domenica 3 febbraio 2019

Introduzione ad un pamphlet




Trovatemi uno cui non piaccia la musica. Non importa se fanciullo o vegliardo, facoltoso o indigente, colto o zotico, non importa se bianco, nero o giallo, e neppure se maschio, femmina o altro: a chiunque chiederete «ti piace la musica?», la risposta sarà immancabilmente un «sì», cui spesso seguirà qualcosa del tipo «certo», «è ovvio», «e a chi non piace?», eventualmente «che cazzo di domanda è?».
Si obietterà che un’eccezione c’è: in Afghanistan, nel 1996, insieme a pittura, scultura, danza, cinema e tv, i talebani non proibirono anche la musica? E questo non è accaduto anche a Mosul, con gli uomini dell’Isis? Per la Sunna la musica crea una sorta di ottundimento dei sensi e corrompe le menti, dunque – sarà l’obiezione – qualcuno c’è a cui la musica non piace. Eccezione apparente, perché i talebani hanno sempre ritenuto indispensabile salmodiare il Corano con quella particolare modulazione vocale, il taghanni, che in sostanza è canto, e dunque musica. In quanto all’Isis, ha mai diffuso un solo video di propaganda che a corredo non avesse una colonna sonora?
È evidente, quindi, che la musica piaccia anche a chi sostiene che andrebbe proibita, e la contraddizione si scioglie nel fatto che gli piaccia solo un certo tipo di musica, che in questo caso è quella dei maqamat ascendenti e discendenti per quarti di tono o per un tono e mezzo, particolarmente adatta ad accompagnare testi in lingua araba.
Diremmo che in questo caso siamo al grado estremo di quella generale propensione a preferire alcuni generi musicali ad altri: grado estremo perché qui se ne tollera solo uno, ma sul gradiente che in altri casi vede tollerarne due, tre, dieci o, molto raramente, tutti. Se infatti a «ti piace la musica?» tutti rispondono «sì», le cose cambiano notevolmente a chiedere «ti piace Richard Wagner?» o «ti piace Iggy Pop?»: lì le risposte saranno le più svariate, nell’ampia gamma che va dal «sì, lo adoro» al «no, mi fa cagare». E tuttavia non c’è dubbio che musica è il preludio del Tristan und Isolde e musica è Lust for life. Altrettanto evidente, allora, che col chiedere «ti piace la musica?» abbiamo sollevato una questione oziosa.
La stessa cosa accade col buonsenso, che, a citare la definizione a mio parere più esaustiva, sarebbe la «capacità naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto, saggio ed equilibrato, in funzione dei risultati pratici da conseguire» (Gabrielli, Hoepli 2018): chi mai dirà che non lo apprezza? Di più: chi mai dirà di non averne a sufficienza?
Cartesio dice che «ognuno pensa di esserne così ben dotato che perfino quelli che sono più difficili da soddisfare riguardo a ogni altro bene non sogliono desiderarne più di quanto ne abbiano» (Discorso del metodo), va’ a capire poi se è ironia o è fede in quella ragione che per quelli come lui è innanzitutto percezione immediata e intuitiva, già tutta in nuce a quel «sum» di cui dovrebbe essere capace anche l’ultimo dei fessi. Sta di fatto che anche a Cartesio dà da pensare la grande varietà di idee e azioni mosse da questo buonsenso che «fra le cose del mondo [sarebbe] quella più equamente distribuita», salvo l’essere costretti a stupirsi di «quante diverse opinioni su uno stesso oggetto possono essere sostenute dai dotti, senza che ce ne possa essere mai più di una soltanto che sia vera», trovandone spiegazione nel fatto che «la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che alcuni siano più ragionevoli di altri, ma soltanto da questo, che facciamo andare i nostri pensieri per strade diverse».
C’è modo di mostrare a tutti, fessi e dotti, la sola strada giusta, di modo che il buonsenso possa diventare cosa universalmente condivisa, non già nel solo ritenere di averne a sufficienza, ma anche nel trarne idee e azioni che vengano universalmente ritenute ineccepibili? Almeno per Cartesio, no. E infatti dice: «Non intendo insegnare qui il metodo che ciascuno deve seguire per ben giudicare la propria ragione, ma solo far vedere in che modo ho cercato di guidare la mia».
Parrebbe non esserci via d’uscita: tutti ritengono di essere in possesso della capacità di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto, saggio ed equilibrato, ma poi dobbiamo constatare che su nulla troviamo universale accordo, tanto meno in funzione dei risultati pratici da conseguire.
Come è possibile? È presto detto: nel rispondere «sì, è ovvio» a chi ci chiede «ti piace la musica?» c’è di implicito che la sola musica che possa piacermi sia quella che in effetti mi piace; allo stesso modo, nel pensare di avere buonsenso a sufficienza c’è la convinzione dell’ineccepibilità di ciò che si ritiene logico e opportuno.
C’è una bella differenza, si dirà, che è quella relativa al fatto che «piacere» attiene al gusto, cosa eminentemente personale, mentre invece sull’«opportunità» suggerita dalla «logica» non ci dovrebbero essere margini di discrezionalità. In realtà, la differenza si riduce ad un nonnulla considerando che «quod oportet mihi» può non «oportere tibi». Un nonnulla che acquisterebbe, invece, un peso enorme laddove fosse possibile stabilire «quod oportet omnibus». Di fatto, questo non è possibile, perché ogni rappresentazione di «bene comune» è funzionale a legittimare lo status quo esitato da un conflitto tra opposti interessi, facendosi espressione di quell’equilibrio che chi ne è uscito vincitore ritiene possa servire a perpetuare i vantaggi acquisiti con la vittoria. Perciò potremmo azzardarci a dire che la tanto richiamata contrapposizione tra buonsenso e senso comune non sia altro che la prefigurazione di un nuovo conflitto nel progressivo venir meno di un equilibrio che comunque per il momento ancora regge: al buonsenso viene a mancare il potere di imporsi come «quod oportet omnibus» conservando solo quello acquisito dalla consuetudine o dal credito che gli riserva l’ancora dominante autorità morale o politica, con ciò degradandosi lentamente a senso comune; di pari passo, viene progressivamente a imporsi l’istanza di un’opportunità che risponda a più pressanti interessi, animati da una logica che trova modo di affermarsi come meglio rispondente al perseguimento di un «bene comune» che sembra cominciare ad essere diversamente inteso, ma che in realtà risponde solo al fine di dare solidità di assetto a un nuovo ma comunque transitorio equilibrio.
