lunedì 27 aprile 2020

«Pattuglia di gente tecnicamente squinternata»





Una delle scorrettezze cui si fa più spesso ricorso quando si polemizza è quella dell’argomento fantoccio, col quale si offre al foro una rappresentazione tanto distorta della posizione avversa da renderla obiettivamente insostenibile. Non è un caso, dunque, che a questa scorrettezza spesso se ne accompagni un’altra, quella dell’argumentum ad hominem, che mira a screditare una tesi screditando chi la sostiene. Accompagnandosi, esse si potenziano a vicenda. Distorcendo la posizione avversa fino a renderla obiettivamente insostenibile, infatti, l’avversario diventa persona inaffidabile, e questa sua inaffidabilità va a costituire ulteriore elemento che ne scredita la tesi.
È proprio a queste due scorrettezze, e quasi esclusivamente a queste due, che ormai Il Foglio ricorre quando polemizza, e questo è un vero peccato, perché in passato era solito offrire un ventaglio assai più ampio e variegato di vizi d’argomentazione, con esemplari saggi di appello all’autorità e di richiamo alla tradizione, di inversione dell’onere di prova e di confusione tra causa ed effetto, di falsa nitidezza e di pendio scivoloso, ecc. 
Dapprima ho pensato dipendesse dal fatto che a dirigerlo non fosse più Giuliano Ferrara, ma Claudio Cerasa: «hanno mise ’a fessa mmano a ’e ccriature», mi son detto ricorrendo a un’immagine in uso dalle mie parti, ma sbagliavo, perché quella certa qual cura che in passato Il Foglio non aveva mai fatto mancare alla mistificazione, alla manipolazione, allavvelenamento dei pozzi, spariva via via anche dai pezzi siglati con l’elefantino rosso, per lasciar posto solo a fallacie grossolane come il ricorso all’emozione, la petizione di principio, il falso dilemma e, appunto, l’argumentum ad hominem, quasi sempre dopo aver ridotto l’homo a fantoccio.
Ho concluso che il problema non è Cerasa. È che, più banalmente, anche Il Foglio risente, e pesantemente, da almeno cinque o sei anni a questa parte, del degrado che da tempo affligge la discussione pubblica, in generale, e la polemica, in particolare: ovviamente vige ancora, com’è da sempre, lì e ovunque, la regola che nel foro non bisogna farsi troppi scrupoli – persuadere rimane questione di vita o di morte – ma pare che un po’ tutti ormai ritengano superfluo quel tocco di eleganza che un tempo si considerava velo indispensabile alla frode, e che, volendo, poteva essere considerato perfino come una sorta di ultimo rispetto dovuto ai frodati. Il giornale fondato da Ferrara e diretto da Cerasa, semplicemente, non fa eccezione.

Chi di tutto ciò volesse aver prova con un esempio non ha che da considerare il modo con cui Il Foglio ha avversato la posizione che, riguardo alle misure adottate per fronteggiare l’epidemia da Covid-19, Giorgio Agamben ha espresso dapprima ne Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, apparso su il manifesto di mercoledì 26 febbraio, e poi in altri testi (li trovate tutti alla pagina quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben), che, senza smentirla, né mitigarla, la precisavano, per lo più in risposta alle obiezioni che gli erano state mosse.
Non si poteva certo pretendere che per contestare quella posizione Il Foglio si facesse scrupolo nel far ricorso a vizi d’argomentazione, ma chi si aspettava che ci risparmiasse almeno quelli più volgari ha avuto la delusione che meritava: «Un filosofo da cabaret ha scritto sul manifesto che ’o virùs è tutta una messinscena per affermare lo stato di eccezione, capite?» (Giuliano Ferrara); «Agamben è l’intellò di maggior pedigree a predicare, da mesi, che il coronavirus non esiste, è una diceria dell’untore. Non è di quelli che pensano che sia un complotto cinese. No, lui è proprio convinto che non esista […] e nel sillogismo con cui ce la mena da mesi ritiene che, non essendoci il virus, la nostra reclusione sia il vero complotto, contro la libertà: “Sta nascendo un dispotismo e sarà peggiore di quelli del passato”. Ma sticazzi, roba da darsela Agamben» (Maurizio Crippa); «Nel 2004 Agamben annullò un corso alla New York University perché le condizioni per l’ingresso negli Stati Uniti – la schedatura e il rilascio delle impronte digitali – gli parevano figlie di un nuovo paradigma biopolitico totalitario» (Guido Vitiello).
«Un filosofo da cabaret» invitato a tenere «un corso alla New York University»? Eccheccazzo, quando ci si mette in tre o quattro a gettare merda addosso a qualcuno, mettersi daccordo prima non guasterebbe, servirebbe almeno ad evitare il fuoco amico. E poi, ok, passi luso del cognome di chi ti sta sul cazzo per confezionare una battutina da ginnasiale scemo («darsela Agamben»), che quando lo fa Dagospia («non cè Crippa per gatti») tutto schifato alzi sopracciglio come a dire «mon dieu, quelle vulgarité!», ma dimmi: «lintellò di maggior pedigree» ha scritto veramente che «il coronavirus non esiste»? No, eh? E se a chi ti legge viene il prurito di culo di andare a controllare, che figura ci rimedi?

