Apparentemente
è singolare che potere
abbia
due accezioni dai significati tanto distanti. D’un
lato, infatti, il verbo esprime
forza,
dominio,
efficacia,
dunque piena, attuale e attiva padronanza degli effetti di una
volontà, che nella rappresentazione data dal suo participio presente
fa del soggetto un potente.
Dall’altro,
invece, il verbo esprime eventualità,
probabilità,
opportunità,
con evidente aleatorietà del controllo che la volontà del soggetto
è in grado di esercitare su ciò che tutt’al più è possibile. Solo apparente, però, questa distanza, perché il possibile
non dà coincidenza di volere
e potere
nello
stesso soggetto,
che invece si ha nel potente,
e questo è reso emblematico dall’uso
che potere
ha in un ambito come quello politico. Se d’un
lato, infatti, sappiamo che esiste un potere
politico
legittimato al
governo della cosa pubblica, dall’altro,
quando questa legittimità è in costruzione, ci sentiamo ripetere
che «la
politica è l’arte
del possibile»:
arte,
si badi bene, che è mestiere,
tecnica,
invenzione,
ma anche destrezza,
artificio,
stratagemma.
È attraverso quest’arte
che il possibile
si fa potere,
né può farne a meno per conservarsi tale, se è vero che il potente
ha da saper essere – per dirla con Machiavelli – leone e volpe, e
cioè saper far uso di forza e di astuzia. Per ciò che attiene alla
forza, il Principe s’è
dovuto adeguare ai tempi: è stato costretto a cercarne legittimità
all’uso
nel mandato, per di più accontentandosi di limitarne il monopolio
all’astratta
possibilità dell’impiego,
peraltro vincolato alla necessità di darne una giustificazione
moralmente obbligata. Ma, per ciò che attiene alla astuzia, cosa
poteva cambiare? Qui nessuna giustificazione poteva dare legittimità
alla simulazione e al tranello, alla menzogna e al venire meno alla
parola data, che giocoforza hanno continuato a essere impiegati,
privi di una copertura morale. D’altronde
– per dirla con Croce – onestà in politica è altra cosa che
onestà comunemente intesa: se s’ha
da fare il possibile
per il potere,
non si pongano ostacoli all’arte,
si facciano lavorare in pace gli artisti.
Al
netto dell’ironia,
questi sarebbero i fondamentali. Che evidentemente mancano al pur
buon Francesco Costa, che si duole del «livello
di cinismo»
toccato dai protagonisti sulla scena politica italiana, tutti, senza
eccezioni: «Oggi
tutti s[o]no
pronti a fare qualsiasi cosa, ma davvero qualsiasi cosa, pur di
vincere o pur di non perdere, consapevoli che in una guerra tra bande
non si può arretrare e che gli ultras di ogni fazione sono sordi a
qualsiasi ragionamento. Siamo entrati nell’era in cui tutto è
possibile, ma tutto-tutto»
(*). Coi fondamentali a disposizione poteva risparmiarsi la
geremiade: è sempre stato così, di più – oggi – c’è
solo che tutto è molto più accelerato, e dunque cinismo e
opportunismo non riescono a trovare la copertura che in passato era
data loro dalla lentezza dei passaggi; in più, tutto è molto più
trasparente perché è venuto meno il momento dell’intermediazione
che l’argomento
frapponeva tra movente e agito. In sostanza, non sono venuti meno onore e coerenza: è venuto meno il tempo necessario a surrogarli in un discorso pubblico sufficientemente credibile. Per esempio, passano ben due anni tra
la solenne sottoscrizione del cosiddetto «patto
della staffetta»
e il venir meno al suo rispetto da parte di Craxi, e in quel mentre
c’è
tempo perché possa farsi argomento il pretesto della «continuità»,
e questo consente al segretario del Psi di stornare in modo assai
efficace il giudizio morale dal suo rifiuto di lasciare a De Mita,
come pattuito, la Presidenza del Consiglio: veniva meno alla parola data, ma aveva avuto modo di costruire un argomento tra movente e agito. Quanto tempo passa,
invece, tra l’#enricostaisereno
e il passaggio della campanella da Letta a Renzi?