Sto cercando di dire che buonsenso e senso comune sono la stessa cosa, ma colta in due diversi momenti della sua storia? Sì, ma il mio lettore avrà visto che sto largheggiando in cautela, perché anche lui sarà convinto di avere un più che solido buonsenso, e insinuare che tale solidità è aleatoria potrebbe offenderlo. Se il buonsenso, infatti, è la «capacità naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto, saggio ed equilibrato, in funzione dei risultati pratici da conseguire», affermando brutalmente che la «natura» è un concetto eminentemente culturale, e dunque storico, cioè del tutto contingente, che «logico» e «opportuno» non designano realtà autoevidenti, che «giusto», «saggio» e «equilibrato» subiscono nel tempo incessanti ridefinizioni – tutte in una: rilevare nel buonsenso il senso comune da venire – avrei qualche speranza di passarla liscia? Come minimo correrei il rischio di beccarmi l’imputazione di relativismo.
Già sento muovermi la più pesante delle contestazioni: «Ma tu non eri quello che credeva nell’infallibilità della logica? Cosa ti impedisce, adesso, di ammettere che il buonsenso non sia altro che il suo buon uso?». Provo a difendermi chiedendo: il significato che è da dare a «logico» nella definizione di «buonsenso» del Gabrielli è quello che procede dagli assiomi su cui regge la logica argomentativa o quello dell’accezione che l’aggettivo acquista come sinonimo di «ragionevole»? E dunque: il buonsenso sta nella persuasione che una ragione riesce ad ottenere in una quota maggioritaria delluditorio chiamato a dare assenso a un certo status quo o nellintrinseca ineccepibilità del procedere argomentativo che supporta la ragione proposta alluditorio? In altri termini: perché il buonsenso non riesce a superare i secoli restando inalterato? Perché nel IV secolo a.C. può darsi come «giusto, saggio ed equilibrato» il dichiarare «logico» e «opportuno» che io possegga degli schiavi, per poi smettere desserlo?
Se ancora non è chiaro questo procedere di senso comune in senso comune attraverso il loro incessante contendersi la palma di buonsenso, conquistandola e perdendola, potrà tornarci utile un articolo che qualche tempo fa è apparso in rete col titolo Come abbiamo perso la guerra del buonsenso, di cui qui non ha importanza dire chi sia lautore, come daltronde non ne ha avuta dire chi ritenesse cosa di sano buonsenso possedere schiavi nel IV secolo a.C.: ha importanza sottolineare quanto disperatamente si possa rimanere aggrappati al senso comune che un tempo poté menar vanto di buonsenso. Stessa disperazione di chi il 5 maggio piangeva «non per la maldestra perdita di uno scudetto, e neppure perché finisce il sogno politico di questo Pd e della sinistra dei quarantenni, ma perché finisce un mondo che è fatto di letture e buone maniere, di educazione e di civiltà» (la Repubblica, 6.3.2018); qui, con due etti appena di compostezza in più, «mentre si inseguiva il cambiamento ai piani alti della politica e delle istituzioni […] qualcosa cambiava per davvero. E cosa? Non sarà forse il buonsenso [...] ma è senz’altro il senso comune». In entrambi i casi mi pare evidente che «la guerra del buonsenso» sia considerata persa per la sconfitta di chi ne sarebbe stato, e continuerebbe ad essere, il solo legittimato a rappresentarlo, direi quasi ad incarnarlo, per una sorta di superiorità antropologica: non già il corrente avvicendarsi di vittoriosi persuasori delluditorio in forza di argomenti più efficaci, ma la catastrofe della ragione nella sconfitta di chi la deteneva per unautoinvestitura a vita. Non il fisiologico corso del «ragionevole» che da incontestabile buonsenso diventa sempre più intollerabile senso comune, ma indefettibile e inemendabile senso del vero, del bello e del giusto che collassa nel venir meno della capacità persuasiva dell’élite che ne era espressione.
Come rappresentare questa élite? C’è chi ha provato a farlo a questo modo: «Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri... Le élites sono loro, son quegli umani lì». Poi, al capoverso seguente: «Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente». Anche qui non ha importanza chi sia lautore del virgolettato, piuttosto cè da chiedersi se tra i più di 500 libri che certamente ha in casa ce ne sia almeno uno di Mosca, Pareto o Michels, di Mannheim, Burnham o Djilas, di Hunter, Dahl o Bachrach, insomma anche di uno solo degli autori che da un secolo in qua hanno affrontato il problema delle élites. Ricchi e potenti, chi? Gli insegnanti universitari e i preti? I medici, i giornalisti e gli avvocati? Ma questo è tuttal più ceto medio, se non addirittura medio-basso. Perché darci dellélite una rappresentazione così vicina, perfino coincidente, a quella del ceto medio? Il fine è scoperto nella descrizione che ci è data del sistema che fino a poco tempo fa rendeva il ceto medio il più fedele esecutore delle politiche decise dalle élites. È il sistema che, su queste pagine, ho in due o tre occasioni stretto nella sintesi di «più pietanze alle élite, più avanzi al ceto medio, più briciole ai poveri». La sintesi, qui, è assai più elegante: «La gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere... Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto funzionava, era saldo, produceva risultati. Adesso la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più». Finché ha funzionato, cera un oggettivo interesse del ceto medio a far proprie le ragioni delle élites, che daltronde avevano il loro interesse a rinnovarsi cooptando di tanto in tanto nei loro ranghi chi nel ceto medio eccelleva per meriti, peraltro funzionali alla conservazione dello status quo. Il meccanismo che assicurava stretta relazione tra produzione di pietanze e distribuzione di avanzi consente oggi di insinuare che élites e ceti medi appartenessero alla stessa classe: stesso errore che a Versailles si sarebbe fatto considerando nobili i lacché per la ricchezza delle livree che indossavano. Ma come sono, questi lacché che sembrano conti e marchesi, «osservati da vicino»? «Studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole. Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni, benché spesso con l’ausilio di psicofarmaci. Forti di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche interazioni con il resto degli umani: i quartieri in cui vivono, le scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano: tutto, nella loro vita, delimita una zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi». A chi si attaglia meglio una descrizione del genere, oggi? Ai veri padroni del mondo o a quanti negli ultimi decenni sono riusciti, in un modo o nellaltro, a resistere allimpoverimento del ceto medio cui appartenevano? Una descrizione del genere si attaglia meglio agli otto uomini che posseggono la metà di tutta la ricchezza mondiale o agli otto amici, iscritti al circolo Pd dei Parioli, che prendono laperitivo lamentandosi della bruttura dei tempi?
Sembra sfuggire, qui, che lélite è il cavallo, mentre i pidocchi che sono ospitati nella sua criniera sono del tutto irrilevanti, anche quando presi dal delirio di averne in mano le redini. Sia come sia, il patto è saltato. E perché? Cè stata la crisi economica: «Intanto le élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente. Possiamo dire, ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente questo? Non lo so con certezza, ma è vero che la percezione della gente è stata quella. Dunque, superata l’emergenza, la gente si è presentata a regolare i conti, per così dire. È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Non sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione crediti». Perché stupirsi che tutto questo abbia bisogno di un nuovo buonsenso a dichiararlo «logico» e «opportuno»? E cosa salva dallessere degradato a senso comune quel che ha perso autorevolezza, ma reclama rispetto in forza di una ragionevolezza che ha perso tutte le sue ragioni?
Una domanda come «ti piace la musica?», luso di una categoria come quella del «buonsenso» per rappresentare la storia in progresso o in regresso, il conferimento del titolo di «élite» allodierna versione di quella che Lenin definiva «aristocrazia operaia»: dove voglio andare a parare illustrando linsulsaggine della domanda che nel reparto cd e vinili della Feltrinelli il quarantenne rivolge alla sbarbina per attaccar bottone, la malcelata ansia del filosofo da intrattenimento preoccupato per limprevisto ricambio del pubblico in platea, lassai confusa idea di «élite» che nutre lo scrittore che invece sa descrivere tutte le cento sfaccettature di un aggettivo di Gadda?
Primancora: cosa hanno in comune questi tre infortuni di tutta millantata disinvoltura? Direi che in tutti e tre i casi sia evidente la mancata percezione di uno slittamento del buonsenso a senso comune. Di cosa sia espressione questo slittamento, sè già detto, ma converrà ripeterlo: al mutare delluditorio, un argomento può perdere forza di persuasione. Può conservare tutta la sua validità sul piano dellassiomatica che regge la logica formale, ammesso che prima lavesse, ma perde la capacità di apparire «logico» nellaccezione che gli dà il Gabrielli: perde il potere di dimostrare «opportuno» quel che intende persuadere lo sia in funzione dei «risultati pratici da conseguire». Le ragioni che si fanno carico di rappresentare come «giusto, saggio ed equilibrato» l’interesse diventato preponderante chiedono e ottengono di essere dichiarate ragionevoli. In modo forse un po’ brutale potremmo dire che il buonsenso cambia padrone.
Sento tornare limputazione di relativismo. Se poi ho trovato il mio lettore poco disposto a concedere che ogni norma risponde alla necessità di far sembrare conveniente a tutti ciò che conviene a uno, a pochi o a molti, e solo per quello lasso di tempo in cui si è in grado di ottenerlo, può darsi mi si sia addebitata pure laggravante di una strisciante forma di nichilismo. Cercherò di difendermi da queste accuse producendo un esempio che a mio modesto avviso illustra a dovere la perenne fluidità di quella che Machiavelli chiama «realtà effettuale della cosa», dimostrando quanto sia folle pensare di poterle dare un durevole invaso.
Due o tre settimane fa, una prestigiosa accademia che per unanime parere «si è sempre distinta per lo strenuo impegno a mantenere “pura” la lingua italiana» si è lasciata tentare dal definire «lecita» la «costruzione transitiva di sedere» non vedendo alcun «motivo per proibirla e neppure, a dire il vero, per sconsigliarla»: nelleterna contesa tra «prescrittivisti» e «descrittivisti», un punto decisamente a favore di questi ultimi. Dal popolo del web, che è tanto «descrittivista» da esser solito bollare con lepiteto di «grammar nazi» anche il più mite «prescrittivista» si è prontamente, quanto inaspettatamente, levato un coro di proteste che ha costretto il presidente onorario dellaccademia a molto imbarazzate precisazioni, fra le quali spiccava quella di non avere alcuna autorità nell«“emettere verdetti” su determinate espressioni, “prescrivendole” o “mettendole al bando”». In sostanza, nella persona del suo più autorevole rappresentante, laccademia – insieme – rigettava il tradizionale ruolo di arbitro indiscusso nelle controversie in questioni relative all’impiego della lingua italiana e negava che ci fosse violazione nella costruzione transitiva di un verbo intransitivo, tanto più patente per la contraddizione in termini: nello stesso tempo, veniva meno un certo tipo di «élite» e un certo tipo di «buonsenso». A fronte delle istanze di quale uditorio? Il pamphlet che dovrebbe seguire a questa introduzione, ma che non sarà mai scritto, risponderà a questa domanda, con ciò facendo luce – mi auguro – sulle tre questioni cui i nostri tempi ancora stentano a dare soluzione: se la norma debba scendere dall’alto o salire dal basso, se la democrazia sia ancora possibile, se una guerra civile che non faccia neanche un morto possa mai finire.
Prego il mio lettore di mettersi comodo per leggere con la massima attenzione tutto quello che non sto per scrivere.