E sì che un concetto come quello di «stato deccezione» si prestava allimpiego di fallacie assai più sofisticate. Si poteva addirittura metterne in discussione la solidità, perché già nella formulazione datane da Carl Schmitt (Politische Teologie, 1922) ci è offerto come il momento che oppone la legittimità alla legalità: glissando sul sottotesto, che in realtà oppone l’arbitrio al diritto, in più attribuendo al primo la piena sovranità che al secondo è concessa solo in simulacro, si poteva liquidare il concetto stesso come uno specioso paradosso, accusando Agamben di aver appiccicato la nazicazzabubbola schmittiana a una situazione in cui, al contrario, la legittimità e la legalità trovano perfetta coincidenza nella sospensione del diritto di libera circolazione che la Costituzione contempla in forza di superiori «motivi di sanità e di sicurezza» (art. 16). Certo, c’era da sforzarsi un pochino per far rientrare nella fattispecie di «limitazioni che la legge stabilisce in via generale» lo scacazzo di un decreto governativo ogni settimana e di unordinanza regionale ogni tre giorni, ma con un po di faccia tosta, via, non era sforzo da farsi scendere le emorroidi.
Oppure si poteva lasciare in pace Schmitt per contestare la lettura fattane da Agamben (Stato di eccezione, 2003). Certo, cera da leggere un centinaio di pagine, comprenderle o almeno far finta, e poi aggrapparsi a un aggettivo o a un verbo, tirando a più non posso, nella speranza di far venire giù tutta la costruzione. Ma pure questo si è ritenuto troppo faticoso e, in ultima analisi, non necessario, come rivela quanto segue: «“Fermi tutti, è un’epidemia inventata”, spiega invece il filosofo Agamben. Prendiamo i fatti per quello che sono, poi mandiamoli all’aria, rovesciamoli, laviamoli con un po’ di “biopolitica” e guardiamoli meglio. Eccoci piombati nello “Stato di eccezione”. Si entra e esce dallo “Stato di eccezione” come se niente fosse, peggio che con le “emergenze democratiche”» (Andrea Minuz).
Non può trattarsi di un refuso tipografico, perché per ben due volte a Stato si mette la maiuscola, come quando al termine si dà accezione di «comunità politica costituita da un popolo stanziato in un determinato territorio e organizzato unitariamente come persona giuridica collettiva» (Treccani), «organizzazione politica e giuridica della società civile» (Devoto-Oli), «istituzione che rappresenta tutti i cittadini governati da uno stesso governo» (Palazzi). Nulla a che vedere, dunque, con lo stato che nello stato deccezione sta per situazione, condizione, modo dessere, e perciò vuole la s minuscola. Daltronde occorre essere indulgenti con Minuz: insegna Storia del Cinema, non è tenuto ad aver letto Schmitt e Agamben, ma – siamo onesti – perché questo dovrebbe fargli impedimento a parlarne? Non sia mai, verrebbe meno il tratto distintivo del giornale fondato da Ferrara e diretto da Cerasa, che Edmondo Berselli definì «pattuglia di gente tecnicamente squinternata» (Venerati maestri, 2006).

