Per
chi è credente, i diritti umani sono espressione delle prerogative
che Dio ha conferito alla creatura che ha voluto a sua immagine e
somiglianza. Tutto sommato non cambia molto per chi ritiene che i
diritti umani nascano con l’uomo,
espressione di ciò che la Natura gli conferisce in quanto uomo. In
entrambi i casi è chiaro perché si tenga tanto alla distinzione tra
diritti umani e diritti civili: Deus
sive Natura,
Natura sive Deus,
i primi sarebbero connaturati all’uomo,
mentre i secondi sarebbero acquisiti.
Viene così ad essere
implicitamente ammesso, quando non lo è in modo esplicito, che sia
possibile una dimensione umana antecedente a storia, società e
cultura, che di un homo fanno
un civis.
Intuibile, dunque, perché, per chi rigetta la tesi che l’uomo
sia possibile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale,
non ci sia alcuna differenza tra diritti umani e diritti civili:
tutti i diritti sono acquisiti, tutti i diritti sono possibili solo
come prodotti storici, come conquiste sociali e come costruzioni
culturali, e, se per quelli umani si ha qualche ragione nel
dichiararli inalienabili, è solo perché essi hanno trovato un più
solido radicamento, in forza della insostituibile funzione che sono
venuti ad assolvere come soluzioni a problemi non altrimenti
risolvibili nel contesto che li sollevava.
Si pensi, per esempio, al
più umano dei cosiddetti diritti umani, e cioè il diritto alla
vita: potrà risultare insopportabile l’idea
che, con ciò, perda il sacro che gli verrebbe dall’essere
un dono di Dio o l’ineffabile
che gli verrebbe dall’essere
scritto nel Dna della specie, ma anche il diritto alla vita è
impensabile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale entro
cui nasce, e si consolida, fino a diventare irrinunciabile, perché
corrispettivo del divieto di uccidere, indispensabile a qualsiasi
forma di convivenza. Tanto indispensabile, tanto irrinunciabile, da
diventare indiscutibile. Tanto indiscutibile da meritare una
mitopoietica che lo rendesse trascendente a storia, società e
cultura, che si sarebbero limitate a riconoscerlo, piuttosto che a costruirlo.
Non diversamente è accaduto con
gli altri diritti che definiamo umani, e il cui numero è venuto a
crescere col ritenere di poter riconoscere in molti di quelli civili
una natura trascendente del principio che li informa, in realtà
conferendogliela. Si pensi, per esempio, al diritto di migrare, di
cui non si ha traccia nel Bill of
rights del
1789, né nella Déclaration
des droits de l’homme et du citoyen
del 1793, e che
trova una sua prima formulazione solo con la Dichiarazione
universale dei diritti umani
del 1948 («Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio,
e di ritornare nel proprio paese»,
art. 13): evidente prodotto di un contesto storico, sociale e
culturale, entro il quale la libertà di movimento prende ad assumere
un valore pari ad altre libertà, come quella di espressione, di
credo religioso, ecc., ma, una volta dichiarato diritto umano, chi
potrà mai mettere in dubbio che sia stato Dio a rendere l’uomo
libero di muoversi in lungo e in largo per il mondo o che questa
libertà nasca con lui come espressione di un’esigenza
insopprimibile, insita alla sua natura, che è poi la fattispecie
umana della Natura? Eppure si è sempre migrato. Del fenomeno si ha
ampia documentazione fin dalla preistoria, che poi altro non è che
storia cui manca una documentazione scritta, dunque più povera di
informazioni, comunque sufficienti a poter dar per certa, fin da
allora, l’esistenza
di pur embrionali forme di società e cultura.
Se il fenomeno ci
accompagna da sempre, perché c’è
voluto tanto a capire che si trattasse di un diritto umano? Perché
per un problema come quello del pericolo di morte per mano di un
proprio simile si è fatto tanto in fretta a trovare accordo su un
divieto di uccidere che quasi subito si è dato forza in diritto alla
vita, mentre per un problema come quello delle migrazioni si è
impiegato tutto questo tempo per concepire come diritto la libertà
di «lasciare
qualsiasi paese, incluso il proprio»?
La
risposta a questa domanda impone un sacrificio in tutto simile a
quello di rinunciare a immaginare un Deus
sive Natura
o una Natura
sive Deus
come scaturigini di diritti umani: la mera «libertà
di»
(ma per molti versi questo accade anche per «libertà
da»)
non diventa un «diritto»
fino a quando non riesce ad essere percepita come propria libertà da parte di chi ha il potere di decidere per tutti, investito dell’autorità
che gli è conferita dal consenso di chi lo elegge a garante dei
propri interessi. È in questo modo che si spiega perché quello di
migrare divenga un diritto solo nel 1948: dopo l’immane
massacro, il mondo ha bisogno di sterilizzare il concetto di nazione
e di desacralizzare il limes.
C’è
stato chi ha colto il problema che si pone col conferire la
«trascendenza»
dell’«umano»
all’«immanenza»
del «civile»
(per
quanto fin qui detto mi auguro che le virgolette diano il dovuto
senso ai termini), ma neanche vale la pena di dire chi sia, perché
non è andato più in là dell’indorare
il paradosso con l’espediente
retorico di un immaginifico «diritto
naturale storicamente acquisito»,
temerariamente proposto come nuova categoria giurisdizionale. Il
patetico tentativo, tuttavia, è degno di nota, perché emblematico
del fallimento cui si va incontro quando si chiama la morale che
informa ogni giusnaturalismo in soccorso di un principio che non
abbia la necessaria forza politica per imporsi o per conservare le
posizioni precedentemente conquistate, il che sul piano pratico
traduce quel che sul piano logico è la debolezza delle tautologie
che pretendono il crisma dell’autoevidenza
che non necessita di argomenti per persuadere, e che di regola,
quando la pretesa non è soddisfatta, evocano l’antitesi
tra legge e giustizia.
