«...
más razonable, más inepto, más haragán...»
Jorge
Luis Borges, Ficciones
(Prólogo)
Contrariamente
a quel che era abilmente riuscito a far credere negli anni che
precedettero la morte di suo padre, il principe ereditario non era
affatto un innovatore.
Col senno di poi qualche sospetto poteva
porsi, ma non si pose. Per esempio: perché un conservatore come suo padre – e
che conservatore! – aveva designato proprio lui, secondogenito,
alla successione? Si pensò che l’età,
e ancor più la lunga malattia che aveva pesantemente segnato gli
ultimi dieci anni della sua vita, avesse temperato il suo giovanile
rigore, facendogli capire che la strenua e intransigente difesa della tradizione, che aveva incisivamente contraddistinto il suo lungo regno, fosse
vana; che qualche riforma fosse necessaria; che, non avendo le forze
necessarie per gestirla in modo adeguato dopo averla avviata, fosse
più saggio affidarla a quel ragazzo che fin dalla più tenera
infanzia aveva dato prova di una brillante intelligenza, unita a una
straordinaria larghezza di vedute, che tuttavia non aveva mai dato
spazio a eccessi o, peggio, a bizzarrie. Tutto il contrario del primogenito: vizioso, irresponsabile e, quel che era peggio, incapace perfino di figurarsele, la tradizione e l’innovazione .
Per chi voleva che le cose
cambiassero fu un tragico errore il pensarlo, e ancor più lo fu il
nutrirne la speranza con lo stringersi attorno al principe
offrendogli l’anticipo
di una piena ed entusiastica adesione all’implicita
promessa di grandi trasformazioni che sembrava di poter
esplicitamente leggere nelle frasi che gli facevano da tappeto nell’avanzare verso la successione da sovrano illuminato.
Col senno di poi qualche
sospetto poteva porsi, ma non si pose. Così, quando l’anziano
re morì, chi aveva tanto atteso tempi nuovi non seppe tenere a freno
l’entusiasmo
e al principe ereditario s’offrì
interamente nudo, spoglio d’ogni
cautela, palesando tutte le proprie insofferenze al peso dell’opprimente vecchiume, in più d’un
caso esagerando pure. Senza saperlo si stava scavando la fossa,
perché stava salendo al trono chi aveva in mente fin dall’infanzia
di soffocare nel sangue, in via definitiva, ogni pur flebile
richiesta di ogni pur minima innovazione: la fama di riformatore che
il principe ereditario si era cucito addosso era solo un’esca
per far uscir dall’ombra
i nemici della tradizione, e il piano era stato concordato col padre.
È che, sebbene non avessero le forze necessarie a sovvertire lo
stato delle cose, era da tempo che costoro avevano preso a corroderlo
dal suo interno, spargendo nel regno i veleni del dubbio e del
malcontento, sperando che prima o poi avrebbero sollevato la
ribellione dei sudditi, né avevano esitato a stringere un segreto
patto coi sovrani dei regni confinanti per un aiuto militare, quando
sarebbe stato necessario.
Il piano messo in atto dal re e da suo
figlio aveva dato ottimi risultati: la speranza che sul trono stesse
per salire un innovatore aveva allentato le trame, e tuttavia padre e
figlio sentivano la necessità di far piazza pulita di ogni
opposizione interna, per sempre. C’era
bisogno che ogni nemico della tradizione venisse allo scoperto, e il
piano prevedeva che la morte del re dovesse essere la
migliore occasione. Così fu, perché la gara a offrirsi come fedeli esecutori del
programma di riforme che si riteneva ora fossero prossime, diede modo
di stanare anche chi si era abilmente occultato per decenni.
Nell’elenco
di chi doveva pagare il prezzo finì pure qualcuno che era stato un
sincero conservatore, quando sul trono sedeva un re conservatore, e
che ora era altrettanto sinceramente disposto ad assecondare le
riforme di un re riformatore: più che di un conservatore, prima, e
di un riformatore, ora, si trattava dell’immancabile
conformista che vuol rimanere sempre a galla, quindi era
sacrificabile senza scrupoli alla riuscita del piano.