Vabbè – mi chiederà il lettore – ma Agamben? Agamben ha ragione, dico io. Ha detto che le misure di emergenza messe in atto per fronteggiare il Covid-19 sono state «frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate»? Cè chi in buona fede può dire siano state sagge ed equilibrate? Cè chi se la sente di sostenere che abbiamo sempre avuto motivazioni razionali? Certo, ha scritto che «non c’è unepidemia di SARS-CoV2 in Italia», ma lha scritto solo quattro giorni dopo che Burioni aveva detto alla Bignardi che «in Italia il virus non c’è, ha più senso preoccuparsi di meteoriti» (LAssedio – Nove, 20.2.2020), e comunque limitandosi a farlo riportando in virgolettato quanto affermato dal Cnr, che in quei giorni negava fosse in corso unepidemia (en passant, va detto che, contrariamente a quanto gli ha attribuito Il Foglio, già dal 5 marzo in poi Agamben non ha avuto alcuna difficoltà nel riconoscere che quella in corso fosse unepidemia). Erano i giorni in cui, per il Cnr, linfezione «causa[va] sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva» (anche in questo caso Agamben si limitava a prendere di peso un virgolettato del Cnr per riportarlo nel corpo del suo articolo). Dati cui gli sviluppi della vicenda sanitaria hanno dato sostanziale smentita?
Ha scritto, poi, che le misure del Governo, scavalcando il Parlamento, implicavano di fatto la sospensione di un buon numero di diritti costituzionalmente garantiti a mezzo di «una vera e propria militarizzazione», e l’ha scritto il 26 febbraio, diverse settimane prima che ci toccasse assistere a blitz delle forze dell’ordine impiegate a interrompere messe cui partecipavano una decina di fedeli seduti a più di due metri di distanza l’uno dall’altro, a droni librati in volo a intercettare rider sorpresi a consegnare pizze, a quad lanciati in manovre a tenaglia per braccare un tizio che, solo soletto, prendeva il sole in spiaggia: il termine «militarizzazione» calza male a episodi del genere?
L’articolo del 26 febbraio, poi, chiudeva segnalando «lo stato di paura che in questi anni si è diffuso nelle coscienze degli individui» e che li porta ad accettare «la limitazione della libertà imposta dai governi», «in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo». Esagerato? A me non pare. Di fatto, in cambio di una sicurezza che non si è rivelata poi tanto sicura, il Paese ha supinamente accettato obblighi e divieti che in più di un caso sono parsi privi di ogni altro senso che quello di saggiare la sua supinità.
Un discorso a parte, in verità, meriterebbe la ratio che informava l’offerta di questa sicurezza. Si prenda a esempio l’ineffabile Di Maio che, commentando qualche episodio di disobbedienza, prospettava che questo avrebbe posto la necessità di restrizioni più severe per tutti. Ricordate il sergente maggiore Hartman in Full metal jacket, vero? Cosa dice quando scopre che, contravvenendo alla regola che in camerata non si porta cibo, Palla-di-lardo ha inguattato una ciambella nella sua trousse da campo? «Il soldato Palla-di-lardo ha disonorato se stesso e ha disonorato il suo plotone. Io ho cercato di aiutarlo, ma ho fallito. Io ho fallito perché voi non avete aiutato me. Nessuno di voi ha dato al soldato Palla-di-lardo le dovute e giuste motivazioni. Qui, da adesso in poi, quando Palla-di-lardo farà una cazzata, io non punirò il suddetto: io punirò tutti quanti voi». Convengo che il paragone possa apparirvi azzardato, ma credo che molto dipenda dal fatto che quello di Hartman era un latrato e quello di Di Maio un cinguettio.
Ma torniamo ad Agamben. Che altro ha detto?

11 marzo: «Le recenti disposizioni trasformano di fatto ogni individuo in un potenziale untore, esattamente come quelle sul terrorismo consideravano di fatto e di diritto ogni cittadino come un terrorista in potenza». Lasciamo perdere se sia giusto o meno, anzi, concediamo che sia più che giusto, ma chiediamoci: è vero o no?
17 marzo: «L’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. [Qui sarebbe utile dare qualche ragguaglio sul concetto di «nuda vita» che ha un ruolo centrale nell’opera di Agamben, ma questo ci costringerebbe a divagare troppo. Possiamo tagliar corto prendendo a corrispettivo quel che è la «nuda proprietà» di una casa: è mia, ma non posso abitarvi.] È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa». Qui, mi rendo conto, è un po’ più arduo pronunciarsi. Ritengo che tutto dipenda dalla tutta personale idea che si ha della vita, che poi altro non è l’idea che ci si è fatti della propria vita: come c’è chi alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza, c’è chi alla sicurezza è disposto a sacrificare ogni libertà. Anche qui possiamo sospendere ogni giudizio di merito, basta chiedersi: è vero o no?
27 marzo, forse il punto più intenso della sua riflessione: «Mai come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure». Quanto lontano dal vero?
E ancora: «Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla, tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata». È considerazione balzana?
6 aprile, sul cosiddetto «distanziamento sociale»: «È importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso: essa sarebbe, proprio al contrario, come quella che vediamo oggi intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva». Non so a voi, ma a me pare osservazione tutt’altro che banale. Anzi, rinunciando all’eufemismo, direi sia osservazione estremamente acuta.
14 aprile: «Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? [...] Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale? [...] So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio è stato fatto in nome di principi morali. A costoro vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale kantiana. Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà».
E ancora, 20 aprile, sulla patente incostituzionalità di misure ventilate in ordine alla cosiddetta «fase 2»: «Due punti fra quelli che si preparano sono particolarmente odiosi e in palese violazione dei principi della costituzione: la possibilità di muoversi limitata per fasce di età, cioè con l’obbligo per gli ultrasettantenni di restare chiusi in casa e la mappatura sierologica obbligatoria per tutta la popolazione. […] [Anticostituzionale, la prima], in quanto crea una fascia di cittadini di serie B, mentre tutti i cittadini devono essere uguali davanti alla legge, e li priva di fatto della loro libertà con una imposizione dall’alto del tutto ingiustificata, che rischia di nuocere alla salute delle persone in questione e non di proteggerla. […] Altrettanto illegittimo è l’obbligo di una mappatura sierologica, dal momento che l’art. 32 della costituzione stabilisce che nessuno può esser sottoposto a visita medica se non per disposizione di legge, mentre ancora una volta, com’è avvenuto finora, le misure verrebbero stabilite per decreto del governo». Anche qui: trovate traccia di vizio logico?

