Nella
critica che Leo Strauss muove alla dottrina dei valori di Max Weber c’è
un
eccesso di animosità
che gli cagiona un infortunio: afferma che la reductio
ad Hitlerum –
sua è la paternità della locuzione, qui le dà vita – è da
intendersi come variante della reductio
ad absurdum.
Non è così, perché la reductio
ad absurdum
sta nel «dimostrare
la validità di una certa affermazione mostrando che, qualora essa
venisse negata, si arriverebbe a una contraddizione» (Treccani);
niente a che vedere, dunque, con quell’«attaccare
la persona che propone una certa tesi, anziché la tesi stessa»
(ibidem)
che invece è argumentum
ad hominem,
e che nella fattispecie in oggetto rivela la sua natura di fallacia
nel considerare che «a
view is not refuted by the fact that it happens to have been shared
by Hitler» (Natural Right and History, cap. II, pagg. 42-43).
È evidente che qui Leo Strauss sia incorso in un errore: che Hitler
andasse avanti a carote e zucchine non fa argomento valido contro la
dieta vegetariana, pretendere che l’inferenza
abbia senso è assurdo, sì, ma farlo non è reductio
ad absurdum.
È fuor di dubbio che la locuzione nascesse con un dichiarato intento ironico posto in quel buffo accusativo della seconda declinazione, fatto sta che la
riuscita dell’effetto
le procurò un immediato successo, che tuttora perdura, al punto che
reductio
ad Hitlerum
ormai sta saldamente in luogo di argumentum
ad hominem,
giacché Hitlerum
sta a perfetta antonomasia dell’hominem
che getta l’ombra
della sua pessima reputazione su tutto ciò che fa o che dice.
La
più sfacciata, ma anche la più persuasiva delle fallacie. Perché
factum
e dictum
vanno ad
iudicium
sempre accompagnati da qualcuno. La cui buona o cattiva fama tenderà
inevitabilmente a influenzare il foro. E il foro, più che fesso, è pigro. Se, infatti, la buona fama che fa
argumentum
ab auctoritate
e quella cattiva che fa argumentum
ad hominem
possono contare su questa influenza, è perché si offrono al foro come espediente per risparmiare tempo, e fatica: perché sprecarne tanto, e tanta, nel formulare ogni volta un iudicium strettamente motivato su ciò che ha detto Caio o ha fatto Sempronio, quando per
entrambi è pronto quello emesso sui loro dicta
e facta
già
passati in giudicato? Sarà un preiudicium,
certo, ma quanto potrà essere errato? Dall’ottimo
Caio non ci può attendere altro che del buono. Dal pessimo Sempronio, che-te-lo-dico-a-fare?
Da
un mostro come Mengele, per esempio? Solo mostruosità, è ovvio.
Contando su questo preiudicium,
dunque, posso tranquillamente contare che il foro emetta in
automatico, senza star lì a sprecare troppo cervello, una condanna
senza possibilità di appello su tutto ciò che sarò in grado di
reducere
ad Mengelem.
E però il foro è pigro, dicevamo, e, sì, talvolta è pure fesso,
ma mai al punto dal poterlo persuadere che – faccio per dire – la
lepre in salmì faccia schifo solo perché piaceva tanto a Mengele:
la reductio
ad Mengelem
mi tornerà utile per ottenere una condanna senza possibilità di
appello solo su ciò che riuscirò a dimostrare avere un nesso di
assai più stretta peculiarità alla figura di Mengele di quanto lo
sia la predilesione per la lepre in salmì. Il fatto che fosse medico
e ricercatore, per esempio, o il fatto che facesse esperimenti.
