Per
molto tempo i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in
modi diversi. Poi, in modi diversi, recepirono l’esortazione
di Karl Marx a cambiarlo. Al più riuscirono a scroccare qualche cena
al Palais
de Élysée, gli altri non andarono più in là di uno sketch sul
palco della Leopolda.
venerdì 11 ottobre 2019
giovedì 10 ottobre 2019
Hanno tutti ragione? / 2
2. «Questo
non è, in senso stretto, un libro di filosofia»,
avverte Massimo Adinolfi chiudendo l’Introduzione
di Hanno tutti
ragione?
(pag. 9). Lo è in senso lato, dunque? Senza dubbio, perché il
saggio e anziano nocchiero è diventato cieco, e ha perso il
controllo del timone, oggi conteso da mozzi incompetenti e
presuntuosi, che senza dubbio manderebbero la nave a fracassarsi
sugli scogli, sicché occorre che qualcuno...
Pardon, mi stavo
facendo prendere dal milieu
abbandonandomi all’allegoria
con la quale, nel VI libro della Repubblica,
Socrate spiega a Glaucone perché il governo della polis
spetti al filosofo. Ad Atene, neanche a parlarne. Per tacere di
Siracusa, povero Platone. La filosofia deve ridimensionare le
aspettative: ancilla
theologiae,
nutrendo la speranza di diventare, e chissà come poi, serva
padrona;
e poi a corte, nel posto dove si intersecano le bisettrici degli
angoli tra giullare, favorita e domestico di stanza; di frustrazione
in frustrazione, eccolo nella turris
eburnea
come sacerdote nel tempio del suo sistema, clerc
sempre tentato alla trahison;
ma intanto il Principe è diventato Partito, e allora eccolo
incardinato nell’aristocrazia
operaia;
infine, come si diceva, tra virgolette; anche stretto tra quelle,
tuttavia, al «filosofo»
non
si può negare l’esercizio
della «scienza
della verità»,
che intanto da rivelazione è diventata saggezza, e da saggezza è
diventata ermeneutica, e da ermeneutica è diventata opinione tra le
opinioni.
E ordunque: rigogliosa cresce la «malapianta
del populismo»,
mentre sempre più pesanti si fanno gli
«affanni della
democrazia rappresentativa»;
poi c’è la «straordinaria
accelerazione tecnologica»
che ha comportato «profonde
modificazioni dello spirito pubblico» (pag.
7); e tutto questo mentre alla tv c’è «la
cattedrale di Notre-Dame in fiamme» (pag.
9); come volete che a Massimo Adinolfi non vengano d’istinto le 96
paginette con le quali provare a far «argine
ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»
e a «migliorare
la qualità della discussione pubblica» (pag.
10)? Con 96 paginette? Con 96 paginette. Non avranno la
«caratteristica
gravità»
del libro di filosofia, «ma
è un libro, tuttavia»
(pag. 9). E almeno su questo siamo d’accordo: senza dubbio è un
libro.
Si
comincia con un piccolo inciampo, ma è cosa da poco. Siamo nel 1929,
anno in cui esce Essenza
e valore della democrazia
di Hans Kelsen, e di quell’anno si dice sia quello in cui
«Mussolini, al
potere fin dal 1922, firma i Patti Lateranensi, con i quali la
religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato» (pag.
11): non è così, perché la religione cattolica è la «sola
religione dello Stato» già
con lo Statuto Albertino del 1848 (art. 1), che nel 1861 – 51 anni
prima della Marcia su Roma e 58 anni prima dei Patti Lateranensi –
diventerà carta costituzionale del neonato Regno d’Italia. Ma a
chi non può scappare un erroruccio del genere, quando in procinto di
far «argine ai
cedimenti di certe infrastrutture culturali»?
Si può chiudere un occhio, via, veniamo al sodo.
Hans
Kelsen, pag. 12: «Tolleranza, diritti della minoranza, libertà
di parola, e libertà di pensiero, così tipiche della democrazia,
non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla
fede in valori assoluti. Questa fede conduce irresistibilmente, e ha
sempre condotto, a una situazione in cui chi asserisce di possedere
il segreto del bene assoluto reclama il diritto di imporre la sua
opinione come la sua volontà agli altri che sono nell’errore»
(Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica).
Sottoscriviamo? Piano.
«Di
primo acchito – scrive Massimo Adinolfi – siamo tutti
portati a pensare, in effetti, che sia così» (pag. 14). Ora, la
grammatica ci dice che «in effetti» è locuzione con valenza
di congiunzione dichiarativa/esplicativa, come lo è, ad esempio, «in
realtà». Si noti che qui «in effetti» non cade su «sia
così», ma su un «pensare» che è «di primo
acchito»: «in realtà» così si pensa, non è detto che
«in realtà» così sia, siamo dissuasi dal precipitarci a
sottoscrivere. E cosa non funziona in ciò che afferma Kelsen a un
«pensare» che non sia «di primo acchito», ma più
ponderato, meglio se assistito, dunque, da un filosofo? È presto
detto: quelle di Kelsen sono parole di buonsenso. E che c’è di
male nel buonsenso? Che domande.
Qui è
necessario aprire una parentesi, vedrete che non sarà una perdita di
tempo: occorre intenderci su cosa debba intendersi con «buonsenso».
Ma dicevamo: anche sul
significato dei termini di più comune impiego ogni filosofo
rivendica il diritto di darne uno tutto personale. Conviene, dunque,
andare a rileggere cosa scriveva Massimo Adinolfi, poco meno di un
anno fa, nel mentre assai probabilmente di lato aveva in fieri Hanno
tutti ragione?
È
un articolo apparso su Leftwing,
in cui il «buonsenso»
è
la
«capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso»,
definizione
che ne dà Cartesio aprendo il Discorso
sul metodo,
e che dunque non si capisce perché dovrebbe essere la «bancarotta
della filosofia»
in quanto «scienza
della verità».
Quello che però in sostanza si lamenta, e fin dal
titolo (Abbiamo
perso la guerra del buonsenso),
è altro: il «buonsenso»
di un tempo era «filosofia
non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»;
bene, quel «buonsenso»
non
c’è
più, è
andato a farsi fottere, sconfitto da
un «buonsenso»
che
a
Massimo Adinolfi non piace perché stravolge le categorie di «vero»
e «falso»
cui era tanto affezionato, e chissà che della sconfitta non sia
anche un po’
sua la responsabilità, perché «facev[a]
le
bucce a cardinale Ratzinger» quando
quello se la pigliava con relativismo. Ecco qua, per dare ascolto a
Kelsen abbiamo lasciato sedimentare l’errore
nella coscienza collettiva. Certo, non siamo dinanzi a «chi
asserisce di possedere il segreto del bene assoluto [e]
reclama
il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri
che sono nell’errore»: mancano le palle.
martedì 8 ottobre 2019
Hanno tutti ragione?