Non vorrei che il mio lettore pensasse che aver preso le difese di Agamben voglia dire ch’io ne condivida il pensiero. Molto nella sua riflessione filosofica mi pare discutibile, e anche la sua posizione sui temi sollevati dall’emergenza Covid-19 non mi pare affatto sottoscrivibile in toto, come sarà evidente da quanto dirò riguardo all’intervista che chiude questa rapida galleria dei suoi testi sulla questione. La cosa che, però, mi diverte da morire è che quanto mi trova in totale disaccordo con lui  in questa intervista ha una singolare sintonia con molte passate annate de Il Foglio, sia per il contenuto, sia per la forma. Agamben, infatti, dice a chi lo intervista che «gli scienziati, a torto o a ragione, perseguono in buona fede le loro ragioni, che si identificano con l’interesse della scienza e in nome delle quali – la Storia lo dimostra ampiamente – sono disposti a sacrificare qualunque scrupolo di ordine morale. Non ho bisogno di ricordare che sotto il nazismo scienziati molto stimati hanno guidato la politica eugenetica e non hanno esitato a approfittare dei lager per eseguire esperimenti letali che ritenevano utili per il progresso della scienza e per la cura dei soldati tedeschi». Non puzza di Meotti? 
E ancora: «La scienza è diventata la religione del nostro tempo. L’analogia con la religione va presa alla lettera: i teologi dichiaravano di non potere definire con chiarezza che cos’è Dio, ma in suo nome dettavano agli uomini delle regole di condotta e non esitavano a bruciare gli eretici; i virologi ammettono di non sapere esattamente che cos’è un virus, ma in suo nome pretendono di decidere come devono vivere gli esseri umani». Certo, Langone avrebbe messo a inciso che Dio non può e non deve esser chiaro, e soprattutto che bruciare gli eretici era cosa buona e giusta per preservare la fede dalle insidie del dubbio, tipo zampirone che fuga le zanzare, ma per il resto, via, siamo lì.
E infine: «La specie umana è caratterizzata da una progressiva inibizione dei processi vitali naturali di adattamento all’ambiente, che vengono sostituti da una crescita ipertrofica di dispositivi tecnologici per adattare l’ambiente all’uomo. Quando questo processo sorpassa un certo limite, esso raggiunge un punto in cui diventa controproducente e si trasforma in autodistruzione della specie. Fenomeni come quello che stiamo vivendo mi sembrano mostrare che quel punto è stato raggiunto e che la medicina che doveva curare i nostri mali rischia di produrre un male ancora più grande. Contro questo rischio dobbiamo resistere con ogni mezzo». Manca del caratteristico flamboyant ferrariano, è vero, ma sfigurerebbe a premessa di una tirata contro la pillola anticoncezionale?

giovedì 16 aprile 2020

«Ne prendo atto»


Basta parlare di coronavirus. In fondo questo è un blog, e cioè un diario. Un diario pubblico, vabbè, ma un diario. Parliamo daltro, dunque.
Vi ho detto, per esempio, quello che mè capitato a Capodanno? Ha dellincredibile, e infatti temo che farete fatica a credermi. Comunque.
Avete presente il tizio che nelle vignette umoristiche de La Settimana Enigmistica sta steso in un letto dospedale in una ingessatura integrale tipo mummia? Sì, quello con la moglie seduta accanto che gli dice: «Mai una carezza, Ernesto!». Insomma, ci siamo capiti.
Bene, sto lì col cellulare in mano per riprendere in video Michele e Brunella che vengono giù in slittino, quando nellinquadratura appare lui, la mummia, sugli sci. Robe da non credere, ve lavevo detto, quindi adesso non state a tirar su quel sopracciglio.
Un po mi conoscete, non sono riuscito a trattenermi: ho aspettato che arrivasse giù e lho avvicinato.