venerdì 28 dicembre 2018

Animo, boys!


Non sono mai riuscito a penetrare la ratio che imporrebbe allo stato un aiuto alle associazioni di volontariato, foss’anche nella forma di agevolazioni fiscali. Nulla contro il volontariato, sia chiaro: chi è animato dalla nobile intenzione di spendersi in favore di chi versa in condizioni di bisogno ha il sacrosanto diritto di poterlo fare. Tuttavia, perché sulla nobiltà di quest’intenzione non pesi alcun sospetto di un secondo e assai meno nobile interesse, non sarebbe opportuno che le associazioni di volontariato rinunciassero ad ogni forma di sostegno in denaro pubblico? Non va così: il sostegno è preteso, e la pretesa è spesso accompagnata dalla minaccia di sospendere ogni attività di volontariato nel caso in cui il sostegno venga meno. In sostanza, parrebbe che la nobile intenzione dipenda esclusivamente dalla disponibilità dello stato a dichiarare l’incapacità di far fronte a certi bisogni, appaltandone la cura a chi si dichiari disponibile a vicariarne il compito, ma in cambio di qualcosa, sennò la nobiltà di chi dovrebbe vicariare scema. Stanti così le cose, come biasimare il sospetto che chiunque gestisca un associazione di volontariato sia giocoforza motivato da altro che una nobile intenzione? Sospetto che ovviamente non può e non deve sfiorare i singoli volontari, che quasi certamente continuerebbero a spendersi in favore di chi versa in condizioni di bisogno anche al di fuori di un contesto associativo, ma che invece inevitabilmente pesa su chi gestisce l’organizzazione di volontariato facendone dipendere l’impegno dall’ottenere o meno dallo stato ciò che ritiene indispensabile per il prosieguo delle attività.
Si tratta di una questione più volte affrontata su queste pagine, spesso in relazione alle reiterate richieste di sostegno avanzate dalla più consistente «associazione di volontariato» operante in Italia. Dall’uso delle virgolette si sarà inteso che è davvero difficile considerare la Chiesa di Roma come una semplice associazione di volontariato. Sulle motivazioni che sostengono l’attività dei volontari che al suo servizio sono impegnati nelle più svariate forme di aiuto a chi versa in condizioni di bisogno sarebbe odioso anche il minimo sospetto, ma come ritenere infondati quelli belli grossi sulle sue gerarchie alla luce delle continue prove che sulla carità è venuto a costruirsi un gigantesco affare che da secoli ingrassa un vero e proprio mostro? Ne resta per qualche minestrina ai poveri, ma complessivamente lo stato sgancia otto miliardi di euro ogni anno. Un’enormità rispetto a ciò che destina alle altre associazioni di volontariato, che tuttavia, nel loro piccolo e piccolissimo, riproducono la stessa dinamica.
Ora, chissà come, a un governo che si è costruito fama di cosaccio brutto, sporco e cattivo (soprattutto cattivo) era venuta l’idea di fare finalmente chiarezza, lasciando nuda la nobile intenzione. Non è durato più di ventiquattr’ore: alle associazioni di volontariato, e ovviamente alla più grossa, continueranno ad essere assicurati aiuti da parte dello stato, così, tanto per riconfermare la sua incapacità di far fronte ai bisogni di alcuni cittadini, in piena continuità con tutti i governi della Repubblica. A far fare dietrofront è bastato un editoriale di Avvenire e un’intervista al presidente della Cei.
Animo, boys! Sembrano fascisti, ma sono democristiani. Ed è per questo che dureranno. Poi, sì, fate pure. In fondo i più vecchi di voi hanno dato del fascista anche a Fanfani e Andreotti.  

giovedì 27 dicembre 2018

Duole constatare che ne abbiamo perso un altro


Luomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro non godeva delle protezioni che la legge n. 6 dell’11.1.2018 dispone per un «testimone di giustizia», per la semplice ragione che non lo era. Il «pentito» era suo fratello, lui sì pienamente rispondente alla definizione di «testimone di giustizia» che la legge integra allart. 2 con quella di «collaboratore di giustizia», con quanto ne consegue per le misure di massima protezione, previste dallart. 5, di cui egli gode già da tempo. Luomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro, invece, ricadeva nella fattispecie di quelli che allart. 1 sono definiti «altri protetti», per i quali la legge dispone solo misure di sostegno economico, previste dallart. 6.
Giusta o no che sia la legge, che sia alla Camera che al Senato ha avuto relatori del Pd, questo è quanto il Parlamento della scorsa legislatura, in cui Lega e M5S erano minoranza, ha ritenuto fosse giusto assicurare alluomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro: nessun cambio di identità, nessuna scorta armata, solo un assegno di mantenimento e il fitto di una casa lontana dalla piana di Gioia Tauro. Andava avanti così dal 2008, senza che nessuno dei ministri dellInterno (Amato, Maroni, Cancellieri, Alfano, Minniti) abbia mai ritenuto fosse necessario qualcosa in più.
Strano che per i killer sia stato tanto facile ucciderlo? Qui direi che la risposta sia estremamente semplice: per niente. La domanda più difficile è unaltra: è in qualche modo rintracciabile nellaccaduto una responsabilità delle forze dellordine o del Ministero dellInterno? Un corsivo su Il Foglio di giovedì 27 dicembre parrebbe averla individuata, e non già nella legge, non già nei ministri dellInterno che si sono succeduti dal 2008 ad oggi, ma in Salvini. Vediamo perché.
«Il lavoro di protezione dei familiari di collaboratori di giustizia è fra i più complicati e compete al Ministero dell’Interno». Giusto.
«Occorre tenere presente che il parente che accetta di condividere la sorte di chi decide di collaborare accende anch’egli un credito con lo stato divenendo un bersaglio dei mafiosi». Giusto anche questo.
«Viene spostato nottetempo prima possibile, prima ovviamente che la notizia sia trapelata». Anche qui nulla da eccepire: non sappiamo se nel 2008, quando luomo che laltrieri è stato ucciso fu spostato a Pesaro, furono impiegate «tre auto, una con due agenti, un autista e un armato, altre due con agenti di un corpo speciale muniti di armi corte e lunghe», come il corsivo dice sia indispensabile, ma questo attiene a quanto era indispensabile dieci anni fa, dovremmo chiedere ad Amato se ci ha pensato.
«Altri hanno già predisposto un appartamento e documenti con nomi nuovi...». Ecco, qui salta la linearità del ragionamento: le misure di protezione che la legge assicurava al «protetto», parente del «collaboratore di giustizia», non prevedevano il cambio di identità, tantè che sul citofono di casa luomo che laltrieri è stato ucciso a Pesaro aveva nome e cognome suoi. Giusta o no che sia la legge, per lui non era previsto dargliene di nuovi.
Ma che altro era indispensabile ed è mancato? «Seguirà una routine di controlli che coinvolgeranno i presidi di polizia del posto di arrivo ma qualcuno della Dia, o del Ros o dello Sco, ogni tanto si affaccerà per verificare che tutto funzioni a dovere». La legge lo prevede per i «testimoni di giustizia», non per gli «altri protetti». Daltronde, anche nel caso dei «testimoni di giustizia», comè possibile impedire che vengano uccisi senza una scorta che li protegga ventiquattrore al giorno? E quanti sono i casi in cui neppure questo è bastato?
E dunque dovè il problema? È presto detto: «quello che è successo a Pesaro mostra che da questo punto di vista siamo nella Nutella fino al collo». Un modo molto fine di far eco alle accuse strumentali mosse a Salvini. Al quale, e a ragione, si possono imputare i peggiori difetti, umani e politici, siglando limputazione, e a ragione, con un bel #salvinimerda, giusto per non essere sfiorati dal sospetto di criptoleghismo, ma in quel che è accaduto laltrieri a Pesaro, di grazia, che centra?
Neanche varrebbe la pena di fare il nome di chi firma il corsivo de Il Foglio dal quale ho tratto i brani salienti, basterebbe la segnalazione dell’ennesimo esempio di come la faziosità distorca i fatti piegandoli a proprio piacimento. Il fatto è che a firmarlo è Massimo Bordin, di cui su queste pagine si è spesso avuto modo di lodare l’onestà intellettuale. Duole constatare che ne abbiamo perso un altro.