Un medico e un ricercatore cui oggi nessun medico e nessun ricercatore direbbe collega, certo, ed esperimenti che oggi nessuno si azzarderebbe a considerare legittimi. Ma questo non ha importanza, anzi, occorre che il foro non abbia modo di dargliene alcuna, perché Mengele mi serve per proiettare la mostruosità della sua attività nel campo eugenetico (peraltro in ricerche come quelle sui canali della «trasmissione razziale» e sulla possibilità di cambiare il colore dell’iride) su tutto ciò che intendo insinuare le sia affine, fa niente non lo sia: l’eutanasia come libertà di poter decidere come e quando morire, la fecondazione assistita come superamento delle difficoltà che impediscono di avere un figlio, la ricerca scientifica su blastocisti altrimenti destinate a rimanere congelate in eterno, ecc. Perciò mi occorre che il mostro che è in Mengele resti ben evidente sotto la buona reputazione che mi sforzerò di dimostrare aveva ai suoi tempi, di modo che avrò gioco facile nell’affermare che un’analoga mostruosità sta nella libera scelta eutanasica, nella libertà di ricorso alla fecondazione assistita, nella libertà di ricerca scientifica, ecc., a dispetto del maggioritario consenso di cui esse oggi godono.
Un medico e un ricercatore cui oggi nessun medico e nessun ricercatore direbbe collega, certo, ed esperimenti che oggi nessuno si azzarderebbe a considerare legittimi. Ma questo non ha importanza, anzi, occorre che il foro non abbia modo di dargliene alcuna, perché Mengele mi serve per proiettare la mostruosità della sua attività nel campo eugenetico (peraltro in ricerche come quelle sui canali della «trasmissione razziale» e sulla possibilità di cambiare il colore dell’iride) su tutto ciò che intendo insinuare le sia affine, fa niente non lo sia: l’eutanasia come libertà di poter decidere come e quando morire, la fecondazione assistita come superamento delle difficoltà che impediscono di avere un figlio, la ricerca scientifica su blastocisti altrimenti destinate a rimanere congelate in eterno, ecc. Perciò mi occorre che il mostro che è in Mengele resti ben evidente sotto la buona reputazione che mi sforzerò di dimostrare aveva ai suoi tempi, di modo che avrò gioco facile nell’affermare che un’analoga mostruosità sta nella libera scelta eutanasica, nella libertà di ricorso alla fecondazione assistita, nella libertà di ricerca scientifica, ecc., a dispetto del maggioritario consenso di cui esse oggi godono.
In sostanza: quanto più sarò in grado di dimostrare che Mengele
godeva di grande prestigio nel mondo scientifico dei suoi tempi,
tanto più potrò aspettarmi che il foro discrediti quello odierno, che
alle suddette libertà dà razionale fondamento. Per farlo, tuttavia,
potrà scapparmi un eccesso di animosità che potrà cagionarmi
qualche infortunio.
È
quello che, col numero in edicola sabato 1° febbraio, è accaduto a Il
Foglio, che della reductio
ad Mengelem
ha peraltro sempre fatto largo uso nelle sue passate battaglie culturali.
Limitando la ricerca alle sole 14 annate tra il 1996 e il 2009 che
qualche tempo fa il giornale raccolse in un dvd-rom al prezzo di €
9,90, si contano 94 occorrenze in 68 numeri. Robe di fattura
grossolana, tipo Mengele che porge una pompa da bicicletta alla
Bonino, Mengele che porta alla Consulta un pacco di firme per i
referendum sulla fecondazione assistita, Mengele che stacca la spina
a Welby, Mengele che tortura embrioni in Francia, in Belgio e in
Corea del Sud.
Stavolta si è tentato un uso più sofisticato della
reductio ad Mengelem, quello che illustravo poc’anzi, e qui è accaduto l’incidente, perché, nel pasticciare con la recensione di una biografia che intenderebbe dar risalto allo «scienziato» rispetto al «mostro» (il condizionale è d’obbligo, perché Il Foglio non si è mai fatto scrupolo di traduzioni assai addomesticate e di disonestissimi ritagli), alle mani del recensore sono rimaste appiccicate schifezze come «brillante ricercatore» e «non solo un assassino» che hanno urtato qualche sensibilità, facendo protestare qualche intelligenza per il titolo di «professore» assegnato a un Mengele mai salito in cattedra.