«Bella giornata, eh?», ho fatto. Per rompere il ghiaccio.
«Ah, sì, sciare con questo sole è una delizia. Lei che fa, non scia?».
«No – mi son schermito – sono dun pigro... Sto qui solo perché mio figlio va matto per la neve... E poi lidea di rompermi losso del collo... No, no, non fa per me!».
«Ero come lei, sa?», mi fa.
«E poi?».
«E poi ecco qua, ho trovato la soluzione per coniugare divertimento e sicurezza».
«Ma ho capito bene? – ho buttato lì, facendo un po lo gnorri – È proprio gesso?».
«Ho un amico ortopedico».
«Insomma...».
«Raziocinio, signor mio, raziocinio. Mi segua. Lei non scia, perciò è probabile ne sia all’oscuro, ma sa che anche al più esperto sciatore capitano almeno due o tre cadute a stagione? Le risparmio la lista dei traumi possibili. E allora eccomi qui: danni praticamente ridotti a zero...».
«Ma dev’essere scomodo...», provo a dire.
«Se pensa a tutti i guai che evita, tutt’altro. Pensi che io son qui da venerdì scorso e in questi cinque giorni mi son risparmiato una frattura sottotrocanterica del femore sinistro, uninfrazione bimalleolare destra, una lesione del crociato anteriore del ginocchio destro e un vasto ematoma nella regione presacrale. Conto di rimanere qui fino a giovedì, così potrò evitare anche una lesione parziale del tendine d’Achille, i calcoli non mi danno con certezza se destro o sinistro, e una sublussazione della spalla sinistra...».
«Ho capito bene? Ha detto “calcoli”? Come può calcolare con tanta precisione quello che potrebbe accaderle senza ...?», e qui mi son fermato in tempo, perché mi conosco: quando non riesco a trovare la parola giusta, trovo sempre quella più sbagliata di tutte.
Non vedevo uno sguardo di compassione come quello che ho intuito oltre il gesso dalla volta che allasilo suor Crocifissa saccorse che mi ero cagato addosso.
«Evidentemente lei è un fatalista», mi fa. Ma si capiva che voleva dire «irresponsabile», se non peggio.
«No, per carità, anzi...», dico per mettere riparo a quella che prefiguro come figuraccia.
«Non deve mica vergognarsi, sa? Siete in tanti. E non è colpa vostra, ovvio, è che questo paese ha un grave deficit di cultura scientifica. Zero in matematica, tutti: o ignoranti o liceo classico. Lei ha fatto il classico, vero?».
Abbozzo un annuire, ma mi sento rigido. Per fortuna, lui coglie il mio imbarazzo e mi viene in soccorso con una benevolenza che mi commuove.
«È davvero interessato a capire?».

Meraviglia delle meraviglie, cosa non riesce a penetrare la mente che sa usare i numeri? In meno di dieci minuti la mummia mi srotola dinanzi statistiche dogni genere, dal 1961 al 2017 (un po’ contrito mi faceva presente che quelle del 2018 non erano ancora state diffuse). Cortina, Livigno, Cervinia e, appunto, Roccaraso. E poi due o tre dozzine di voci bibliografiche da autorevolissime riviste di ortopedia e traumatologia (qua e là interpuntava con un «di questo studio or non mi sovviene se è del 2005 o del 2006»). E grafici, poi, una catasta di grafici, che ovviamente non poteva disegnarmi (niente carta e penna a portata di mano, ma soprattutto mani ingessate): li tracciava in aria muovendo le pupille. Vivissime, sia detto en passant.
«... ora prenda i dati diffusi negli ultimi sei anni dai due presidi ospedalieri nella zona, trovi la funzione polinomiale che li lega, ne faccia il grafico su una scala logaritmica, analizzi la derivata prima e seconda, e tutto le sarà chiaro!».
Non ho potuto far altro che arrendermi: «Ne prendo atto».