domenica 23 dicembre 2018

I ristoranti continuano ad essere pieni



Sei mei fa, l’Istat informava che in Italia 5.058.000 individui vivono in una condizione di «povertà assoluta», mentre altri 9.368.000 in quella di «povertà relativa»: al netto di numeri e virgolette, si tratta di un quinto del paese cui manca il minimo indispensabile per una vita appena dignitosa, il che di solito non lascia terza opzione tra rassegnazione e rivolta.
Tanto finora ha prevalso la prima da renderci perfino inimmaginabile la seconda, consentendoci così di sottovalutarne le possibili conseguenze, e dunque di lasciare senza soluzione la questione, che, sempre secondo l’Istat, va aggravandosi da anni, e senza alcun cenno ad invertire la tendenza. Cè di più: tanto finora ha prevalso la rassegnazione sulla rivolta che in molti nasce il sospetto che quelli dellIstat siano numeri ingannevoli.
Uno è Federico Geremicca, vicedirettore de La Stampa, che qualche giorno fa, a Laria che tira, diceva: «Posso dire una cosa politicamente scorretta? Ho dei grossi dubbi sui numeri di quanti italiani siano in povertà assoluta. È sgradevolissimo dirlo, ma i ristoranti sono pieni». Per chi può permettersi di andare al ristorante sarà argomento indiscutibilmente forte, ma solo fino a quando ai poveri non verrà a noia la rassegnazione, e non già in ragione del pretendere migliori condizioni di vita, che pure sarebbe legittimo, ma del sentire in forse la loro mera sopravvivenza, assalteranno il ristorante in cui Geremicca è riuscito faticosamente a trovare un posto e lo spettineranno più di quanto già lo sia.
Fino ad allora, se mai verrà quel giorno, pare ci si debba rassegnare al fatto che l’idea di povertà non riesca proprio a prendere forma in chi povero non è. Sarà che i poveri si sono affezionati all’invisibilità cui li ha condannati la nostra cattiva coscienza, sarà che il nostro egoismo è così miope da non riuscire a comprendere che le diseguaglianze intollerabili mettono a rischio anche quelle che ci torna comodo tollerare, sta di fatto che la povertà sembra un problema che debba preoccupare solo i poveri. Così, pensare a mettergli due soldi in mano perché continuino a star buoni ci sembra un folle sperpero, mentre in realtà dovrebbe essere considerato un investimento a salvaguardia di quell’ordine pubblico che regge sulla tollerabilità delle diseguaglianze.
Le ragioni che spingono a considerare inutile questo investimento, se non addirittura dannoso, sono note. Quella che pare avere maggior credito è che dare soldi in cambio di niente favorirebbe il parassitismo. Vero, ma si è in grado di creare ex novo, e in tempi brevi, 14.426.000 occasioni di lavoro? Ancora: servirebbe un’enorme quantità di denaro, che giocoforza porterebbe ad un appesantimento della già pesante pressione fiscale sui ceti produttivi, sennò ad un ulteriore incremento del già abissale debito pubblico, con reiterati sforamenti del deficit in manovra di bilancio e quanto ne conseguirebbe in procedure di infrazione da parte della Comunità europea, in perdita di fiducia da parte dei mercati, in crollo del sistema bancario, ecc. Vero anche questo, ma non sarebbe altrettanto catastrofico trovarsi all’improvviso dinanzi a milioni di disperati non più disposti a tollerare la propria condizione? Come lamentarsi del fatto che, rinunciando ancora a darsi alla disperazione, cedano alle promesse di questo o quel demagogo? Più di tutto: come ci si può stupire del fatto che chi non ha neppure lindispensabile sia insensibile al fatto che dargli il necessario comporti un aumento dei tassi di interesse bancario? Come ci si può scandalizzare del fatto che il clima sociale sia pesante, gravido di invidia e di rancore?
Unultima domanda: ma davvero chi ci ha portato a tutto questo nutre lillusione che la caduta del governo giallo-verde possa restituirci lItalia antecedente al 4 marzo? In attesa che prenda forma e acquisti consistenza un soggetto politico capace di farsi seriamente carico dei problemi fin qui sempre elusi, auguriamoci che grillini e leghisti restino saldi al governo: come hanno dimostrato le vicende che hanno portato all’approvazione di quest’ultima manovra, pur faticosamente sono stati in grado di tenere i poveri alla larga dal ristorante in cui cena Geremicca; fallissero prima che sia pronta una soluzione seria alla povertà, allora sì che avremmo da attenderci il peggio, un fascismo vero, contro il quale avremmo solo le «madamine», la Confindustria e la brigata partigiana twittarola.
Ma li avete visti? Ma certo che li avete visti, avete rinfacciato loro di essersi fatti scrivere la manovra dagli euroburocrati di Bruxelles. Che razza di fascisti sarebbero? È la loro dimensione estetica che vi inganna: sono democristiani, fanno politica economica con le toppe, tutto sommato in difesa del sistema. Fateveli piacere per qualche anno, al momento non c’è di meglio.   

martedì 18 dicembre 2018

«Ama il prossimo tuo» (Rap prenatalizio)


Presentarsi ad un comizio di Salvini con un cartello sul quale vi sia scritto «ama il prossimo tuo» è una provocazione estremamente intelligente, perché denuncia con un disarmante candore la patente contraddizione che cè tra limpegno di governare «rispettando gli insegnamenti contenuti nel Vangelo» (Milano, 24.2.2018), nel quale si legge un inequivocabile «ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25, 43), e la xenofobia, da sempre tratto peculiare della Lega, oggi dissimulata in quel «prima gli italiani» che tenta di farle velo. E tuttavia provocazione resta.
Cosa mette in conto di poter provocare, una provocazione del genere? Dipende dal tipo di leghista che si provoca, direi.

