Nel
1945, per i tipi della University
of Pennsylvania Press, usciva
un volume di Arcangelo William Salomone dal titolo Italian
Democracy in the Making,
che apriva con una lunga Introduzione
di Gaetano Salvemini, dalla quale Claudio Cerasa estrae due passaggi
(pagg. XV e XXVIII-XXIX) che finiscono nell’editoriale
col quale s’apre
Il Foglio di
giovedì 18
ottobre.
Prima
di riportare qui il virgolettato, per poi passare a considerare l’uso
strumentale cui viene piegato, occorre precisare che i due brani
tratti dall’Introduzione
sono riportati fedelmente (fa eccezione l’inciso
«ed era»
del primo periodo, racchiuso tra due virgole su Il
Foglio
e tra due trattini nel testo originale, il che ovviamente è
irrilevante) e che il loro accostamento
non tradisce il pensiero di Salvemini per quanto viene ad essere
eliso nel mezzo. Precisazioni che potrebbero sembrare superflue, ma
che qui invece sono necessarie, perché negli ultimi anni Il
Foglio
non si è fatto scrupolo di servirsi anche di infimi mezzucci per il
suo piccolo cabotaggio nella palude della cronaca politica italiana:
premettere che stavolta non se n’è fatto uso vuol
far da viatico alla speranzuola che il giornale fondato da Giuliano
Ferrara possa tornare ai tempi in cui mistificava in modo assai più
raffinato, ruminando i paralogismi di Ratzinger invece di sfondarsi
coi popcorn di Renzi.
Ma veniamo al Salvemini di Cerasa.
«Mentre
noi riformatori assalivamo Giolitti dalla sinistra accusandolo di
essere, ed era, un corruttore della democrazia in cammino, altri lo
assalivano dalla destra, perché era anche troppo democratico per i
loro gusti. Le nostre critiche non favorirono una evoluzione della
vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia, ma
favorirono la vittoria dei gruppi militaristi, nazionalisti e
reazionari che trovavano la democrazia di Giolitti anche troppo
perfetta... Se mi trovassi nuovamente in Italia fra il 1900 e il 1914
con quel tanto di esperienza che ho potuto mettere insieme nei
trent’anni successivi, non tacerei nessuna delle mie critiche al
sistema giolittiano, ma guarderei con maggior sospetto a coloro che
si compiacevano di quelle critiche, non perché essi volessero
condurre l’Italia dove noi avremmo voluto che arrivasse, ma
precisamente nella direzione opposta».
Un
ripensamento sul giudizio dato nel 1910 con Il ministro della mala
vita? Macché, Giolitti rimane il «corruttore della
democrazia» che era. Se sul «sistema giolittiano»,
dunque, non ha cambiato idea, di cosa si cruccia, Salvemini? Del
fatto che le sue critiche a Giolitti «non favorirono una
evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di
democrazia». Lo indebolirono,
probabilmente, ma più da destra che da sinistra. Non nasconde la sua
amarezza al riguardo, Salvemini, ma si sente in colpa per averlo
indebolito con quelle accuse? Niente affatto: «Se mi
trovassi nuovamente in Italia fra il 1900 e il 1914 [...] non tacerei
nessuna delle mie critiche». E
allora di cosa si sente colpevole, se in ciò che scrive c’è
proprio da leggere un rimprovero a se stesso? Del non aver guardato
«con maggior sospetto» al
compiacimento che «militaristi, nazionalisti e reazionari»
traevano da quelle sue critiche.
Io
qui azzarderei un’ipotesi.
Salvemini sapeva che «militaristi, nazionalisti e
reazionari» non volessero
affatto «una evoluzione della vita italiana verso forme
meno imperfette di democrazia»?
Non c’è
da dubitarne. E allora perché afferma che, potesse tornare al 1910,
non si farebbe scrupolo di riscrivere Il ministro della
mala vita? Le sue critiche hanno
indebolito Giolitti aprendo la via al fascismo (ne «favorirono
la vittoria», dice), e ciò
nonostante pensa che fossero ugualmente necessarie? L’onestà
intellettuale, per Salvemini, imponeva costi così gravosi? La sua
biografia risponde: sì. Quale cruccio, allora? Quale senso di colpa? Credo
che ce lo riveli il seguente passaggio: «guarderei con
maggior sospetto a coloro che si compiacevano di quelle critiche».