«Tutto
quello che non sopporto ha un nome»
Paolo
Sorrentino, Hanno
tutti ragione (Feltrinelli, 2010)
1. È solo alla fine di quella che concede essere stata una «fastidiosa e complicata logomachia» che Jeremy Bentham sembra porsi il problema di poter aver tediato il lettore, e allora gli chiede scusa, spiegando cosa l’abbia spinto a farlo. Siamo sul finale di A Fragment on Government (1776) e, dopo essersi speso per pagine e pagine nel «laborioso e ingrato» compito di dimostrare perché la dottrina di William Blackstone sia, «peggio che falsa, priva di significato», prevede il rimprovero che gli può esser mosso: «L’hai dimostrato tu stesso che non metteva conto di occuparsene: perché, dunque, perderci tanto tempo?». La risposta rivela un intento pedagogico: «Per fare qualcosa di atto a istruire, ma soprattutto a disingannare lo studioso timido e ammirato; per sollecitarlo ad avere più fiducia nelle proprie forze e meno nell’infallibilità dei grandi nomi; per aiutarlo a emancipare il suo giudizio dai ceppi dell’autorità; per insegnargli a distinguere tra linguaggio altisonante e retto significato; per ammonirlo a non accontentarsi di parole...». Qui mi fermo, ma la pagina prosegue per un bel pezzo con analoghe perifrasi di quello che in sostanza è lo stesso intento che molti anni dopo lo spingerà a scrivere il suo Book of Fallacies (1824): disvelare il sofisma che s’ammanta di autorità.
Nell’accingermi
a commentare Hanno
tutti ragione?
di Massimo Adinolfi (Salerno Editrice, 2019), voglio declinare un tal
genere di intento, anche se fin qui anticipo che concluderò dicendo
che non metteva conto di occuparsene. Di argumenta
ab auctoritate,
certo, il libricino trabocca, ma non c’è
bisogno di demistificarli, perché l’autore
ha la fierezza, se non di dichiararli tali, di rivelarcene la natura
con un insistente ricorso alla citazione («come
avrebbe detto Hegel»,
«Merleau-Ponty la
metteva così»,
«direbbe
Heidegger»,
ecc.), d’altronde
irrinunciabile da parte di chi nel salottino mediatico è chiamato a
interpretare il «filosofo»,
personaggio che sembra essere diventato un must
nel business dell’intrattenimento.
Sia ben chiaro che l’uso
delle virgolette per questo ruolo non è denigratorio, perché, in buona sostanza, quelli chiamati a dare
un’opinione
sulla questione del giorno imbottendola di citazioni dotte sono al
più docenti di filosofia. Ora nessuno si sognerebbe di definire
«artista»
un critico d’arte
o uno che insegni Storia dell’Arte,
e tuttavia, anche se me ne sfugge la ragione, con la filosofia non va
così: «filosofo»
è
Diego Fusaro, perché, quando Myrta Merlino gli dà un minuto e mezzo
per dire cosa pensa della chiusura domenicale dei negozi, risponde
citando Aristotele, Hegel, Marx, Gentile; e «filosofo»
è
pure Massimo Adinolfi, perché, quando Il
Foglio
gli chiede cosa pensa di Ronaldo, la risposta è un Perché
non possiamo non dirci Cristiano,
in cui troviamo Platone, Rousseau, Voltaire e ovviamente Croce.
Perché questa figura prende vita solo adesso? A
naso, direi che il «filosofo»
da
intrattenimento, forte dei suoi argumenta
ab auctoritate,
nasca per cercare di dare un contrappeso agli argumenta
ad populum
che sono la nota dominante di tempi in cui nel foro, a
là guerre comme a là guerre,
la persuasione ormai si fa strada solo grazie agli argumenta
ad judicium: siamo a un Armageddon nel quale si fronteggiano i «like» e gli «ipse dixit». Compito ingrato per il «filosofo», che da filosofo (senza virgolette) nasce con la pretesa di
governare la polis, ma quasi subito è costretto a ridimensionarla in
quella di guidare chi la governa, per finire col doversi accontentare
di ispirare il principe, prima, di dare consulenza al ministro, dopo,
e di fare l’opinionista,
venendo all’oggi.
Opinionista che peraltro soffre d’un
grave handicap, perché la scienza di cui è chiamato ad intestarsi
il titolo di esperto non è una scienza. Ma questa, mi rendo conto, è
affermazione che impone un chiarimento.
Nei
vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un
generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di
pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo
sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni
posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la
condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di
superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile,
verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che
è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo
sia preferibile a quel «falsificabile»
che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo alla
Fälschungsmöglichkeit
di
cui ci parla Popper).
Un vaglio assai severo, occorre dire, dal quale
tuttavia nessuno pretende di potersi sottrarre, né in forza
dell’autorità
precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua
congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è
indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale
consenso»
di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un carattere di
transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia l’uso
di un termine come «verità»
da
appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto
scientificamente comprovato.
Difficile dire con quanta consapevolezza
accada, ma sembra quasi che chi si misura con la conoscenza
scientifica abbia una riserva di pudore, di umiltà, di prudenza o di
chissà cos’altro
nell’assegnare
a un dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile,
universale) è intrinseco al concetto di «verità»,
riserva tanto pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a
«vero»
si preferisce sempre «attendibile»,
«esatto»,
«credibile»,
che di «vero»
sono sinonimi, ma non rimandano alla «proprietà
di ciò che esiste in senso assoluto»
(Treccani) vantata dalla «verità».
C’è
chi ha saputo trovare le parole giuste per esprimere le ragioni di
questa riserva, che anzi ha esteso perfino all’uso
di «realtà»,
che sta alla «verità»,
volendo prestar fede a chi con questi termini ha consuetudine a
pranzo e a cena, come l’ente
sta all’essere. Qui
le riporto da un’intervista
apparsa su un numero de Le
Scienze di
qualche anno fa: «La
realtà
– diceva Leonard Susskind – ci
rimarrà sempre incomprensibile. […] Continuiamo a inventare nuovi
realismi, […] poi arriva il paradigma successivo che fa piazza
pulita del precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi
modi di pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato,
ora, sembrino sbagliati. […] Secondo me – concludeva – dovremmo
sbarazzarci della parola “realtà”, […] trascina con sé cose
che non servono a niente».
Io mi permetterei di aggiungere che, «oltre
alle cose che non servono a niente»,
ne trascina con sé altre che fanno da ostacolo, che poi è proprio
l’ostacolo
che incontra una disciplina come la filosofia, che, da un lato, ha la
pretesa di dirsi «scienza»
e, dall’altro,
come compito si dà – appunto – la «verità».