mercoledì 15 aprile 2020

Primato della ricerca sulla clinica


Nella storia della medicina è capitato spesso che un clinico sia arrivato a trovare la soluzione di un problema prima che ci arrivasse un ricercatore.
Il caso più emblematico è quello di un problema come le infezioni: un ricercatore (Pasteur) riesce a scoprire che esistono microrganismi in grado di causare infezioni solo pochi mesi prima che muoia il clinico (Semmelweis) che ne ha intuito l’esistenza diciotto anni prima, mettendola in relazione alle numerose morti da sepsi puerperale che si avevano nel reparto di ostetricia dove lavorava.
Non solo: deriso e osteggiato dal mondo accademico dellepoca, prima, e licenziato dal suo primario, dopo, muore in manicomio una dozzina danni prima che nei cadaveri venga documentata la presenza di batteri in grado di causare una sepsi puerperale (aveva sostenuto che ne era responsabile qualcosa che passava dalle mani degli ostetrici, che avevano effettuato autopsie, alle gravide, che poi aiutavano a partorire) e una ventina danni prima che venga riconosciuta la proprietà battericida della sostanza (il cloruro di calce) con la quale sosteneva fosse opportuno lavarsi le mani passando dalla sala autoptica alla sala parto, per evitare la carneficina.
Triste vicenda, ma, a risarcirlo di quanto fu costretto a subire, quarantadue anni dopo la sua morte la città che lo aveva trattato come un pazzo (Budapest), trovandone conferma nel fatto che questo poi lo facesse impazzire davvero, gli eresse una statua. E queste, senza dubbio, son soddisfazioni.
Col senno di poi è facile tifare Semmelweis, ma mettiamoci nei panni del professor Klein, che era il suo primario, e che del mondo accademico dellepoca era autorevole esponente. Sul punto, quello della sepsi puerperale, la ricerca scientifica aveva raggiunto un pressoché generale consenso: era dovuta a umori mortiferi, cera solo qualche dubbio sul donde sortissero. Cera chi sosteneva che fossero prodotti dalla putrefazione di fluidi che ristagnavano nellutero dopo il parto; altri, però, sostenevano che questi umori mortiferi aleggiassero nellaria e ad alcune donne causassero una ritenzione del flusso mestruale, che, ristagnando nellutero, andasse incontro a putrefazione, eccetera, come sopra; da ultimo cera chi pensava che la putrefazione avesse origine da gas e feci di cui lintestino non riusciva a liberarsi perché compresso dallutero gravido. Cazzate, sì, ma solo col senno di poi.
Col senno dellepoca, era fin troppo ovvio che, a chiunque avesse osato azzardare unipotesi diversa, a buon diritto il professor Klein avrebbe potuto dire: «Guardi, lei ha due possibilità: prenda una laurea in medicina, una specializzazione in ostetricia e ginecologia, un dottorato in umori mortiferi, e poi ci confrontiamo. Oppure, più comodo per lei, mi ascolta e alla fine mi ringrazia, perché le ho insegnato qualcosa». Cè da giurarci che da tutte le taverne di Budapest si sarebbe levato un fragoroso applauso al grande Klein (che fa un po ossimoro, ma vabbè).
Questo, nel caso che ad azzardare lipotesi fosse stato un profano, perché, nel caso che ad azzardarla fosse stato un Semmelweis, il professor Klein avrebbe potuto dire, e anche qui a buon diritto: «Lei osa mettere in discussione il grande Virchow?». E qui, come in realtà accadde, Semmelweis aveva solo due scelte: tacere o insistere. Ed è sulla natura di questo eventuale insistere che occorre soffermarci, perché svela il punto di rottura che sempre incombe sul patto da tempo stretto tra ricercatore e clinico.
Noto è su cosa regga questo patto. Il ricercatore formula ipotesi e cerca prove che le possano validarle o invalidarle. Per farlo, ha bisogno, prima o poi, di verificarle sul piano clinico, dove possono trovare o meno la conferma di validità che hanno precedentemente ottenuto in vitro e/o sul topo, sul coniglio o su qualsiasi altro animale da laboratorio che, almeno in relazione a ciò che si intende testare, si ritiene abbia con luomo una affinità tale da rendere affidabili i risultati.
Cè voluto un po di tempo, ma oggi le verifiche sul piano clinico dellipotesi avanzata dal ricercatore sono parametrate in modo tale da far sì che i risultati siano comunemente accettati dal ricercatore e dal clinico. È dal clinico, daltra parte, che vengono posti al ricercatore i problemi che nascono dalla pratica di tutti giorni.
Capita, ad esempio, che il clinico possa trovarsi dinanzi ad una polmonite particolarmente stronza. Dopo aver constatato che gli strumenti fin lì messigli a disposizione dalla ricerca non danno soluzione al problema, gli toccherebbe fare una telefonatina al ricercatore per dirgli: «Senti, avrei un paziente con una polmonite strana, resistente agli antibiotici. Direi sia virale, ma di polmoniti virali così io non ne ho mai viste, quindi...».
Già qui, però, può esserci il primo intoppo, perché al clinico può capitare di uscire fuori dal seminato e, come Li Wenliang, azzardare: «Sembrerebbe una polmonite da coronavirus, ma direi si tratti di un coronavirus mai visto, qualcosa di simile al virus della Sars del 2002, ma un po più fetente...». Nel caso di Li Wenliang, lazzardo coglie nel segno, ma dallaltro capo del telefono può ben sentirsi dire: «Guarda, tu sei oculista e già è tanto che sconfini nella pneumologia, ma metterti pure a fare il virologo, per piacere, no. Mandami un tampone e aspetta la risposta, che spetta a me». Un fragoroso applauso dal vicino mercato del pesce e, visto che la Wuhan del 2020 non è la Budapest del 1847, qualche noia in più dalle autorità. Tranquilli, però, perché anche qui, se lazzardo coglie nel segno, cè la statua. Dopo morto, vabbé, ma non è il caso di star troppo a sottilizzare.
Stessa cosa accade al clinico, chessò, unanestesista (qui con l’apostrofo, perché si tratta di una donna, la dottoressa Malara) che, all’arrivo di un paziente all’Ospedale di Codogno con febbre, dispnea, ecc., né cinese, né proveniente dalla Cina, decide di fargli un tampone perché sospetta possa trattarsi di Covid-19. Non dovrebbe farlo, perché nel caso di specie i protocolli non lo prevedono, e i protocolli sono stati stilati da ricercatori in vari campi (infettivologi, epidemiologi, esperti di statistica, ecc., e tutti di altissimo livello, con un distintivo dell’Oms o dell’Iss appuntato al bavero della giacca), eppure lo fa, a rischio che le detraggano dallo stipendio il costo del tampone, se il risultato depone per una polmonite da pneumococco, però portata in spalla come la statua della Madonna, se ingarra (pare che la statua, in questi casi, sia una costante).
Speriamo capiti eguale sorte al professor Spagnolo, che, senza essere un ricercatore (è primario di cardiochirurgia presso l’Ospedale di Monza), si è permesso di dire che col Covid-19 si muore per tromboembolia polmonare e che dunque un farmaco antitrombolico come l’eparina sia risolutivo, quando somministrato in tempo utile, ad evitare la morte del paziente, che è morte da tromboembolia polmonare provocata dal Sars-coV-2. Suppongo non sia difficile intuire cosa implichino queste affermazioni. Sul piano clinico, darebbero spiegazione di molte cose, in primo luogo del perché i morti da Covid-19 siano nella stragrande maggioranza soggetti che per età e comorbilità sono più portati ad avere una tromboembolia polmonare. I problemi, però, nascono sul piano della ricerca, perché come ha prontamente fatto notare il professor Klein de noantri a chi gli chiedeva un parere su un’ipotesi che non veniva formulata da un ricercatore ma da un clinico: «Le notizie affidabili non arriveranno da un medico anonimo, ma dal New England Journal of Medicine o da The Lancet». E qui c’è da rilevare che, in attesa della eventuale statua, al clinico che si è azzardato a formulare un’ipotesi non sono concessi neppure il nome e il cognome che ha.
Speriamo che il New England Journal of Medicine prenda in considerazione l’eparina, così, se l’ipotesi di Spagnolo si rivelerà una cazzata, potremo tutti tirare un sospiro di sollievo al sapere che la ricerca è riuscita a preservare l’intangibilità del suo perimetro. Questa soddisfazione, però, pare sia destinata ad essere rimandata: al momento il New England Journal of Medicine sta prendendo in considerazione il Remdesivir, e pubblica uno studio sull’impiego del farmaco in 61 pazienti, 8 dei quali esclusi ai fini delle conclusioni sugli effetti. Studio, dunque, sugli effetti del farmaco in 53 pazienti. E gli autori dello studio sono 56. A dimostrazione che la ricerca non lesina energie.



