Comprendo
le ragioni di chi ritiene costituzionalmente ineccepibili i passaggi
che hanno portato al varo del governo Conte: siamo una democrazia
parlamentare, è in Parlamento che va cercata una maggioranza di
governo, alle urne si ritorna solo se non ci sono i numeri per dar
vita ad un esecutivo; e poi è al Quirinale che spetta scegliere a
chi dare l’incarico di formare un governo, prendendo atto dei
risultati elettorali, certo, e raccogliendo le indicazioni offertegli
dai partiti, certo, ma, a dispetto del malinteso che il maggioritario
ha insinuato in tanti, Palazzo Chigi non va di diritto al leader del
partito che ha preso il maggior numero di voti perché sulla scheda
elettorale si candidava a «Premier», che peraltro è termine assai
improprio in luogo di «Presidente del Consiglio»; ergo, il governo
Conte ha piena legittimità costituzionale.
Quale
governo Conte, il primo o il secondo? Entrambi, perciò non lo
specificavo. Anche quello sostenuto da Lega e M5S aveva legittimità
costituzionale, e non ha senso dire – ancor più insinuare – che
fosse meno piena di quella che ha il governo sostenuto da Pd e M5S
per il fatto che stavolta, a sostenere l’esecutivo, sono i due
partiti che sono arrivati al primo e al secondo posto per numero di
voti avuti il 4 marzo 2018, mentre la volta scorsa il governo nasceva
con l’appoggio dei partiti arrivati al primo e al terzo: quando c’è
maggioranza parlamentare, quali che siano le forze a comporla, tale
legittimità è sempre piena. Né essa può essere messa in
discussione quando due governi di diverso o addirittura opposto segno
politico si danno lo stesso presidente del consiglio: a renderla
indiscutibile è il fatto che in entrambi i casi abbia una
maggioranza parlamentare a conferirgli il mandato. Altro discorso a
dare ascolto alle ragioni di chi ritiene che il governo Conte
tradisca il voto uscito dalla urne il 4 marzo 2018.
Quale
governo Conte, il primo o il secondo? Entrambi, perché l’accusa è
stata mossa sia al governo sostenuto da Lega e M5S (la Lega si era
presentata come parte di una coalizione, che ha abbandonato subito
dopo il voto; il M5S si era dichiarato indisponibile a qualsiasi
alleanza, con chicchessia), sia a quello sostenuto da Pd e M5S («mai
col Pd», diceva il M5S; «mai col M5S», diceva il Pd).
Vogliamo
considerarlo un torto consumato ai danni degli elettori? Nel caso,
dobbiamo considerare più grave quello consumatosi nel giugno 2018 o
quello consumatosi nel settembre 2019? Dipende: più grave il primo,
per il Pd; più grave il secondo, per la Lega; gravi entrambi, a pari
demerito, per FI e FdI. In entrambi i casi, tuttavia, l’operazione
era costituzionalmente legittima, perché i parlamentari che votano
la fiducia ad un governo appartengono a partiti che durante la
campagna elettorale fanno promesse, pronunciano impegni, illustrano
programmi, ma da eletti non hanno vincolo di mandato e singolarmente
o in gruppo, anche in un gruppo coincidente a quello del partito
nelle cui liste erano candidati, rappresentano la nazione in toto,
non parte di essa, e dunque decidono «in nome di», non «per conto
di».
Il mio
lettore è un costituzionalista nato, chiedo scusa se fin qui l’ho
tediato con rilievi che gli saranno apparsi tanto scontati da
risultare banali. Credo che però valesse la pena di richiamarne la
ratio per mostrare quanto essa possa risultare astrusa a una larga
parte del paese, per un dato che, pur incontestabile, è
difficilmente accettabile nelle sue più ovvie implicazioni, a
cominciare dal dato che gli è speculare. Il dato: risultati
elettorali alla mano, dal 1948 ad oggi, la sinistra non è mai stata
maggioritaria in Italia e, anche quando ha raccolto il massimo
consenso, tra le sue varie componenti si sono sempre palesate
profonde divisioni e tali aspri contrasti da non consentirle mai il
governo del paese. Speculare a questo dato: in questo paese la destra
esiste, e nelle sue diverse, ambigue, contraddittorie declinazioni è
maggioranza, e tuttavia la sinistra, pur nelle sue diverse, ambigue,
contraddittorie declinazioni, ha sempre preferito considerarla un
problema, un’anomalia, l’espressione di una volontà popolare che
era lecito, anzi doveroso (del dovere che tiene a bada scostumatezza
e sconvenienza), ritenere frutto di calcolo erroneo, deficit
culturale, tara antropologica: sfondando forse una porta aperta,
credo si possa dire che la sinistra non è mai stata capace di
riconoscere piena legittimità politica alla maggioranza (relativa o
assoluta) del paese.
Col
non riuscire mai a raccogliere la maggioranza dei consensi era del
tutto naturale, dunque, che per lunghi decenni, quelli della
cosiddetta Prima Repubblica, alla sinistra spettasse stare
all’opposizione, ma covando una comprensibile frustrazione. Sarà
stato per una connaturata refrattarietà della maggioranza degli
italiani ai suoi ideali e ai suoi programmi? Sarà stato perché la
divisione del mondo in blocchi ne faceva l’inintroiettabile fattore
K, pena un golpe alla cilena? Lasciamo perdere, restiamo al dato di
fatto: la sinistra non è mai stata maggioritaria in Italia, e
tuttavia è stata in grado di far credere lo fosse grazie al
reclutamento di quella «aristocrazia operaia» (scrittori,
giornalisti, artisti, ecc.) incaricata di conferirle «egemonia
culturale», progetto cui Togliatti diede vita all’indomani della
spartizione del mondo che a Yalta destinò l’Italia al blocco
occidentale: chiusa la via a una conquista del potere con le cattive
maniere, rimanevano solo quelle buone. Che ebbero egregi risultati,
occorre dire, al punto da dettare regole inflessibili sul modo di
leggere la storia e, più in generale, in grado di flettere qualsiasi
intelligenza che aspirasse ad aver voce nel dibattito pubblico ad un
galateo che non consentiva sgarri: chi metteva in discussione le
indiscutibili certezze della sinistra poteva accomodarsi nelle fogne.
