Nella
storia della medicina è capitato spesso che un clinico sia arrivato
a trovare la soluzione di un problema prima che ci arrivasse un
ricercatore.
Il
caso più emblematico è quello di un problema come le
infezioni:
un ricercatore (Pasteur) riesce a scoprire che esistono microrganismi
in grado di causare infezioni solo pochi mesi prima che muoia il
clinico (Semmelweis) che ne ha intuito l’esistenza
diciotto
anni prima,
mettendola in relazione alle numerose morti da sepsi puerperale che
si avevano nel
reparto di ostetricia dove lavorava.
Non
solo: deriso e osteggiato dal mondo accademico dell’epoca,
prima, e licenziato dal suo primario, dopo, muore in manicomio una
dozzina d’anni
prima che nei cadaveri venga documentata la presenza di batteri in grado
di causare una sepsi puerperale (aveva sostenuto che ne era
responsabile qualcosa che passava dalle mani degli ostetrici, che
avevano effettuato autopsie, alle gravide, che poi aiutavano a
partorire) e una ventina d’anni
prima che venga riconosciuta la proprietà battericida della sostanza
(il cloruro di calce) con la quale sosteneva fosse opportuno lavarsi
le mani passando dalla sala autoptica alla sala parto, per evitare la
carneficina.
Triste
vicenda, ma, a risarcirlo di quanto fu costretto a subire,
quarantadue anni dopo la sua morte la città che lo aveva trattato
come un pazzo (Budapest), trovandone conferma nel fatto che questo
poi lo facesse impazzire davvero, gli eresse una statua. E queste,
senza dubbio, son soddisfazioni.
Col
senno di poi è facile tifare Semmelweis, ma mettiamoci nei panni del
professor Klein, che era il suo primario, e che del mondo accademico
dell’epoca
era autorevole esponente. Sul punto, quello della sepsi puerperale,
la ricerca scientifica aveva raggiunto un pressoché generale
consenso: era dovuta a umori mortiferi, c’era
solo qualche dubbio sul donde sortissero. C’era
chi sosteneva che fossero prodotti dalla putrefazione di fluidi che
ristagnavano nell’utero
dopo il parto; altri, però, sostenevano che questi umori mortiferi
aleggiassero nell’aria
e ad alcune donne causassero una ritenzione del flusso mestruale,
che, ristagnando nell’utero,
andasse incontro a putrefazione, eccetera, come sopra; da ultimo
c’era
chi pensava che la putrefazione avesse origine da gas e feci di cui
l’intestino
non riusciva a liberarsi perché compresso dall’utero
gravido. Cazzate, sì, ma solo col senno di poi.
Col
senno dell’epoca,
era fin troppo ovvio che, a chiunque avesse osato azzardare
un’ipotesi
diversa, a buon diritto il professor Klein avrebbe potuto dire:
«Guardi, lei ha due possibilità: prenda una laurea in medicina, una
specializzazione in ostetricia e ginecologia, un dottorato in umori
mortiferi, e poi ci confrontiamo. Oppure, più comodo per lei, mi
ascolta e alla fine mi ringrazia, perché le ho insegnato qualcosa».
C’è
da giurarci che da tutte le taverne di Budapest si sarebbe levato un
fragoroso applauso al grande Klein (che fa un po’
ossimoro, ma vabbè).
Questo,
nel caso che ad azzardare l’ipotesi
fosse stato un profano, perché, nel caso che ad azzardarla fosse
stato un Semmelweis, il professor Klein avrebbe potuto dire, e anche
qui a buon diritto: «Lei osa mettere in discussione il grande
Virchow?». E qui, come in realtà accadde, Semmelweis aveva solo due
scelte: tacere o insistere. Ed è sulla natura di questo eventuale
insistere che occorre soffermarci, perché svela il punto di rottura
che sempre incombe sul patto da tempo stretto tra ricercatore e
clinico.
Noto
è su cosa regga questo patto. Il ricercatore formula ipotesi e cerca
prove che le possano validarle o invalidarle. Per farlo, ha bisogno,
prima o poi, di verificarle sul piano clinico, dove possono trovare o
meno la conferma di validità che hanno precedentemente ottenuto in
vitro e/o sul topo, sul coniglio o su qualsiasi altro animale da
laboratorio che, almeno in relazione a ciò che si intende testare,
si ritiene abbia con l’uomo
una affinità tale da rendere affidabili i risultati.
C’è
voluto un po’
di tempo, ma oggi le verifiche sul piano clinico dell’ipotesi
avanzata dal ricercatore sono parametrate in modo tale da far sì che
i risultati siano comunemente accettati dal ricercatore e dal
clinico. È dal clinico, d’altra
parte, che vengono posti al ricercatore i problemi che nascono dalla
pratica di tutti giorni.