venerdì 10 aprile 2020

«They too are human...»






«Now, if you think that science is an abstract subject free
of sensationalism and distortions, I have some sobering news...
Scientists too are vulnerable to narratives... They too are human
and get their attention from sensational matters...»

Nassim Nicholas Taleb, The Black Swan, 2007




In tuttaltro contesto – era sei o sette mesi fa, recensivo una parodia di Platone alla corte di Dionisio – della scienza dicevo quanto segue:

Nei vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile, verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo sia preferibile a quel «falsificabile» che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo alla Fälschungsmöglichkeit di cui ci parla Popper). Un vaglio assai severo, occorre dire, dal quale tuttavia nessuno pretende di potersi sottrarre, né in forza dell’autorità precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale consenso» di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un carattere di transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia l’uso di un termine come «verità» da appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto scientificamente comprovato. Difficile dire con quanta consapevolezza accada, ma sembra quasi che chi si misura con la conoscenza scientifica abbia una riserva di pudore, di umiltà, di prudenza o di chissà cos’altro nell’assegnare a un dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile, universale) è intrinseco al concetto di «verità», riserva tanto pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a «vero» si preferisce sempre «attendibile», «esatto», «credibile», che di «vero» sono sinonimi, ma non rimandano alla «proprietà di ciò che esiste in senso assoluto» (Treccani) vantata dalla «verità».