In Hanno
tutti ragione?
il «filosofo»
si
limita a esibire con fierezza il bernoccolo che si è procurato nel
tentativo di superare l’ostacolo,
quasi che da quello abbia da sortire una Minerva, ma è in un altro
suo scritto che Massimo Adinolfi prefigura l’incidente
come fine ultimo della filosofia: «Poniamo
che la filosofia rinunci al titolo di scienza della verità. Poniamo
che rinunci non solo ad essere scienza, ma anche a misurarsi, in
generale, col problema della verità [...] Resta nondimeno difficile
immaginare, ammesso e non concesso che la filosofia compia appunto
una simile rinuncia, che rinunci anche ad essere un affare di parola,
o forse meglio di discorso». E
sì, «ma
chi non ha mai pensato una volta nella vita che tutta la storia della
filosofia non sia che un vuoto chiacchiericcio?» (La
verità come compito della filosofia – Nóema,
2/2011). Nulla che il solito vuoto chiacchiericcio a spiegarne il
perché. E tuttavia la filosofia non rinuncia al titolo di «scienza
della verità»,
anche se non ha nulla di quanto si è poc’anzi
detto della scienza.
Su
nulla, in filosofia, è dato infatti di trovare un generale e pieno, ancorché
transitorio e provvisorio, consenso, nemmeno sul significato dei
termini di più comune impiego, cui ogni filosofo infatti rivendica
il diritto di darne uno tutto personale (si trovino due filosofi, ad
esempio, che diano la stessa definizione di «Dio»).
Tanto meno è dato pretendere dai filosofi un’uniformità
di metodo, giacché a ciascuno è concesso costruirsene uno che possa
tornargli di maggior utilità, e sulla cui affidabilità è dunque il
solo a poter dire l’ultima
parola. Con tali requisiti è comprensibile perché in filosofia
tutte le contese non abbiano mai soluzione, destinate ad essere
accantonate per essere periodicamente riproposte, facendo nascere il
sospetto che non possano trovare una fine per la semplice ragione che
non abbiano un fine, se non quello dell’intrattenimento.
Poi, certo, c’è
intrattenimento e intrattenimento, di qua la «pineale»
di un Cartesio, la «monade»
di un Leibniz o l’«evoluzione
creatrice»
di un Bergson, di là il «nuovo
realismo»
di un Ferraris, il «turbocapitalismo»
di un Fusaro o il concetto di «autorità»
secondo
Adinolfi, che, a differenza del «nuovo
realismo»
di Ferraris e del «turbocapitalismo»
di Fusaro, ha fin qui fatto poca cassetta e dunque merita un trailer.
Comprensibile,
coi limiti esposti prima del siparietto, perché in filosofia non sia
possibile di fatto alcun progresso, trattandosi di un ambito in cui
nessuna posizione è mai davvero superabile, e questo per
l’altrettanto
semplice ragione che ogni altra posizione non ha mai (né può avere)
strumenti validi per dare inconfutabile prova di esserle superiore,
perché, al pari della posizione che intendesse superare, è per sua
stessa natura indisponibile a un vaglio sulla base di criteri che le
sono estranei. Ciò che vale per i campi in cui è la scienza ad
essere chiamata per indagare, infatti, non vale per quelli in cui è
chiamata la filosofia. Ciò trova ragione nella sostanziale
differenza dell’oggetto
d’indagine,
quand’anche
sia nominalmente identico: nel primo caso, infatti, l’oggetto
preesiste all’indagine
come problema, anche se poi è la stessa indagine a ridefinirlo nella
procedura che gli dà ipotesi di soluzione; nel secondo caso, invece,
l’oggetto
nasce nel momento stesso in cui si inizia ad indagare, non un istante
prima, e per la semplice ragione che non corrisponde mai del tutto a
ciò che nominalmente lo richiama dalle indagini che su di esso sono
state condotte in precedenza.
Si prenda, per esempio, la «materia», che sembrerebbe cosa eminentemente «fisica», ma alla quale la filosofia – almeno una certa filosofia – riesce comunque ad ascrivere una dimensione «metafisica», oppure la «mente», che la filosofia – quasi tutta la filosofia – si ostina a ritenere mortificata dalle neuroscienze: nulla che si muova da dove è partita la discussione, poco meno di tre millenni fa, se non nella spirale che sovrappone glossa a glossa com’è coi gusci di una matrioska, sicché con procedura inversa, per sottrazione di riferimenti e citazioni, guscio dopo guscio, al centro ci ritrovi sempre Platone e la sua pretesa di governare la polis in virtù dell’autorità. Quale? Quella che incarna la «verità», o almeno assicura di avere gli strumenti necessari per indicarti quale strada prendere per approssimarla, se non per raggiungerla. Su tutto il resto – se deve piacerti il vino che stai per bere o la pietanza che stai per mangiare – le competenze possono essere delegate all’amico o alla mamma del «filosofo», che per la virtù transitiva dell’affidabilità meritano la dovuta attenzione.
[segue]
Si prenda, per esempio, la «materia», che sembrerebbe cosa eminentemente «fisica», ma alla quale la filosofia – almeno una certa filosofia – riesce comunque ad ascrivere una dimensione «metafisica», oppure la «mente», che la filosofia – quasi tutta la filosofia – si ostina a ritenere mortificata dalle neuroscienze: nulla che si muova da dove è partita la discussione, poco meno di tre millenni fa, se non nella spirale che sovrappone glossa a glossa com’è coi gusci di una matrioska, sicché con procedura inversa, per sottrazione di riferimenti e citazioni, guscio dopo guscio, al centro ci ritrovi sempre Platone e la sua pretesa di governare la polis in virtù dell’autorità. Quale? Quella che incarna la «verità», o almeno assicura di avere gli strumenti necessari per indicarti quale strada prendere per approssimarla, se non per raggiungerla. Su tutto il resto – se deve piacerti il vino che stai per bere o la pietanza che stai per mangiare – le competenze possono essere delegate all’amico o alla mamma del «filosofo», che per la virtù transitiva dell’affidabilità meritano la dovuta attenzione.
[segue]
mercoledì 2 ottobre 2019
Coda
«Non
c’è niente di meglio, quando si vuol discutere con profitto, che
mettersi preliminarmente d’accordo sul significato da dare al
termine che designa l’oggetto della discussione»,
e in quel caso si trattava di un concetto quanto mai sfuggente, per
molti versi perfino ambiguo, quello di «autorità»
(Dov’è
finito il principio di autorità
– Malvino,
8.1.2017). Sul «totalitarismo»
ho commesso l’errore
di ritenerlo superfluo, pensando che in discussione fosse un concetto
chiaro, quello relativo al sistema politico – cito il Treccani
– «in
cui tutti i poteri sono concentrati in un partito unico, nel suo capo
o in un ristretto gruppo dirigente, che tende a dominare l’intera
società grazie al controllo centralizzato dell’economia, della
politica, della cultura, e alla repressione poliziesca»,
che poi è definizione appena un po’
più articolata di quel «dominio
assoluto nel campo politico e amministrativo» che
Giovanni Amendola ascrisse, nel 1923, al quid
che, coniando il termine, chiamò «totalitario».