Nel caso del leghista da talk show, infatti, possiamo immaginare la reazione con un buon margine di previsione. Molto probabilmente dirà che non cè alcuna contraddizione, perché anche il Catechismo della Chiesa Cattolica fa presente che «le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere lo straniero nella misura del possibile» (2241). E a chi spetta stabilire la «misura del possibile», se non a chi governa?
Questo, nel caso in cui il leghista da talk show sia un tipino molto fine, perché, se non lo è, dirà che, per numero di migranti accolti, lItalia è assai più cristiana del Vaticano. Qui si fermerà, incassando compiaciuto il meritato applauso, che, se troppo caloroso, potrebbe trasformarlo per qualche istante in un leghista da social network, facendogli scappar di bocca un «Bergoglio non rompesse il cazzo», un «Saviano ne ospitasse una dozzina nel suo attico a New York», un «Boldrini andasse a farsi una gangbang con venti senegalesi», ecc. A onor del vero, tuttavia, occorre dire che questo ormai accade sempre più raramente: il salviniano televisivo va migliorando notevolmente nel controllo dellistinto, e cè da supporre che migliorerà ancora, finendo col sublimare il Borghezio che si porta dentro in qualcosa a metà strada tra un Rinaldi e un Fusaro.
Sul piano antropologico non sono ancora maturi i tempi, ma prima o poi, vedrete, avremo addirittura il leghista da talk show che ci proporrà una più corretta esegesi evangelica: «prossimo» – dirà – viene da «proximus», che va tradotto con «il più vicino», «e chi ci è più vicino, caro Formigli, un negher del Ghana o un esodato di Brembate?», e lì probabilmente Formigli rimarrà spiazzato.

Suppongo sia intuibile che dal leghista da comizio, invece, non ci si potrà attendere niente del genere. Con o senza lelmo cornuto in testa, con o senza il fascio littorio tatuato in petto, che tipo di risposta è immaginabile dia, in Piazza del Popolo, il leghista da comizio? Gli passa davanti il tizio col cartello sul quale è scritto «ama il prossimo tuo»: come reagirà? Può darsi che neppure riesca a cogliere la provocazione, perché troppo intelligente (la provocazione, dico). Ma può darsi pure che la colga. In tal caso, il candore con la quale la provocazione è messa in atto sarà abbastanza disarmante da disarmarlo?

Non mi si fraintenda, so bene che, per il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, un comizio cade nella fattispecie di «riunione non privata» (art. 18), alla quale dunque può partecipare chiunque. So altrettanto bene che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» (Costituzione, art. 21), con quanto ne consegue per la libertà di esprimere anche il proprio dissenso a ciò che si ritiene lo meriti, ovviamente se mondato da tutto ciò che costituisca offesa, insulto, ecc. Direi che, in combinato disposto, queste norme mi consentono ampiamente di andare ad un comizio della Lega con un cartello sul quale vi sia scritto «ama il prossimo tuo», ma pure di tifare Roma nella curva dello Stadio Olimpico che ospita i tifosi della Lazio, e senza che nessuno possa torcermi un capello fino alla fine del comizio o del derby.
In teoria, ovviamente. Perché è probabile che questo mi possa essere impedito da due o tre poliziotti che mi prendano di peso e mi trascinino via dalla curva dello stadio o dalla piazza, ritenendo prioritaria la tutela della mia incolumità fisica rispetto alla libertà di poter far presente a Salvini che cè contraddizione tra il Vangelo e il Decreto Sicurezza o di cantare a squarciagola «Grazie, Roma!», quando la Roma segna, se segna. Nel secondo caso, sarà lecito da parte mia il sospetto che quei poliziotti abbiano voluto ledere un mio diritto, perché laziali o alle dipendenze della Società Sportiva Lazio Spa? Sarò autorizzato a credere che le ragioni d’ordine pubblico che mi verranno offerte a motivare il loro intervento siano in realtà solo una scusa per odiosamente conculcare la mia libertà di espressione? Sarei un fesso, non credete? E allora perché devo credere che il tizio col cartello sul quale vera scritto «ama il prossimo tuo» abbia subìto un torto nellessere allontanato da Piazza del Popolo? Di più: perché è in questo episodio che sarei autorizzato a leggere i prodromi di una dittatura?

Chi se ne sente autorizzato? Prendo a esempio Marco DAmbrosio, in arte Makkox, che qualche giorno fa twittava: «Non visiono mai i pezzi di Diego [Bianchi, in arte Zoro] prima della puntata [di Propaganda live]. Ma, laltroieri, Diego, al montaggio, mi ha chiamato e mi ha detto: “Marco voglio farti vedere una cosa”. Ho pensato: mò in piazza, ma prima o poi ci verranno a prendere a casa per una scritta, un disegno, una parola».
È un tweet fesso o cosa? Per meglio dire: paventare la dittatura leghista sta diventando un role-playing game o è unansia vera, genuina, onesta? So bene che la domanda può risultare offensiva. Diciamo che, in un contesto di vibrante allerta antifascista come quella che pare essere diventata urgente premura di ogni blogger perbenino, è una domanda che corre gli stessi rischi che correva in Piazza del Popolo il cartello con su scritto «ama il prossimo tuo», perciò nel proseguire mi appello alla libertà di espressione che qui non dovrebbe essermi negata per il solo sollevare la questione di quella che mi pare una patente contraddizione. Perché suppongo sia evidente la contraddizione tra il sentirsi alla vigilia di un altro Ventennio e il pensare che si possa scansarlo con trovate situazionistiche del genere ideato in Piazza del Popolo o con le battutine salaci e gli sferzanti sarcasmucci di un salottino televisivo.