Qui vi risparmio gli improperi che su Twitter sono piovuti addosso al Meotti – era lui a firmare il pezzo – limitandomi a riportare il modo in cui si è difeso: è vero, Mengele non era «professore», ma «era pronto alla docenza»; e comunque «studiò con due Nobel»; andò a lezione dal «più grande genetista del tempo»; tutto questo, poi, non l’ho scritto io, ma Marwell, «ex
direttore del Museo del patrimonio ebraico di Washington che ha dato
la caccia a Mengele», io mi sono limitato a riportarlo.
Direi che come difesa sia efficace, via. Certo, resta quel «non solo un assassino» che puzza assai, ma chissà che pure quello non sia farina del sacco di Marwell, e a lui allora andrebbe posta la domanda che viene spontanea: scusi, Marwell, ma quale assassino è solo un assassino? E cosa aggiunge o cosa leva al suo essere un assassino il fatto che collezioni francobolli o tappi di bottiglia, tifi Spal o Sassuolo, soffra di emorroidi o di sinusite?
Un gran bel ginepraio, vero? Probabilmente anche voi sentirete il bisogno di mettere un po’ di ordine tra Mengele, Marwell e Meotti. Ho quello che fa per voi, è quanto ha scritto Andrea Mariuzzo, ricercatore presso il dipartimento Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia:
«Il
pezzo di Meotti non è affatto apologetico, ma il testo e il modo in
cui è presentato sparano davanti al pubblico in modo ostentatamente
provocatorio un tema delicato in cui bisogna stare attenti alle
sfumature».
Non coglie il fine della provocazione, ma fa niente, proseguiamo:
«Ha un senso inserire la figura in un contesto complesso:
quello di un dibattito scientifico in cui il tema dell’eugenetica
aveva ammissibilità scientifica in tutto il mondo, legato a
questioni come politica demografica, salute e igiene pubblica,
assistenza sociale, ecc., in cui la comunità accademica tedesca era
ancora all’avanguardia
del mondo, avendo rappresentato, fino a non molto tempo prima, il
modello per una moderna politica della conoscenza. Occorre tener
conto di ciò nella traiettoria biografica di Mengele, come del fatto
che mondo scientifico tedesco aveva subito dall’avvento
del III Reich una torsione verso la piena sottomissione alla politica
di guerra e di sterminio del regime che lo controllava e lo
finanziava. Mondo scientifico che era pesantemente epurato di tutti i
possibili corpi estranei, come tutta l’Europa
delle dittature, originando una migrazione di cui, tra l’altro,
approfittarono gli Usa attrezzandosi col personale che li avrebbe
condotti alla guida del progresso scientifico. In questo quadro
Mengele non era né un luminare né un ricercatore particolarmente
brillante, come i fiocchetti messi dal titolista lasciano intuire.
Non è solo perché il dibattito di settore nel dopoguerra ha preso
strade diverse se i suoi lavori non hanno lasciato alcun segno, ma
soprattutto perché è proprio vero che quanto ha compiuto erano
crimini e non esperimenti».
Meglio di così credo sia difficile dar conto di quanto sia pericoloso trattare un tema come quello della sperimentazione nei campi di concentramento nazisti lasciando che a guidare la mano sia solo l’improntitudine di maldestro uso polemico. Ma anche su questo Andrea Mariuzzo ha parole di estrema chiarezza:
«La lettura del volume recensito chiarirà
quali sono le acquisizioni originali, ma da quanto scritto sul Foglio
non è chiaro che cosa una ricerca impostata in questo modo ci
restituisca della vita di Mengele e della scienza interbellica che
già non sappiamo. Di sicuro non si vedono ragioni che giustificano
il sensazionalismo di una paginata di giornale. Il giudizio sullo
stile di lavoro di Meotti, non nuovo a pezzi che si rivelano centoni
mal tagliati di articoli in inglese tradotti in fretta, non muta con
questo intervento».
Più che una chiusa, una lapide.
P.S.: Dimenticavo di dar conto del titolo: 54.103.802 sono gli euro di finanziamento pubblico che Il Foglio s’è pappato dalla sua fondazione a tutt’oggi.