Sono questi fallimenti che lasciano il campo
libero agli pseudoargomenti che invece riescono a persuadere in forza
dell’appello
a suggestioni e a pregiudizi. Ed è questo che in buona sostanza è
accaduto con l’appello
alle ragioni umanitarie per cercare di persuadere l’opinione
pubblica a quell’«accogliamoli
tutti»
che al momento pare aver la peggio con l’opposto «porti
chiusi»,
se è vero, come è vero, che una vicenda come quella della SeaWatch,
pure chiusasi con un clamoroso scacco inflitto a Salvini, ha segnato
un sensibile incremento dei consensi in favore della Lega, che i
sondaggi danno ormai al 38%. In ultima analisi, infatti, è accaduto
che, almeno nella sua declinazione del dovere di soccorso a migranti
in pericolo di vita, il diritto di migrare ha vinto in virtù di
presidi giurisdizionali nazionali e sovranazionali, correttamente
recepiti dai dispositivi giudiziari che hanno infine consentito il
buon esito della vicenda; e tuttavia, seppur di poco, si è
ulteriormente indebolita l’autoevidenza di quel «restiamo
umani»
che chiama Dio e Natura a proclamare inviolabile il «diritto
naturale storicamente acquisito»
di poter lasciare il proprio paese, a maggior ragione, poi, se in
forza del bisogno di sfuggire a guerra o fame; Salvini ha perso,
insomma, e ha perso contro la legge e contro la giustizia, ma
continua a vincere, nel senso che continua ad accrescere il consenso
alla sua scellerata azione di governo, che in sostanza pretende di
sospendere gli effetti che il diritto naturale ha fin qui sortito su
quello positivo.
Giustamente gli si rinfaccia di tradire il Vangelo
che sbandiera, ma si fa il torto di non capire che anche nel punto
dove la morale cristiana non fa sconti e recita che «le
nazioni più ricche sono tenute ad accogliere lo straniero...»,
non può fare a meno di concedere che a quest’obbligo
esse sono tenute
«...
nella misura del possibile»
(Catechismo,
2241),
un «possibile»
di cui solo chi è chiamato al governo della cosa pubblica può
rispondere. Traslando dalla dottrina morale alla pastorale, «si
tratterà di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri
umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni
indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti
originari e per quelli sopraggiunti»
(Giovanni Paolo II, Messaggio
per la 97ª Giornata del Migrante e del Rifugiato):
«valutazione»
che giocoforza non potrà che essere politica, con quanto ne consegue
sul modello d’impiego
delle risorse pubbliche che ottiene il maggior consenso da parte
dell’elettorato.
Un elettorato che, da un lato, sembra sempre più incline a considerare assai
ridotta la «misura
del possibile» e, dall’altro, non pare cogliere alcuna contraddizione tra l’evangelico
«ama
il prossimo tuo» e il salviniano «prima
gli italiani», anche qui grazie a ciò la dottrina morale concede come scappatoia: è significativo infatti che Dio detti
l’obbligo
di onorare i propri genitori subito «dopo
di lui»
(Catechismo,
2197), imperativo che pretende estensione ai «doveri
dei cittadini verso la loro patria»
(Catechismo,
2199), riproducendo un gradiente di carità che nel proximus
distingue un propior. Né le cose sembrano andar molto meglio presso l’elettorato che si dichiara «di sinistra», qualunque cosa possa ormai dire: un sondaggio che alcuni giorni fa faceva capolino tra le chiacchiere di un talk show su La7 li dava per un 15% in favore della condotta tenuta da Salvini sul caso SeaWatch.
Ma questa, ovviamente, è solo la premessa a un discorso che voglia azzardarsi a far chiarezza su cosa esattamente voglia dire «restiamo umani», e a cosa possa ragionevolmente aspirare sul piano politico, il che mi pare sia possibile solo dopo aver fatto chiarezza sull’uomo. In tal senso non ritengo sia superfluo rammentare che chi ha coniato il motto che sembra essere la soluzione di ogni cosiddetta crisi umanitaria sia morto
per mano di chi, a stretto rigor di logica, gli doveva gratitudine. I suoi assassini appartenevano a una cellula terroristica «impazzita», così si
affrettarono a definirla gli assennati terroristi di Hamas, ma erano palestinesi non meno di tutti gli altri palestinesi
alla cui causa si era votato fin da una decina d’anni
prima. Cosa tradì la grande nobiltà d’animo
e il generoso entusiasmo che portarono Vittorio Arrigoni a spendersi
senza riserve in favore del popolo palestinese? Probabilmente il fatto
che ogni crisi umanitaria è sempre più complessa di quanto
appare a chi ritiene che il proprio impegno possa contribuire ad
attenuarne la gravità, sennò, di là dall’effettivo contributo
portato, almeno a dar risposta a quell’urgenza morale che impone un
qualsivoglia mettersi in gioco. Ogni crisi umanitaria, infatti,
non sta solo nei problemi che solleva, ma anche in quelli che l’hanno
generata, e risolvere gli uni senza risolvere gli altri serve
certamente a far fronte a un’emergenza – se non del tutto, almeno
in parte, che comunque non è poco – ma anche a perpetuarla, come
in fondo accade con l’elemosina, che è cosa bella, buona e giusta,
ma non risolve affatto il problema della povertà, anzi, per certi
versi lo rende insuperabile.