È evidente quanto questo statuto sia stato violato negli ultimi mesi: mai tanto poco pudore, tanta poca umiltà, tanta poca prudenza, da parte di alcuni uomini di scienza chiamati a spiegarci cosa stesse accadendo. Sul piano deontologico, possiamo liquidare la questione col biasimo, ma su quello ontologico siamo chiamati ad essere indulgenti, concedere che «they too are human and get their attention from sensational matters», anchessi immersi in quella «société du spectacle», in cui «le spectacle n’est pas un ensemble d’images, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images», «une vision du monde qui s’est objectivée», «moment historique qui nous contient». In questa dimensione è del tutto comprensibile che, come tutti, «scientists too are vulnerable to narratives», e cioè alle trame che innervano il reale cercando di dargli un senso razionale, perché lidea possa dettar legge al mondo intimandogli di obbedire alla logica (meglio impartigli lordine in tedesco, come si fa coi cani: «Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig»).
Il problema – e problema bello grosso – nasce col dover constatare che le Reazioni umane alle catastrofi (titolo di un libricino tirato giù dagli scaffali in queste ultime settimane, autori Massimo Cuzzolaro e Luigi Frighi, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, 1991) mettono in gioco emozioni: «Secondo Slovic, Fischhoff e Lichtenstein gli atteggiamenti sia individuali che collettivi che spesso si registrano nei confronti della minaccia ambientale (tecnologica o naturale) sono da una parte la tendenza alla “sovrastima” cui spesso corrispondono sentimenti di ansia e di impotenza e per contro la tendenza alla “sottostima” fino agli estremi della totale “denegazione del pericolo”» (pag. 49).
«Scientists too»? Sì, a sentire Slovic, Fischhoff e Lichtenstein parrebbe che la cosa non riguardi solo «policy makers and citizens», ma anche «the entire community of scientists», sicché cè da chiedersi: «If public debates and communications from experts do little to allay fears and, indeed, may exacerbate them, how should we structure public participation?» (Perceived Risk: Psychological Factors and Social Implications, pag. 22). Questione che ovviamente si pone anche in relazione allatteggiamento opposto, quello della «tendenza alla “sottostima”», che tuttavia occorre dire quasi mai arriva agli «estremi della totale “denegazione del pericolo”», se non nelle interpretazioni di comodo.
Di fatto, le interpretazioni di comodo sembrano privilegiare di gran lunga il discorso pubblico degli «scientists» che «do little to allay fears and, indeed», finiscono spesso per «exacerbate them». Il peggio, tuttavia, accade, quando lo «scientist» è uomo di «spettacolo» (qui tra virgolette per rimandare a quanto se nè detto pocanzi), costretto a passare dal sottostimare al sovrastimare, per rispondere alla fluttuante istanza del mainstream.
Eccolo, dunque, quando in Italia il Sars-coV-2 è almeno da tre settimane, dire in favore di telecamere che «oggi in Italia il virus non cè, al momento ha più senso preoccuparsi dei meteoriti» (LAssedio, 20.2.2020 – Nove), e allora possiamo sentirci in una botte di ferro, tanto il governo ha sospeso i voli da e per la Cina, possiamo allegramente pigiarci in 47.000 a tifare per l’Atalanta contro il Valencia, e dopo aver portato il nonno al Pronto Soccorso: tossiva e aveva un po di febbre, ma si trattava senza dubbio di banale influenza (quella che comunque ne ammazza 8.000 ogni anno), il virologone escludeva potesse trattarsi di Covid-19.
Lo stesso virologone che, a vedere una settimana dopo il Sars-coV-2 diffondersi dallo stadio di Bergamo e dal Pronto Soccorso a unintera regione, avallava misure di restrizione del tutto immotivate a fronte di una possibilità di contagio che, come per ogni virus, è in relazione alla carica virale infettante: bastava una sola particella virale a sterminare un condominio. E forse gli si può pure concedere che lintenzione non fosse malvagia, in fondo cera da spostare lansia dal meteorite allepidemia, e bisognava farlo in fretta, ci voleva troppo tempo a spiegare che un R0 uguale a un 2,6 o a un 3,4 si ha solo in condizioni di pieno favore al Sars-coV-2, come quelle – guarda caso – realizzate col dire che «in Italia il virus non cè», certo non con landare a fare jogging.
Di fatto, seppure a fatica, si fa largo tra panico e isteria la ragione che spiega perché proprio la Lombardia, e proprio con quei numeri: al virus si è dato un formidabile moltiplicatore, prima, proprio come si è dato un altrettanto formidabile moltiplicatore alla paura, dopo. Qualcuno, certo, avrà pure fatto un pensierino per approfittarne e farsi regista dello «stato deccezione», Giorgio Agamben non ha tutti i torti, ma in larga misura abbiamo assistito all’inverecondo blaterare di personaggi in cerca di un autore.
E qui, proprio per aver concesso fin troppa indulgenza sul piano ontologico a questo genere di «scientist» che pretende di incarnare la «verità» sia quando sottostima che quando sovrastima, e sempre per servire le ragioni dello «spettacolo», siamo sbalzati con violenza su quello deontologico, dove lo troviamo con la sua ineffabile faccia di cazzo a promuovere un Patto trasversale per la scienza, che della «verità» pretende di essere il vocione autorizzato a zittire chi disturba lo «spettacolo». E su questo piano non basta il biasimo.