Si badi bene: la definizione non lascia adito ad alcun distinguo
riguardo alle finalità di questo o quel sistema totalitario. In
altri termini, non è discussione se la concentrazione del potere e
il controllo centralizzato di ogni aspetto della vita sociale
abbiano per orizzonte ultimo l’infernale mondo in cui si sia
affermata la supremazia della razza ariana o il beato paradiso in
terra dove ognuno dà secondo le proprie possibilità e a ognuno è
dato secondo i propri bisogni: in oggetto è lo strumento che si
dichiara necessario a perseguire il fine, e che nel totalitarismo –
qui do ancora voce al Treccani
– sta nella «preminenza
del partito unico sullo Stato»,
nel «radicale
antipluralismo politico e sociale»,
nell’«ideologia
della “rivoluzione permanente” e del “nemico oggettivo” per
tenere alta la mobilitazione del consenso di massa»,
nell’«impiego
massiccio delle tecniche di comunicazione come strumenti di
propaganda»,
e nell’«uso
sistematico del terrore come strumento di governo».
E allora, giacché tali elementi sono sempre stati la regola in tutti
i suoi precipitati storici, che senso ha farsi venire le paturnie a
sentir dire che «il
comunismo è un totalitarismo»?
Credo di avere la risposta: tra i totalitarismi di cui abbiamo
esperienza ce n’è uno – quello comunista – che ad alcuni –
comunisti, ma non solo – piace più degli altri, e per le promesse
che fa, promesse così belle che varrebbe la pena di chiudere un
occhio su quanto è dato come indispensabile perché esse siano
mantenute, anche se poi non sono mai state mantenute, neanche quando
l’indispensabile si è ottenuto con la forza.
Indispensabile è
quel «periodo
politico transitorio, il cui lo Stato non può essere altro che la
dittatura rivoluzionaria del proletariato»
(Critica
del programma di Gotha),
perché occorre sia chiaro che «la
lotta di classe conduce necessariamente alla dittatura del
proletariato»
(Lettera
a Joseph Weydemeyer):
«non
può essere altro che»,
«necessariamente».
E quanto dura, questa dittatura? Chi può dire, di fatto ogni
precipitato storico del comunismo non è mai riuscito a superare
questa fase di transizione. A rigor di logica, se non la prevedeva,
nemmeno era comunismo.
lunedì 23 settembre 2019
[...]
L’aequiparatio
trova ragione in ciò che è pianamente (aeque) riconoscibile
come uguale (par) in A e in B, venendo a perderla quando se ne
prendano in considerazione le differenze, senza le quali, d’altronde,
non ci sarebbe motivo di chiamare l’uno A e l’altro B. Ne
consegue che, nel contestare la legittimità di un’aequiparatio,
in discussione dovrebbe essere unicamente ciò che si afferma essere
comune ad A e a B: quel che li differenzia non potrà essere addotto
come argomento a mettere in discussione quanto si afferma abbiano in
comune, e il farlo rivelerà, d’un lato, l’incapacità di
produrre un argomento valido a contestare quel che li equipara e,
dall’altro, un interesse a eludere, fino a negare, ciò che aeque
è par in A e in B.
Precipitando dal cielo della retorica
nella polvere sollevata dalla risoluzione del parlamento europeo che ha equiparato nazismo e comunismo, che interesse rivelano le obiezioni
che richiamano le differenze tra A e B a fronte della piana evidenza
che in entrambi i casi siamo dinanzi a un totalitarismo? Che senso ha
il contestare l’equiparazione che si basa unicamente su questo tratto comune
adducendo ad argomento ciò che li differenzia sul piano ideologico e
su quello storico? Quale interesse cela l’opporre alla piana
evidenza che ovunque il comunismo abbia preso il potere ha mostrato
il suo tratto totalitario il fatto che sul piano ideologico dichiari intenzioni notevolmente migliori di quelle dichiarate dal nazismo e
che su piano storico abbia avuto il merito di contribuire a sconfiggerlo?
giovedì 19 settembre 2019
Zotici
Neanche
un euro di debito verso chicchessia, lo zotico, ma una fetta di
debito pubblico pesa anche su di lui. Però è zotico, poverino, e
bisogna sudare le proverbiali sette camicie per spiegargli la cosa.
Alla settima sta per afferrarla, ma un’ultima
resistenza lo frena, e chiede: «E quanto mi costerebbe, ’sta
fetta?». «38.400 euro». Lì, anche se ha capito che il debito
pubblico è quello che lo Stato ha cumulato verso quanti gli hanno
concesso un credito comprando obbligazioni o titoli a far cassa per
coprire fabbisogno, deficit e interessi, lo zotico fa finta di non
aver capito. In mancanza di un’ottava
camicia, ci si rassegna: «Ma nessuno te li chiede, sta’
tranquillo. Si dilaziona, si dilaziona, si dilaziona all’infinito».
Anche se il lemma gli manca, lì «dilazionare» lo calma:
l’importante
è che nessuno s’azzardi
a chiedergli quei 38.400 euro.
Voi
che zotici non siete, o almeno non vi reputate tali, evitate di farvi
beffe del poveretto, perché non siete troppo diversi per ciò che
attiene al debito storico, che sta a quello personale, come il debito
pubblico sta a quello privato: non c’entra
niente, ma c’entra
lo stesso, e nemmeno a sudare settantasette camicie si riesce a
farvelo entrare in testa. Voglio dire? Voglio dire che a vedere
Salvini all’opposizione,
indubbiamente, sì, si dilaziona, si dilaziona, e si può pure far
finta di poter dilazionare all’infinito.
Colti e sensibili, so bene, ma zotici lo stesso, perché, come il
debito pubblico è cresciuto di malgoverno in malgoverno, così
Salvini è Salvini per tutto ciò che è venuto prima, e che era un
continuo dilazionare, un continuo tranquillizzarvi facendovi credere
che non avreste pagato mai.
Anche
stavolta vi piace illudervi che si possa evitare di pagare il debito
storico, che pesa su tutti, anche su chi non ha fatto nulla per
accrescerlo, anche su chi ha cercato, nel proprio piccolo, di
frenarne la crescita. Così, per riprendere l’allegoria che vi ha
tanto appassionato nei mesi scorsi, vi illudete che si possa vedere
cadere il fascismo senza aver bevuto neppure una goccia di olio di
ricino, senza aver preso neanche una manganellata sulla zucca. Perché
poi, parliamoci chiaro, che vi hanno fatto, questi quindici mesi di
fascismo, tranne che impensierirvi un po’, farvi incazzare,
produrvi in esorcismi e scongiuri? Dovete pagare Depretis, Crispi,
Giolitti, il biennio rosso e pensate che tutto questo vi sia stato
rimesso, zotici? Si dilaziona, certo, si continua a dilazionare, ma
il costo degli interessi sul debito storico ricade comunque su tutti.