Capita,
ad esempio, che il clinico possa trovarsi dinanzi ad una polmonite
particolarmente stronza. Dopo aver constatato che gli strumenti fin
lì messigli a disposizione dalla ricerca non danno soluzione al
problema, gli toccherebbe fare una telefonatina al ricercatore per
dirgli: «Senti, avrei un paziente con una polmonite strana,
resistente agli antibiotici. Direi sia virale, ma di polmoniti virali
così io non ne ho mai viste, quindi...».
Già
qui, però, può esserci il primo intoppo, perché al clinico può
capitare di uscire fuori dal seminato e, come Li Wenliang, azzardare:
«Sembrerebbe una polmonite da coronavirus, ma direi si tratti di un
coronavirus mai visto, qualcosa di simile al virus della Sars del
2002, ma un po’
più fetente...». Nel caso di Li Wenliang, l’azzardo
coglie nel segno, ma dall’altro
capo del telefono può ben sentirsi dire: «Guarda, tu sei oculista e
già è tanto che sconfini nella pneumologia, ma metterti pure a fare
il virologo, per piacere, no. Mandami un tampone e aspetta la
risposta, che spetta a me». Un fragoroso applauso dal vicino mercato
del pesce e, visto che la Wuhan del 2020 non è la Budapest del 1847,
qualche noia in più dalle autorità. Tranquilli, però, perché
anche qui, se l’azzardo
coglie nel segno, c’è
la statua. Dopo morto, vabbé, ma non è il caso di star troppo a
sottilizzare.
Stessa
cosa accade al clinico, chessò, un’anestesista
(qui con l’apostrofo,
perché si tratta di una donna, la dottoressa Malara) che, all’arrivo
di un paziente all’Ospedale di Codogno con febbre, dispnea, ecc.,
né cinese, né proveniente dalla Cina, decide di fargli un tampone
perché sospetta possa trattarsi di Covid-19. Non dovrebbe farlo,
perché nel caso di specie i protocolli non lo prevedono, e i
protocolli sono stati stilati da ricercatori in vari campi
(infettivologi, epidemiologi, esperti di statistica, ecc., e tutti di
altissimo livello, con un distintivo dell’Oms o dell’Iss
appuntato al bavero della giacca), eppure lo fa, a rischio che le
detraggano dallo stipendio il costo del tampone, se il risultato
depone per una polmonite da pneumococco, però portata in spalla come
la statua della Madonna, se ingarra (pare che la statua, in questi
casi, sia una costante).
Speriamo
capiti eguale sorte al professor Spagnolo, che, senza essere un
ricercatore (è primario di cardiochirurgia presso l’Ospedale di
Monza), si è permesso di dire che col Covid-19 si muore per
tromboembolia polmonare e che dunque un farmaco antitrombolico come
l’eparina sia risolutivo, quando somministrato in tempo utile, ad
evitare la morte del paziente, che è morte da tromboembolia
polmonare provocata dal Sars-coV-2. Suppongo non sia difficile
intuire cosa implichino queste affermazioni. Sul piano clinico,
darebbero spiegazione di molte cose, in primo luogo del perché i
morti da Covid-19 siano nella stragrande maggioranza soggetti che per
età e comorbilità sono più portati ad avere una tromboembolia
polmonare. I problemi, però, nascono sul piano della ricerca, perché
come ha prontamente fatto notare il professor Klein de noantri a chi
gli chiedeva un parere su un’ipotesi che non veniva formulata da un
ricercatore ma da un clinico: «Le notizie affidabili non arriveranno
da un medico anonimo, ma dal New England Journal of Medicine o da The
Lancet». E qui c’è da rilevare che, in attesa della eventuale
statua, al clinico che si è azzardato a formulare un’ipotesi non
sono concessi neppure il nome e il cognome che ha.
Speriamo
che il New England Journal of Medicine prenda in considerazione
l’eparina, così, se l’ipotesi di Spagnolo si rivelerà una
cazzata, potremo tutti tirare un sospiro di sollievo al sapere che la
ricerca è riuscita a preservare l’intangibilità del suo
perimetro. Questa soddisfazione, però, pare sia destinata ad essere
rimandata: al momento il New England Journal of Medicine sta
prendendo in considerazione il Remdesivir, e pubblica uno studio
sull’impiego del farmaco in 61 pazienti, 8 dei quali esclusi ai
fini delle conclusioni sugli effetti. Studio, dunque, sugli effetti
del farmaco in 53 pazienti. E gli autori dello studio sono 56. A
dimostrazione che la ricerca non lesina energie.