Ecco direi di essere arrivato al punto: mi dà ragion di credere che nessun fascismo sia alle porte il fatto che chi gode dellaccredito di antifascista permanente si comporti in modo davvero poco serio. Se fascismo avrà da essere, dunque, sarà altrettanto poco serio, forse sarà addirittura altrettanto divertente. E giacché sarà possibile solo come espiazione delle colpe di una sedicente democrazia non allaltezza delle istanze popolari – sennò che razza di fascismo sarebbe? – vorrà dire che espieremo con gaiezza.

mercoledì 5 dicembre 2018

«Meglio 5 stelle che un milione di gilet gialli»


Cinque anni fa, su queste pagine, commentavo una frase che a Beppe Grillo aveva procurato più d’uno sghignazzo: «Ho incanalato tutta la rabbia in questo movimento. Dovrebbero ringraziarci: se noi falliamo l’Italia sarà guidata dalla violenza nelle strade». Dicevo che c’era poco da ridere: eravamo di fronte al consueto «presentarsi come forza d’ordine che ha incorporato la violenza che ha cavalcato e fomentato, facendosene forte, con tratto demiurgico, per promettere di neutralizzarla, ma in cambio del potere»; e aggiungevo che si era in presenza dellennesimo «partito che si candida[va] a riassorbire in sé i conflitti sociali [facendosi] garante dellordine che sul piano economico li riconduce al sistema corporativistico del partito-nazione», dandone prova in unaltra affermazione fatta da Beppe Grillo nella stessa occasione: «Arrivano le categorie da me… I notai, i farmacisti, i commercialisti… Dicono: “Siamo 20.000, ci dica cosa fa per noi, così poi le vediamo se darle il voto”… Guardate che avete sbagliato la domanda… Voi venite nel movimento, vi iscrivete, vi mettete così [e indicava i candidati del M5S che stavano in piedi alle sue spalle ad ogni tappa dello Tsunami Tour], vi votano, andate in Parlamento e portate avanti voi gli interessi della vostra corporazione…». Un sistema che si prefiggeva di evitare ogni sorta di conflitto sociale facendone venir meno la stessa ragione, perché quando cè coincidenza di nazione e partito, insieme a quella di partito e stato, che senso ha uno sciopero o una qualsivoglia altra forma di rivendicazione o di protesta? Nemmeno più unopposizione ha un senso. È fatta pace sociale: puzza un po di stato organico, se non di dittatura, questo sì, ma è pace sociale.

Veniamo ad oggi. Da chi vi aspettereste, di fronte ai torbidi che infiammano Parigi, un sostanziale – ancorché inconscio e inammissibile – avallo al progetto di società che aveva in testa Beppe Grillo? Vi do un aiutino: lo fa con un articolo che per titolo ha «Meglio 5 stelle che un milione di gilet gialli». Gian Luigi Paragone? Mario Giordano? Luca Telese? Macché, lo firma Giuliano Ferrara, che del M5S schifa tutto, tranne la pace sociale che al momento il M5S ci assicurerebbe per aver incanalato la rabbia degli scontenti in qualche innocuo vaffanculo. Entrambi – Grillo e Ferrara – facce della stessa Italia, quella che i conflitti sociali preferisce non vengano consumati, per essere sublimati in una quiete pubblica che somiglia a un museo delle cere. 

Il pericolo fascista, ancora


Se, con Umberto Eco, ammettiamo lesistenza di un «fascismo eterno», di cui le forme passate, presenti e future di fascismo sarebbero solo precipitati storici, siamo sollevati dal dovere di capire come questo o quel fascismo abbia modo di realizzarsi, e perché: «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni», che è quanto fa «eterno» il fascismo, avrebbero bisogno solo di condizioni storiche favorevoli per darsi ipostasi in una dimensione politica. Con ciò dovremmo concedere che «un modo di pensare e di sentire» sia possibile al di fuori del contesto sociale che lo produce e gli dà ragion dessere, che le «abitudini culturali» precedano la costruzione della società che le fa proprie, che il fascismo sia in qualche modo innato perché inscritto nella costellazione di certi «istinti» e di certe «pulsioni» che sono antecedenti al loro precipitare nella storia, e che la storia può dunque limitarsi a sopire, quando è in grado di farlo, sennò a farsene accendere, e bruciare.
Esagero col dire che questo «fascismo eterno» configura una vera e propria teodicea? Ne trovo una conferma nel fatto che spesso gli si attribuisce il carattere di «male assoluto», dove è evidente che «assoluto» non rimanda solo alla pienezza del «male» , ma anche al fatto desserlo in sé e per sé, come realtà incondizionata da qualsivoglia altro fattore. In buona sostanza, col «fascismo eterno» di Umberto Eco, siamo dinanzi a una concezione idealistica del fascismo, e la cosa divertente – si fa per dire – è che, cambiandone il segno valoriale, essa è in tutto coincidente a quella che del fascismo ci è stata offerta da Giovanni Gentile. Cambiandone il segno valoriale, dico, perché solo un giudizio di valore fa la differenza tra la «lista di caratteristiche tipiche» che il primo ascrive al «fascismo eterno» (ne contempla 14) e le 13 «idee fondamentali» di cui il secondo fa elenco per la pagina dellEnciclopedia Italiana dedicata a «La dottrina del fascismo». Per entrambi, infatti, il fascismo è unentità metastorica: in Gentile, «ha una forma correlativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero», mentre in Eco arriva a fregiarsi del prefisso «Ur-» («Ur-Fascismo») per darsi connotato di entità ancestrale.
Già in questo io intravvedo un enorme pericolo per chi, dando un giudizio negativo razionalmente argomentato sullesperienza del Ventennio fascista, si ponga come scopo quello di dare il proprio contributo a che quellesperienza, seppur in altre forme, non si rinnovi. Se, infatti, si attribuisce al fascismo un che di metastorico (psichico o biologico che dir si voglia, perché a questo in fin dei conti si riduce la ragione del suo poter essere «eterno»), ogni antifascismo si dichiara perdente in partenza, perché tutto ciò che è dato come «ab-solutus» è per definizione destinato a non aver «solutio», se non momentanea, o fallace.
Se ne ha riprova nel fatto che non si ha traccia di un «fascismo eterno» nella riflessione degli uomini che si opposero al regime del ventennio fascista: per essi il fascismo non aveva alcuna dimensione metastorica, anzi era loro costante cura la denuncia della mera retorica in tutto ciò che gliene concedeva una. È solo dopo la caduta del regime fascista che comincia a farsi strada lidea di un fascismo come «male assoluto» che si incarna nellumano, e questo avviene per costruire una mitologia dellantifascismo in grado di assicurare un saldo pilastro etico alla neonata repubblica. Dopo ventanni di dittatura, infatti, era comprensibile che Resistenza e Liberazione si dessero un che di mistico perché una libertà di cui si era smarrito il senso acquistasse il valore che ha il premio posto in palio tra Bene e Male: perché fosse «assoluto» l’uno, era necessario lo fosse anche l’altro.
Premura comprensibile, ma non priva di rischio, come daltronde sè reso evidente, dal 1945 ad oggi, ogni qual volta si è evocato il «pericolo fascista» non già come il configurarsi di una condizione di crisi in grado di trovare una soluzione in questo o in quel tipo di fascismo, ma come bestia uscita dalla gabbia mal sorvegliata, come ritorno del rimosso, come rigurgito dellirrazionale che sempiternamente luomo cova in seno. Suppongo non sia difficile capire quale vantaggio si conceda in tal modo alla soluzione di tipo fascista che viene offerta come risposta a una condizione di crisi.
È un errore che si sta facendo anche in questi ultimi mesi, e questa voleva essere solo la premessa allanalisi della debolezza intrinseca alla posizione di chi si oppone alla «cosa giallo-verde» come a cosa (neo-)fascista.