Le guerre che finiscono senza neppure essere cominciate non fanno
morti, forse, ma non danno pace, di sicuro.
lunedì 16 settembre 2019
Matteo Salvini - «Bacioni, amici!» - Einaudi 2067
«...
ci è permesso pensare
che il suo sacrificio fu perfetto...»
Jorge Luis Borges, Finzioni
«...
la verità viene sempre a palla...»
Panella-Battisti, Equivoci
amici
Con
la pubblicazione dei diari di Matteo Salvini (Milano, 1973 – Rio de
Janeiro, 2041) abbiamo finalmente spiegazione delle ragioni che lo
spinsero alla decisione cui gli storici hanno fin qui fatto cenno con
la locuzione presa a prestito dal titolo della collettanea di
autorevoli firme che Il
Mulino
diede
alle stampe a due anni di distanza dai fatti (AA.VV., La
grande puttanata,
2021), ed è spiegazione – occorre dire – che per mole e qualità
dei documenti raccolti in appendice non consente smentite, rivelando,
dietro la maschera grottesca che egli offrì ai suoi detrattori, il
volto di un fedele servitore dello Stato, tanto più nobile perché
capace di un sacrificio di cui decise di non avere riconoscimento in
vita, viste le disposizioni relative alla pubblicazione di queste
pagine solo venticinque anni dopo la sua morte. È così che solo
oggi, a quasi mezzo secolo da quel lontano agosto del 2019, sappiamo
come realmente siano andate le cose. Tanto
più preziosa, in tal senso, l’ampia prefazione a questi diari, a
cura di Cassiodoro Vicinetti, perché alla ricostruzione dello
scenario politico in cui si svolsero i fatti e alla dettagliata
cronistoria degli accadimenti, opportunamente richiamati al lettore,
accosta le congetture che gli osservatori del tempo imbastirono a
motivare quello che da tutti fu considerato un suicidio politico
(doviziosa la messe di virgolettati, frutto evidente di una
meticolosa ricerca in emeroteca).
Sul
crollo della Terza Repubblica nella sanguinosa guerra civile che
funestò l’Italia
tra l’autunno del 2020 e la primavera del 2022 (le stime ufficiali
parlano di 6.036 morti) sono stati scritti tanti volumi da poter
riempire cinque o sei scaffali, ma, com’era prevedibile,
l’attenzione s’è appuntata soprattutto ai momenti salienti di
quella che Gianfranco Pasquino definì «la
strage dei millennials», sicché i
prodromi della grande crisi, che prese i passi proprio dalla «grande
puttanata» di Matteo Salvini, sono
sempre stati troppo trascurati, sia dalla pubblicistica, sia dalla
storiografia. Così la sua figura, gravata dal pregiudizio che finì
per pesare sulla sua persona fin tra le fila della Lega, di cui perse
la guida nel febbraio del 2020 in seguito alla cosiddetta «congiura
dei giorgettiani», è a lungo
restata nell’ombra, relegata all’emblematico ruolo dell’«ennesimo
fesso che inciampa nella sua ὕβϱις»,
come sentenziò Massimo Cacciari (Corriere
della Sera, 8 gennaio 2020). Quanto
oggi emerge dalle pagine di questi diari impone una drastica
revisione del giudizio cui tutti fino a ieri ci eravamo uniformati:
il Matteo Salvini pubblico era un mero attore in scena, la parte che
recitava era in funzione di un disegno che almeno fino al dicembre
del 2019 ebbe la compiuta realizzazione prevista, e in favore ultimo
delle sorti del Paese, espressione dunque di un altissimo servizio.
Se le cose, poi, d’un
tratto, fuor d’ogni
previsione, presero la piega storta, non glielo si può imputare:
oltre a chiarire perché la sua non fu una «grande
puttanata»,
ma una mossa progettata ben diciassette mesi prima, e in solido col
Quirinale, il volume che oggi esce per i tipi della Einaudi nella
collana dei Millenni ci dà modo di assolverlo in pieno,
restituendogli l’onore
che tanto a lungo gli fu negato. Ma
forse sarà il caso di lasciar voce a qualche passo di questi diari.
«4 maggio 2018. A
colloquio da Sergio. Piena concordanza di vedute sulla situazione: il
risultato delle elezioni mette il Paese in pericolo. O si ritorna
alle urne, e allora avremo un M5S al 40%, oppure mettiamo in piedi un
governo che lo normalizzi. Do piena disponibilità. Rimandiamo a
lunedì per i dettagli».
«7 maggio 2018. Rivedo
Sergio. Stavolta è solo per un pelo che riusciamo ad evitare di
essere beccati a colloquio, sarà il caso di organizzare in altro
modo i contatti. Mi espone i problemi: situazione economica
insostenibile, clima sociale incandescente, l’Europa
che non aspetta altro si faccia un passo falso con la finanziaria per
mandarci la troika, la Libia è in ebollizione e il tappo messo da
Minniti minaccia di saltare. Insomma, siamo nella merda. Concordo.
Dice che in gioco è tutta la baracca, dobbiamo fare squadra, a
ciascuno la sua parte. Concordo. Mi sembra indugiare nell’espormi
la parte che ritiene spetti a me. Gli risparmio l’imbarazzo:
mi dico disposto a interpretare il nuovo Mussolini, faremo cagare
addosso quelli di Bruxelles, poi, dopo le Europee, ci inventeremo una
Liberazione e andremo a riscuotere il premio per aver salvato il
continente dalla deriva sovranista, flessibilità sul deficit,
indulgenza sul debito, revisione del Trattato di Dublino. Mi sembra
assai positivamente sorpreso del fatto che avevo intuito dove volesse
andare a parare. Dice che mi invierà via email un protocollo
d’intesa
per punti, dovrò rispedirglielo al più presto con le osservazioni
del caso. Cerco di stemperare la tensione buttando lì per scherzo un
“mi raccomando, su carta intestata del Quirinale,
voglio farmi bello coi posteri”. Non coglie l’ironia
e mi risponde: “Come preferisci”. Capisco che la
merda in cui siamo è proprio merda, e rabbrividisco».
«25 maggio 2018. Tutto è
definito al dettaglio, ho pronta la scaletta dei prossimi mesi.