Era venuto il
momento di chiudere i conti: il nuovo re annunciò che tutto sarebbe
cambiato, e che per il cambiamento aveva bisogno del consiglio e del
sostegno dei più convinti sostenitori dell’innovazione,
li convocava in un’assemblea
di saggi che sarebbe stata la fucina di un radioso avvenire di
progresso. Intanto disponeva nel dettaglio quello che sarebbe stato
un massacro: convenuti nel luogo dove erano stati convocati,
avrebbero appreso dalle sue stesse labbra in quale trappola fossero
caduti e quale sorte li attendesse – già ne pregustava la sorpresa
e la disperazione – per poi dare il segnale a che iniziasse il
macello, affidato agli armati accuratamente predisposti al compito.
Aveva intenzione di tenere un discorso che all’inizio provvedesse a beffardamente entusiasmare i convenuti, per poi gettarli
nello smarrimento, e poi nello sgomento, e infine nel terrore. Dopo
aver pensato e ripensato, si risolse a ricorrere a un apologo: si
trattava dell’apologo
contenuto in un antico testo che per i cultori della tradizione era
una vera e propria bibbia, e che ormai da tempo nessuno più leggeva.
L’apologo
narrava di un re che smascherava i suoi nemici grazie a un ingegnoso
tranello, per poi consegnarli al boia: era l’apologo
che aveva ispirato il piano concordato con suo padre. Gli sembrò che
coronasse al meglio i lunghi anni in cui aveva dovuto accuratamente
celare i suoi reali intendimenti, fingendo di essere quello che non
era.
Venne il giorno. Salì sul palco dal quale si preparava a tenere
il suo discorso accolto da urla di giubilo e fragorosi scrosci di
applauso. E cominciò, tra larghi sorrisi di adorante approvazione.
Quando attaccò con l’apologo,
accadde l’imprevisto. A fare il nome di quel re, un campanello
d’allarme suonò nella testa di uno dei convenuti. In uno solo. Il
solo che avesse letto il libro da cui era tratto quell’apologo.
Era
tra quanti avevano maggiormente sperato in una stagione di
rinnovamento. In un istante capì cosa stesse per accadere, in un
attimo trovò il modo per salvarsi: afferrò un candelabro e si
lanciò sul palco gridando «morte al rinnegato! morte al traditore
della tradizione!». Fu subito immobilizzato dalle guardie del corpo
che circondavano il re, che diede l’ordine di portarlo via. Dalla
platea che aveva avuto un fremente sussulto di apprensione, prima, e
un potente moto di sdegno, dopo, partirono insulti e maledizioni, che
il re sedò con un gesto che a tutti sembrò di larga liberalità,
quasi a promettere che le riforme a venire avrebbero dato segno della
più piena tolleranza verso tutti. E questo fece un grande effetto,
riscaldando ulteriormente il cuore dei convenuti. Per poco, perché
dopo poco fu gelato, e subito trafitto dal ferro.
Una carneficina:
nel giro di mezz’ora vennero eliminate tre generazioni di saggi che
avevano sognato il cambiamento. In quanto all’uomo che era stato
fermato nel suo tentativo di uccidere un re che minacciava di
rinnegare la tradizione, era giusto che venisse premiato con la
carica di primo ministro da un re che in realtà intendeva difendere la
tradizione dai suoi nemici: chi meglio di lui, pronto ad immolarsi
pur di far fuori chi minacciava l’integrità della fede e dei
costumi, poteva assicurare la necessaria assoluta fedeltà? E così
fu. Dopo essersi goduto il massacro, il re si recò a fargli visita,
gli spiegò tutto, lo ricoprì di elogi e lo nominò primo ministro. Nessuno, ora, sarebbe stato più vicino al re: ucciderlo per vendicare
tutti quei morti, ma soprattutto per punirlo della sua malvagia astuzia,
sarebbe stato un gioco.
Beh, questo non accadde. Il re e il suo primo
ministro vissero entrambi a lungo, e la tradizione fu restaurata.