Chi osasse metterle in discussione, d’altra parte, almeno di sponda
era fascista, perché il fascismo altro non era che strumento del
capitale, sicché in ultima analisi fascista era chiunque si piegasse
alle logiche del capitalismo, anche se schermendosi col riformismo.
Pendant: «uccidere un fascista non è reato», ma questo come ultima
opzione, potendosi accontentare anche del fatto che il fascista
(rectius: chiunque mettesse in discussione ideali e programmi della
sinistra) non s’azzardasse a dar segno di vita, stesse zitto,
risultasse invisibile. Durò a lungo, e diede buon frutto, ma costò
una dispercezione del reale destinata a infliggere dolorose
frustrazioni: com’è che certe idee, certi valori – le nostre
idee, i nostri valori – trionfano pure sulle quattro mattonelle tra
cesso e bidet, e poi anche stavolta la Dc si è pigliato il 32%, i
suoi cespugli un buon 8%, e un altro 8% se lo è pigliato il Msi,
mentre il Psi – che sinistra non è, via – la volta scorsa se n’è
pigliato altrettanto e stavolta anche di più? In altri termini:
com’è che tutto il nostro sforzo pedagogico, il nostro amabile
paternalismo, non impediscono che tanta parte del paese resti preda
del calcolo erroneo, infognata nel deficit culturale, segnata dalla
tara antropologica? Straziante eco del povero Gennaro Serra di
Cassano: «Ho
sempre lottato per il loro bene e ora li vedo festeggiare la mia
morte».
Tutto
questo – mi si dirà – fino alla caduta del Muro di Berlino, poi
– mi si dirà – la sinistra è riuscita a vincere, sennò che
altro sarebbero i governi Prodi? E Renzi? E Gentiloni? Sarebbero
centro-sinistra – dico io, lasciando a voi decidere sulla natura
del trattino – e, guarda caso, portando uomini della sinistra a
capo di qualche dicastero (con D’Alema perfino alla Presidenza del
Consiglio) solo grazie all’essenziale apporto di quel centro che,
col proporzionale della Prima Repubblica, era stato il baricentro
della politica italiana e, col maggioritario della Seconda, fu
lacerato in due, metà di qua, metà di là, in attesa di ricomporsi
alla prima occasione in cui destra e sinistra mostrassero, di qua o
di là, di qua e di là, tratti di cedimento rispetto alle loro
tradizioni culturali o più prosaicamente rispetto al loro consenso.
Ma intanto il cedimento su quale lato erodeva più prestigio
culturale e più consenso? Con la «morte delle ideologie» si
descriveva in realtà un fenomeno che ne vedeva morire solo una,
quella che aveva nutrito almeno due o tre generazioni di politici di
sinistra; quelle di destra (perché a destra, da sempre, ce n’è
più d’una) indugiavano nelle fogne, dando da credere che di lì
non si sarebbero mai mosse, se ancora poi erano vive. Bastava appena
un po’ di proporzionale, la comparsa sulla scena politica di un
intruso che vantava di «non essere né di destra né di sinistra» e
che così maturava l’alibi di potersi alleare indifferentemente con
l’una e con l’altra, e il gioco era fatto: la logica della
democrazia parlamentare, a lungo negletta, tornava a esigere
rispetto, e a ottenerlo, insinuando il sospetto che le regole
costituzionali perpetuassero la conventio ad escludendum che le aveva
ispirate per impedire che maggioranza del paese potesse esprimere un
governo «fascista», cioè perfettamente impermeabile a ideali e
programmi di sinistra.
Eravamo così al percepito «furto di
sovranità» che oggi è agitato dalla destra a fini propagandistici
e che la sinistra autorizza a percepire come tale per le ragioni che
esprime in favore di un’alleanza
col M5S, fino a un mese fa dichiarata inammissibile: occorre
dilazionare il più possibile nuove elezioni, che al momento è
presumibile darebbero il governo del paese alla Lega, è necessario
che il prossimo inquilino del Quirinale non sia espresso da un
Parlamento in cui la maggioranza sia di destra.
Sante preoccupazioni,
ma giacché non c’è
articolo della Costituzione che esplicitamente vieti l’elezione
di un Presidente della Repubblica che non sia di centro o di
sinistra, né ce n’è
uno che esplicitamente vieti a Salvini di diventare Presidente del
Consiglio, questo preoccuparsi assume forma dell’imbroglio, del
tentativo di conservare un primato – culturale in senso lato, prima
che politico in senso stretto – ampiamente perso nel paese, e sul
paese.
Voilà, le fallaci «ragioni del nemico» acquistano un
incredibile potenziale di credibilità. Con quanto di pericoloso ne trascende. Perché ai lazzari che sghignazzano al cadere della testa di Gennaro Serra di Cassano è facile far credere che i giacobini siano al soldo della Francia e che il Borbone, prima che re, è padre.