Sergio mi ha suggerito di non risparmiarmi, di andarci giù pesante:
sarà opportuno che io calamiti il peggio del peggio che si muove nel
Paese, per poterlo poi neutralizzare al meglio con la mia “caduta”,
incanalandolo nella speranza di una rivincita, poi, si sa, se ne
perdono di beduini nelle lunghe marce nel deserto. Un’altra
preoccupazione che sembra stargli molto a cuore è quella di dare
alla Resistenza la sensazione di aver avuto peso sugli avvenimenti
programmati, ma capisco che allo scopo ha già il sostegno di altri
interlocutori. Gli faccio presente che il rischio di qualche
incidente è ineliminabile perché lavoriamo sulla lunghezza dei
cinque anni. Mi dice che va affrontato, non abbiamo altra scelta.
Anche stavolta cerco di alleggerire la tensione con una battuta:
“Nella migliore delle ipotesi, ci caverò la figura del
fesso; nella peggiore, tu sarai rieletto, tanto ormai con Napolitano
si è rotto il tabù”. Mi fissa per un istante come offeso e
tentato a dirmi che non se ne fa più nulla, poi mi cita il Borges
delle Tre versioni di Giuda. “L’hai letto?”,
mi chiede. Non l’ho letto. “E
leggilo”, mi fa. Gli prometto che lo farò».
«26 maggio 2018. Ma si
può essere così cretini? Che mi vanno a tirar fuori, i grillini?
Vogliono l’impeachment. Ma puttana di quella Madonna, dico io, è
il caso di mandare tutto in vacca con queste girate di culo? Chiamo
Sergio per sapere come muoverci al riguardo. “Niente – mi fa –
sono petardi di scavezzacollo. Tu, piuttosto, sorveglia gli incisi,
ché tra qualche mese dovrai affidarti al cuore immacolato di
Maria-sempre-vergine, altro che puttana”. Non posso che ammirare la
flemma. Cazzo, però, ’sti palermitani, che nervi d’acciaio!».
«1° giugno 2018. Si
parte. Oggi al giuramento quasi mi scappava un occhiolino a Sergio.
Ora comincia la parte più difficile: mese dopo mese accentuare i
toni, portare a galla il sedimento profondo, concentrarlo in me...
Credo di aver capito cosa intendesse Sergio nel suggerirmi quel
racconto di Borges. Sì, vabbè, però mettiamoci un “si parva
licet”».
«15 novembre 2018. Ho
chiesto un incontro a Sergio per valutare il pericolo posto dai
sondaggi sulla tenuta del governo: e se venisse in mente ai grillini
di stracciare il contratto per mettere un freno alla perdita di
consenso in favore della Lega? “Sta’ tranquillo, non lo faranno
mai: delle elezioni anticipate hanno una fifa blù e poi a Fico ho
fatto intendere che nel caso tu aprissi alla crisi, soprattutto se le
Europee dovessero confermare che hai raddoppiato i voti del 4 marzo,
sarebbe la maggioranza che loro hanno in Parlamento a fare la
differenza: qualsiasi soluzione avrebbe il mio appoggio pur di
sventare il pericolo che rappresenti”».
Tanto basti, lascio il resto
alla scoperta del lettore per non guastargli la sorpresa che gli
riveleranno le pagine scritte all’indomani delle Europee, quelle
dell’agosto e del settembre a seguire e, soprattutto, quelle che
coprono l’arco di tempo che va dallo scoppio della guerra civile
alla sua precipitosa fuga in Brasile.
Sappiamo come andarono le
cose: caduta del governo Conte I; accordo tra Pd e M5S per il Conte
II, dopo il via libera di Renzi e Grillo; uscita dal Pd di Renzi nel
settembre del 2019; caduta del governo dopo due mesi per il venir
meno della fiducia dei parlamentari renziani in occasione della
finanziaria; Mattarella costretto a sciogliere le Camere e a indire
le elezioni per il 19 aprile 2020; «congiura dei giorgettiani»
nel febbraio 2020; elezioni politiche, Lega al 41%, rapidissimo giro
di consultazioni, Mattarella dà l’incarico a Giorgetti per la
formazione del nuovo governo annunciando le sue dimissioni
all’indomani del giuramento; torbidi di piazza il 25 aprile, con 7
morti a Milano, 11 a Roma, altrettanti a Firenze e ben 28 a Bologna.
Il resto lo sapete.
venerdì 13 settembre 2019
Calcolo erroneo, deficit culturale, tara antropologica
Comprendo
le ragioni di chi ritiene costituzionalmente ineccepibili i passaggi
che hanno portato al varo del governo Conte: siamo una democrazia
parlamentare, è in Parlamento che va cercata una maggioranza di
governo, alle urne si ritorna solo se non ci sono i numeri per dar
vita ad un esecutivo; e poi è al Quirinale che spetta scegliere a
chi dare l’incarico di formare un governo, prendendo atto dei
risultati elettorali, certo, e raccogliendo le indicazioni offertegli
dai partiti, certo, ma, a dispetto del malinteso che il maggioritario
ha insinuato in tanti, Palazzo Chigi non va di diritto al leader del
partito che ha preso il maggior numero di voti perché sulla scheda
elettorale si candidava a «Premier», che peraltro è termine assai
improprio in luogo di «Presidente del Consiglio»; ergo, il governo
Conte ha piena legittimità costituzionale.
Quale
governo Conte, il primo o il secondo? Entrambi, perciò non lo
specificavo. Anche quello sostenuto da Lega e M5S aveva legittimità
costituzionale, e non ha senso dire – ancor più insinuare – che
fosse meno piena di quella che ha il governo sostenuto da Pd e M5S
per il fatto che stavolta, a sostenere l’esecutivo, sono i due
partiti che sono arrivati al primo e al secondo posto per numero di
voti avuti il 4 marzo 2018, mentre la volta scorsa il governo nasceva
con l’appoggio dei partiti arrivati al primo e al terzo: quando c’è
maggioranza parlamentare, quali che siano le forze a comporla, tale
legittimità è sempre piena. Né essa può essere messa in
discussione quando due governi di diverso o addirittura opposto segno
politico si danno lo stesso presidente del consiglio: a renderla
indiscutibile è il fatto che in entrambi i casi abbia una
maggioranza parlamentare a conferirgli il mandato. Altro discorso a
dare ascolto alle ragioni di chi ritiene che il governo Conte
tradisca il voto uscito dalla urne il 4 marzo 2018.
Quale
governo Conte, il primo o il secondo? Entrambi, perché l’accusa è
stata mossa sia al governo sostenuto da Lega e M5S (la Lega si era
presentata come parte di una coalizione, che ha abbandonato subito
dopo il voto; il M5S si era dichiarato indisponibile a qualsiasi
alleanza, con chicchessia), sia a quello sostenuto da Pd e M5S («mai
col Pd», diceva il M5S; «mai col M5S», diceva il Pd).