[segue]

mercoledì 14 novembre 2018

La quarta corda dell’ukulele. E la terza.


Coi sondaggi che già da alcuni mesi registrano un lento ma progressivo calo dei consensi al M5S rispetto al risultato uscito dalle urne il 4 marzo (siamo ormai giunti a una perdita di quasi cinque punti percentuali) è comprensibile che lo stato maggiore pentastellato attendesse coi nervi tesi come corde di ukulele (lascerei in pace il violino, che è strumento serio) lesito del processo che vedeva Virginia Raggi accusata di falso ideologico: una condanna avrebbe messo fine allesperienza capitolina nel modo più indecoroso per un movimento politico che sulla fedina penale pulita ha costruito buona parte della sua fortuna, col rischio di avviarlo a un irreversibile declino.
Prevedibile, dunque, che lassoluzione liberasse tutte le tossine accumulate nell’attesa, altrettanto prevedibile che a farne le spese dovessero essere i giornalisti che più s’erano accaniti su Virginia Raggi, arrivando al dileggio, all’insulto, alla calunnia, con ciò perdendo ogni legittimità di critica alla sua amministrazione.
La rivalsa dei grillini non si è fatta attendere: «sciacalli», «pennivendoli», «puttane», epiteti pesanti, ma solo in apparenza, perché rubricati già da tempo alla voce «giornalista» sul dizionario analogico della maldicenza.
Ancora più scontata la reazione della categoria, seconda nella solidarietà di gregge solo a quella dei tassisti. Niente di nuovo, perché così funziona, la solidarietà di gregge, almeno fino a quando si rivela efficace a proteggere il singolo senza arrecare danno al gruppo. Si pensi a quello che accadeva, fino a qualche anno fa, quando un prete era sorpreso ad incularsi un chierichetto: una cortina di martiri della fede veniva prontamente schierata a fargli da paravento, come se in pericolo fosse la tonaca, non il pedofilo che ci stava dentro, insudiciandola, e allora è stata la tonaca ad esser presa di mira e ad essere insudiciata, chiunque ci stesse dentro. Non conveniva, e la Chiesa, che sa come si sta al mondo, l’ha capito. I giornalisti italiani non ci sono ancora arrivati, e in questa occasione ne hanno dato prova: Luigi Di Maio dava dell’«infimo sciacallo» a chi non s’era risparmiato «titoloni» che «parlavano di corruzione, imminenti arresti, processo alla bambolina» per «dimostrare che il M5S era uguale agli altri»; Alessandro Di Battista dava del «pennivendolo» a quanti avevano «lanciato tonnellate di fango» addosso a Virginia Raggi, «trattandola come una sgualdrina», per concludere che la sentenza dimostrava che «le uniche puttane qui sono solo loro»; e allora via allo sdegno della corporazione tutta, con proteste vivamente risentite, allarmanti appelli in difesa della libertà di stampa, fino al grottesco di una Myrta Merlino in posa da Politkovskaja.
Un vero peccato, perché anche stavolta è andata persa l’occasione di quella seria autocritica senza la quale è impensabile che il giornalismo possa trovar modo di riacquistare anche solo un po’ della credibilità e del prestigio di cui godeva un tempo. Se, infatti, corri in difesa di un mascalzone solo perché ha in tasca un tesserino amaranto uguale al tuo, autorizzi a estendere su di te, e su chiunque corra in sua difesa insieme a te, il giudizio morale che lo condanna: l’ordine professionale te ne sarà grato, ma poi avrai più diritto di lamentarti quando si farà di tutta l’erba un fascio, e dentro, a torto o a ragione, ti ci ritroverai anche tu?

Qui il post potrebbe anche finire, però risulterebbe sbilanciato in favore del becerume grillino, e allora provo a riequilibrarlo.
«Puttane», dice Alessandro Di Battista? Non si generalizza? «Puttana» è la nigeriana da venti euro a pompino e la escort da tremila euro a notte: non è il caso di far distinzione tra l’agiato direttore e l’assai meno abbiente redattore? Vogliamo davvero ritenere irrilevante la differenza che c’è tra il battere per sopravvivere e il farlo per stipare il guardaroba di capi griffati? Non rivela una bestiale ottusità ignorare la differenza di milieu, con quanto ne consegue per il profilo psicologico e quello sociologico, tra «puttana» e «puttana»? Non è segno di inescusabile insensibilità che un Alessandro Di Battista non sappia cogliere le affinità che lo legano alla figura-tipo del giornalista italiano? Si tratta di un tizio che per lo più si è fermato al diploma o ai primi esami universitari, e di solito viene da una famiglia di ceto superiore, ma non ha i numeri o la voglia per seguire la strada dei genitori, oppure viene da una famiglia di ceto medio o basso, e col giornalismo tenta l’arrampicata verso l’alto, insomma o è un alto-borghese sfigato o un piccolo-borghese arrivista. Come può la quarta corda dell’ukulele non vibrare per simpatia con la terza?