2. «Questo
non è, in senso stretto, un libro di filosofia»,
avverte Massimo Adinolfi chiudendo l’Introduzione
di Hanno tutti
ragione?
(pag. 9). Lo è in senso lato, dunque? Senza dubbio, perché il
saggio e anziano nocchiero è diventato cieco, e ha perso il
controllo del timone, oggi conteso da mozzi incompetenti e
presuntuosi, che senza dubbio manderebbero la nave a fracassarsi
sugli scogli, sicché occorre che qualcuno...
Pardon, mi stavo
facendo prendere dal milieu
abbandonandomi all’allegoria
con la quale, nel VI libro della Repubblica,
Socrate spiega a Glaucone perché il governo della polis
spetti al filosofo. Ad Atene, neanche a parlarne. Per tacere di
Siracusa, povero Platone. La filosofia deve ridimensionare le
aspettative: ancilla
theologiae,
nutrendo la speranza di diventare, e chissà come poi, serva
padrona;
e poi a corte, nel posto dove si intersecano le bisettrici degli
angoli tra giullare, favorita e domestico di stanza; di frustrazione
in frustrazione, eccolo nella turris
eburnea
come sacerdote nel tempio del suo sistema, clerc
sempre tentato alla trahison;
ma intanto il Principe è diventato Partito, e allora eccolo
incardinato nell’aristocrazia
operaia;
infine, come si diceva, tra virgolette; anche stretto tra quelle,
tuttavia, al «filosofo»
non
si può negare l’esercizio
della «scienza
della verità»,
che intanto da rivelazione è diventata saggezza, e da saggezza è
diventata ermeneutica, e da ermeneutica è diventata opinione tra le
opinioni.
E ordunque: rigogliosa cresce la «malapianta
del populismo»,
mentre sempre più pesanti si fanno gli
«affanni della
democrazia rappresentativa»;
poi c’è la «straordinaria
accelerazione tecnologica»
che ha comportato «profonde
modificazioni dello spirito pubblico» (pag.
7); e tutto questo mentre alla tv c’è «la
cattedrale di Notre-Dame in fiamme» (pag.
9); come volete che a Massimo Adinolfi non vengano d’istinto le 96
paginette con le quali provare a far «argine
ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»
e a «migliorare
la qualità della discussione pubblica» (pag.
10)? Con 96 paginette? Con 96 paginette. Non avranno la
«caratteristica
gravità»
del libro di filosofia, «ma
è un libro, tuttavia»
(pag. 9). E almeno su questo siamo d’accordo: senza dubbio è un
libro.
Si
comincia con un piccolo inciampo, ma è cosa da poco. Siamo nel 1929,
anno in cui esce Essenza
e valore della democrazia
di Hans Kelsen, e di quell’anno si dice sia quello in cui
«Mussolini, al
potere fin dal 1922, firma i Patti Lateranensi, con i quali la
religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato» (pag.
11): non è così, perché la religione cattolica è la «sola
religione dello Stato» già
con lo Statuto Albertino del 1848 (art. 1), che nel 1861 – 51 anni
prima della Marcia su Roma e 58 anni prima dei Patti Lateranensi –
diventerà carta costituzionale del neonato Regno d’Italia. Ma a
chi non può scappare un erroruccio del genere, quando in procinto di
far «argine ai
cedimenti di certe infrastrutture culturali»?
Si può chiudere un occhio, via, veniamo al sodo.
Hans
Kelsen, pag. 12: «Tolleranza, diritti della minoranza, libertà
di parola, e libertà di pensiero, così tipiche della democrazia,
non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla
fede in valori assoluti. Questa fede conduce irresistibilmente, e ha
sempre condotto, a una situazione in cui chi asserisce di possedere
il segreto del bene assoluto reclama il diritto di imporre la sua
opinione come la sua volontà agli altri che sono nell’errore»
(Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica).
Sottoscriviamo? Piano.
«Di
primo acchito – scrive Massimo Adinolfi – siamo tutti
portati a pensare, in effetti, che sia così» (pag. 14). Ora, la
grammatica ci dice che «in effetti» è locuzione con valenza
di congiunzione dichiarativa/esplicativa, come lo è, ad esempio, «in
realtà». Si noti che qui «in effetti» non cade su «sia
così», ma su un «pensare» che è «di primo
acchito»: «in realtà» così si pensa, non è detto che
«in realtà» così sia, siamo dissuasi dal precipitarci a
sottoscrivere. E cosa non funziona in ciò che afferma Kelsen a un
«pensare» che non sia «di primo acchito», ma più
ponderato, meglio se assistito, dunque, da un filosofo? È presto
detto: quelle di Kelsen sono parole di buonsenso. E che c’è di
male nel buonsenso? Che domande.
Qui è
necessario aprire una parentesi, vedrete che non sarà una perdita di
tempo: occorre intenderci su cosa debba intendersi con «buonsenso».
Ma dicevamo: anche sul
significato dei termini di più comune impiego ogni filosofo
rivendica il diritto di darne uno tutto personale. Conviene, dunque,
andare a rileggere cosa scriveva Massimo Adinolfi, poco meno di un
anno fa, nel mentre assai probabilmente di lato aveva in fieri Hanno
tutti ragione?
È
un articolo apparso su Leftwing,
in cui il «buonsenso»
è
la
«capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso»,
definizione
che ne dà Cartesio aprendo il Discorso
sul metodo,
e che dunque non si capisce perché dovrebbe essere la «bancarotta
della filosofia»
in quanto «scienza
della verità».
Quello che però in sostanza si lamenta, e fin dal
titolo (Abbiamo
perso la guerra del buonsenso),
è altro: il «buonsenso»
di un tempo era «filosofia
non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»;
bene, quel «buonsenso»
non
c’è
più, è
andato a farsi fottere, sconfitto da
un «buonsenso»
che
a
Massimo Adinolfi non piace perché stravolge le categorie di «vero»
e «falso»
cui era tanto affezionato, e chissà che della sconfitta non sia
anche un po’
sua la responsabilità, perché «facev[a]
le
bucce a cardinale Ratzinger» quando
quello se la pigliava con relativismo. Ecco qua, per dare ascolto a
Kelsen abbiamo lasciato sedimentare l’errore
nella coscienza collettiva. Certo, non siamo dinanzi a «chi
asserisce di possedere il segreto del bene assoluto [e]
reclama
il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri
che sono nell’errore»: mancano le palle.