Vogliamo
considerarlo un torto consumato ai danni degli elettori? Nel caso,
dobbiamo considerare più grave quello consumatosi nel giugno 2018 o
quello consumatosi nel settembre 2019? Dipende: più grave il primo,
per il Pd; più grave il secondo, per la Lega; gravi entrambi, a pari
demerito, per FI e FdI. In entrambi i casi, tuttavia, l’operazione
era costituzionalmente legittima, perché i parlamentari che votano
la fiducia ad un governo appartengono a partiti che durante la
campagna elettorale fanno promesse, pronunciano impegni, illustrano
programmi, ma da eletti non hanno vincolo di mandato e singolarmente
o in gruppo, anche in un gruppo coincidente a quello del partito
nelle cui liste erano candidati, rappresentano la nazione in toto,
non parte di essa, e dunque decidono «in nome di», non «per conto
di».
Il mio
lettore è un costituzionalista nato, chiedo scusa se fin qui l’ho
tediato con rilievi che gli saranno apparsi tanto scontati da
risultare banali. Credo che però valesse la pena di richiamarne la
ratio per mostrare quanto essa possa risultare astrusa a una larga
parte del paese, per un dato che, pur incontestabile, è
difficilmente accettabile nelle sue più ovvie implicazioni, a
cominciare dal dato che gli è speculare. Il dato: risultati
elettorali alla mano, dal 1948 ad oggi, la sinistra non è mai stata
maggioritaria in Italia e, anche quando ha raccolto il massimo
consenso, tra le sue varie componenti si sono sempre palesate
profonde divisioni e tali aspri contrasti da non consentirle mai il
governo del paese. Speculare a questo dato: in questo paese la destra
esiste, e nelle sue diverse, ambigue, contraddittorie declinazioni è
maggioranza, e tuttavia la sinistra, pur nelle sue diverse, ambigue,
contraddittorie declinazioni, ha sempre preferito considerarla un
problema, un’anomalia, l’espressione di una volontà popolare che
era lecito, anzi doveroso (del dovere che tiene a bada scostumatezza
e sconvenienza), ritenere frutto di calcolo erroneo, deficit
culturale, tara antropologica: sfondando forse una porta aperta,
credo si possa dire che la sinistra non è mai stata capace di
riconoscere piena legittimità politica alla maggioranza (relativa o
assoluta) del paese.
Col
non riuscire mai a raccogliere la maggioranza dei consensi era del
tutto naturale, dunque, che per lunghi decenni, quelli della
cosiddetta Prima Repubblica, alla sinistra spettasse stare
all’opposizione, ma covando una comprensibile frustrazione. Sarà
stato per una connaturata refrattarietà della maggioranza degli
italiani ai suoi ideali e ai suoi programmi? Sarà stato perché la
divisione del mondo in blocchi ne faceva l’inintroiettabile fattore
K, pena un golpe alla cilena? Lasciamo perdere, restiamo al dato di
fatto: la sinistra non è mai stata maggioritaria in Italia, e
tuttavia è stata in grado di far credere lo fosse grazie al
reclutamento di quella «aristocrazia operaia» (scrittori,
giornalisti, artisti, ecc.) incaricata di conferirle «egemonia
culturale», progetto cui Togliatti diede vita all’indomani della
spartizione del mondo che a Yalta destinò l’Italia al blocco
occidentale: chiusa la via a una conquista del potere con le cattive
maniere, rimanevano solo quelle buone. Che ebbero egregi risultati,
occorre dire, al punto da dettare regole inflessibili sul modo di
leggere la storia e, più in generale, in grado di flettere qualsiasi
intelligenza che aspirasse ad aver voce nel dibattito pubblico ad un
galateo che non consentiva sgarri: chi metteva in discussione le
indiscutibili certezze della sinistra poteva accomodarsi nelle fogne.
Chi osasse metterle in discussione, d’altra parte, almeno di sponda
era fascista, perché il fascismo altro non era che strumento del
capitale, sicché in ultima analisi fascista era chiunque si piegasse
alle logiche del capitalismo, anche se schermendosi col riformismo.
Pendant: «uccidere un fascista non è reato», ma questo come ultima
opzione, potendosi accontentare anche del fatto che il fascista
(rectius: chiunque mettesse in discussione ideali e programmi della
sinistra) non s’azzardasse a dar segno di vita, stesse zitto,
risultasse invisibile. Durò a lungo, e diede buon frutto, ma costò
una dispercezione del reale destinata a infliggere dolorose
frustrazioni: com’è che certe idee, certi valori – le nostre
idee, i nostri valori – trionfano pure sulle quattro mattonelle tra
cesso e bidet, e poi anche stavolta la Dc si è pigliato il 32%, i
suoi cespugli un buon 8%, e un altro 8% se lo è pigliato il Msi,
mentre il Psi – che sinistra non è, via – la volta scorsa se n’è
pigliato altrettanto e stavolta anche di più? In altri termini:
com’è che tutto il nostro sforzo pedagogico, il nostro amabile
paternalismo, non impediscono che tanta parte del paese resti preda
del calcolo erroneo, infognata nel deficit culturale, segnata dalla
tara antropologica? Straziante eco del povero Gennaro Serra di
Cassano: «Ho
sempre lottato per il loro bene e ora li vedo festeggiare la mia
morte».
Tutto
questo – mi si dirà – fino alla caduta del Muro di Berlino, poi
– mi si dirà – la sinistra è riuscita a vincere, sennò che
altro sarebbero i governi Prodi? E Renzi? E Gentiloni? Sarebbero
centro-sinistra – dico io, lasciando a voi decidere sulla natura
del trattino – e, guarda caso, portando uomini della sinistra a
capo di qualche dicastero (con D’Alema perfino alla Presidenza del
Consiglio) solo grazie all’essenziale apporto di quel centro che,
col proporzionale della Prima Repubblica, era stato il baricentro
della politica italiana e, col maggioritario della Seconda, fu
lacerato in due, metà di qua, metà di là, in attesa di ricomporsi
alla prima occasione in cui destra e sinistra mostrassero, di qua o
di là, di qua e di là, tratti di cedimento rispetto alle loro
tradizioni culturali o più prosaicamente rispetto al loro consenso.
Ma intanto il cedimento su quale lato erodeva più prestigio
culturale e più consenso? Con la «morte delle ideologie» si
descriveva in realtà un fenomeno che ne vedeva morire solo una,
quella che aveva nutrito almeno due o tre generazioni di politici di
sinistra; quelle di destra (perché a destra, da sempre, ce n’è
più d’una) indugiavano nelle fogne, dando da credere che di lì
non si sarebbero mai mosse, se ancora poi erano vive. Bastava appena
un po’ di proporzionale, la comparsa sulla scena politica di un
intruso che vantava di «non essere né di destra né di sinistra» e
che così maturava l’alibi di potersi alleare indifferentemente con
l’una e con l’altra, e il gioco era fatto: la logica della
democrazia parlamentare, a lungo negletta, tornava a esigere
rispetto, e a ottenerlo, insinuando il sospetto che le regole
costituzionali perpetuassero la conventio ad escludendum che le aveva
ispirate per impedire che maggioranza del paese potesse esprimere un
governo «fascista», cioè perfettamente impermeabile a ideali e
programmi di sinistra.
