, sottraendo al processo e alla sentenza di primo grado
tutto il glamour che invece l’accusa penale, rappresentata da
giudici estranei alla conoscenza approfondita della città,
richiedeva, in un contesto in cui se non sei un cacciatore di mafiosi
sei uno stracciarolo della piccola delinquenza municipale, e nessuno
è in grado di usare politicamente e demagogicamente il tuo lavoro».
Solo in trasparenza, ovviamente, ma chiaramente si legge: «La
scienza ufficiale è un verminaio di loschi interessi che sui vaccini
impone il suo pensiero unico alla stragrande maggioranza degli
operatori nel capo sanitario, che sono obbligati a rispettarlo se non
vogliono pagarla cara: dite quello che volete, ma noi restiamo
dell’idea
che i vaccini possano causare l’autismo
e che la chemioterapia possa essere sostituita dal bicarbonato».
Ma forse sbaglio io: sui virus e sui vaccini può aprire bocca solo Burioni, che ha studiato, si è laureato, si è specializzato e ha fatto ricerca per decenni e decenni; sul come sia da interpretare correttamente un articolo di legge, può bastare la licenza di maturità classica (non mi risulta che Ferrara si sia mai laureato, tanto meno in giurisprudenza).