È un termine appropriato, quel «compiacimento»?
Non è più probabile che fosse stato lui a compiacersi del fatto che
quel suo pamphlet incontrasse un plauso trasversale, a sinistra e a
destra? E non è più probabile, dunque, che nel 1945 Salvemini si
penta solo di quel suo peccato di orgoglio intellettuale, che dinanzi
alla tragedia del ventennio fascista rischia di essere rubricabile a
sciocca vanità? Lasciamo perdere, in fondo questa era solo una
digressione. Torniamo all’editoriale
di Cerasa, per il quale la «lezione di Salvemini»
torna buona ai nostri giorni, a biasimo di chi ha criticato i guasti
della Prima, della Seconda e della Terza Repubblica, rendendosi con
ciò «complice» –
sì, dice proprio «complice»
– dei barbari che oggi devastano il sancta sanctorum
della democrazia italiana: «La
fase storica è naturalmente diversa –
scrive Cerasa – ma a voler osservare con attenzione il
modo in cui chi doveva combattere gli anticasta è finito invece per
essere spesso complice degli anticasta, viene naturale ricordare una
riflessione fatta da Gaetano Salvemini alla fine della Seconda guerra
mondiale relativa al logoramento della democrazia liberale generato
dalla battaglia senza quartiere organizzata contro il giolittismo
prima dell’avvento del fascismo»; e qui segue la citazione
sopra riportata.
«La
fase storica è naturalmente diversa» serve
a stornare l’attenzione
dal fatto che, come vedremo, il parallelo è in realtà assai
sghembo. Perché, se non lo fosse, significherebbe che Cerasa, come
Salvemini in Giolitti, individua in Craxi, in Berlusconi e in Renzi
tre «corruttori della democrazia».
Verso chi erano rivolte, infatti, le critiche di chi denunciava un
deficit di democrazia in Italia? Se il parallelo non è sghembo,
perché non avrebbero dovuto rivolgerle ai quei «corruttori
della democrazia», visto che
neppure il senno del poi fa cambiare idea a Salvemini? Irricevibile,
allora, l’invito
con cui Cerasa chiude il suo editoriale: «Provate
a sostituire la parola “Giolitti”con la parola “casta”e
avrete forse chiaro perché quella che abbiamo cominciato a chiamare
casta in realtà non era altro che qualcosa di più prezioso: il
nostro amore per la parola democrazia».
Dovremmo
dedurne che Salvemini amasse Giolitti, ma non ne fosse conscio, visto
che gli dava del «ministro della malavita» nel 1910 e del
«corruttore della democrazia» nel 1945.
Salvemini
morirà nel 1957: avrà tempo per dare occasione a Cerasa di poter
dire che in fondo, seppur in fondo in fondo, amasse Giolitti? Per
dirla alla francese, manco per il cazzo.
Nel
1952, per Il Ponte, una rivista fiorentina, Salvemini firma un
lungo articolo dal titolo «Fu l’Italia
prefascista una democrazia?», nel quale c’è tutto l’impeto
antigiolittiano del 1910 e neanche un po’ del senso di colpa – se
senso di colpa era – del 1945. Ora, se ciò che viene dopo (1945) è
sempre da considerare più ponderato e saggio di ciò che viene prima
(1910) – così sembra farci intendere Cerasa – con ciò che viene
dopo il dopo (1952) dovremmo essere al culmine della ponderazione e
della saggezza. E cosa scrive, Salvemini, in questo articolo?
Giolitti
non è più il «corruttore
della democrazia»,
ma il «precursore»
di Mussolini. Il sistema giolittiano non anticipò cronologicamente
il regime fascista, ma ne fu la premessa. «La
differenza fra Mussolini e Giolitti era in quantità e non in
qualità. Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore
fu per Cristo: gli preparò la strada».
Proviamo anche qui a «sostituire
la parola “Giolitti” con la parola “casta”»?