Eravamo così al percepito «furto di
sovranità» che oggi è agitato dalla destra a fini propagandistici
e che la sinistra autorizza a percepire come tale per le ragioni che
esprime in favore di un’alleanza
col M5S, fino a un mese fa dichiarata inammissibile: occorre
dilazionare il più possibile nuove elezioni, che al momento è
presumibile darebbero il governo del paese alla Lega, è necessario
che il prossimo inquilino del Quirinale non sia espresso da un
Parlamento in cui la maggioranza sia di destra.
Sante preoccupazioni,
ma giacché non c’è
articolo della Costituzione che esplicitamente vieti l’elezione
di un Presidente della Repubblica che non sia di centro o di
sinistra, né ce n’è
uno che esplicitamente vieti a Salvini di diventare Presidente del
Consiglio, questo preoccuparsi assume forma dell’imbroglio, del
tentativo di conservare un primato – culturale in senso lato, prima
che politico in senso stretto – ampiamente perso nel paese, e sul
paese.
Voilà, le fallaci «ragioni del nemico» acquistano un
incredibile potenziale di credibilità. Con quanto di pericoloso ne trascende. Perché ai lazzari che sghignazzano al cadere della testa di Gennaro Serra di Cassano è facile far credere che i giacobini siano al soldo della Francia e che il Borbone, prima che re, è padre.
domenica 8 settembre 2019
«Quello che non ti perdonerò»
Vorrei
anch’io
dire qualcosa sulla lettera aperta che Fabio Sanfilippo ha
indirizzato a Matteo Salvini dalla sua pagina Facebook,
ma astenendomi dal montare con la tavola da surf sull’onda
di indignazione che ha sollevato, lasciando il moralismo ai
professionisti della disciplina sportiva, per concentrarmi invece su
cosa può essere venuto meno nel trattenersi dal lasciarsi andare a
una interemerata tanto infelice, sulla quale era facilmente
prevedibile che sarebbe piovuto il biasimo di tutti.
Non mi si
fraintenda, anch’io
considero odioso tirare in ballo una bambina di sei anni, anch’io
ritengo poco decoroso da parte di un dipendente Rai il cedimento a
toni tanto livorosi, e poi sarà una fisima, ma credo che il termine
nemico
sia sempre da evitare quando di mezzo c’è
la politica, perché autorizza l’avversario
a dare il peggio di se stesso, senza con ciò far guadagnare su di
lui alcun vantaggio. Se non indugio su questi punti, però, non è
nemmeno perché ritengo che “la
«notizia» del giornalista Rai che invita Salvini al suicidio è al
massimo da trafiletto in basso a pagina 23”,
come scrive Massimo Mantellini: io credo che nello sbocco di bile di
Fabio Sanfilippo la «notizia»
ci sia, e meriti rilievo, perché emblematica dell’errore
commesso dai detrattori di Matteo Salvini, prima nel mostrificarlo, e
ora nel ritenerlo un uomo finito.
In entrambi i casi, l’errore
sta nell’averlo
ridotto e nel continuare a
ridurlo a un caso personale, inscrivendo il consenso montante di ieri
e la battuta d’arresto
di oggi nella traiettoria di una parabola biografica, mentre invece
ciò che ha fin qui rappresentato, e che senza di lui avrebbe solo da
attendere un altro interprete, è questione sociale, culturale,
politica: Matteo Salvini non è l’attore,
ma è l’agito
di ciò che è sempre stato maggioritario in Italia, a dispetto e a
disperazione delle anime buone e belle, tra le quali, a scanso di
ogni equivoco, m’annovero;
Matteo Salvini è stata solo l’occasione,
peraltro solo incidentale, per rendere vana la riprovazione morale
che costringeva al mugugno privato quello che oggi non ha più
ritegno, e anzi dà fiera esibizione di sé; col revival della logora
formula Dio-Patria-Famiglia, Matteo Salvini si offerto come
parafulmine degli strali che dagli anni Sessanta in poi hanno
fulminato i cattivi pensieri che non hanno mai smesso di alimentare
la sotterranea rete interpersonale di questo paese col pregiudizio e
la superstizione, il cinismo e l’opportunismo,
lo stato di eccezione che si fa legge sospendendo il diritto e la
doppia morale che fa da crinale tra amico e nemico.
Fenomeni del
genere – Matteo Salvini, dico – non nascono per caso, trovano
condizioni predisponenti e precursori per venire alla luce dopo più
o meno lunga incubazione, e soprattutto rispondono a bisogni diffusi,
ancorché inespressi. Ecco perché, come ho già scritto su queste
pagine, vanno capiti, studiati, compresi per i bisogni che
rappresentano e gli interessi di cui si fanno latori, piuttosto che
limitarsi a condannarli. E una traccia l’ho
data: sfogliate le annate de Il
Foglio
tra il 2004 e il 2012, troverete l’evocazione
di un Matteo Salvini, che però non ci si aspettava tanto truce, e
infatti il feroce antisalvinismo che oggi sfoggia il giornale fondato
da Giuliano Ferrara può ben essere letto come rimozione
dell’evocazione.
Ma torniamo alla lettera aperta di Fabio Sanfilippo, che a mio
modesto avviso fornisce un’altra
traccia, fin qui ignorata da tutti, che dà ragione della sterile
rabbia che ha nutrito e nutre l’antisalvinismo
militante e, insieme, della sconcertante idiozia del considerare
finito un uomo cui sondaggi, dopo tutto e nonostante tutto,
continuano ad accreditare il 33% dei consensi: parlo del passaggio in
cui si legge «quello
che non ti perdonerò è di aver plagiato la mente di due miei
nipoti»,
che rivela tutto l’orrore
del vedere contaminata dagli argomenti di Matteo Salvini la sfera
familiare, quella che si presumeva ne fosse protetta da bisogni e
interessi opposti.
«Io
non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me»,
diceva Giorgio Gaber (in realtà la frase fu presa in prestito da
Giampiero Alloisio): qui siamo a un passo dal «Salvini
che è in me»,
ed è perciò che possiamo essere indulgenti col povero Fabio
Sanfilippo, limitandoci ad imputargli l’incapacità
di accostarsi alle «ragioni
del nemico»,
ritraendosene col solo utile, tutto fortuito, che «con
i miei figli non ci sei riuscito, cazzo».
Quello del caporedattore di Rai
Radio1 non
è il vile maramaldeggiare su un vinto, ma l’inconscio
presagire che le «ragioni
del nemico» sono
ancora vive.
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