Marx
chiude il primo capitolo del primo libro del Capitale
col celeberrimo paragrafo sul carattere feticistico della merce (Der
Fetischcharakter der Ware und sein Geheimnis).
Dice che, a un primo colpo d’occhio,
la merce sembra cosa prosaica, tutta conclusa nella sua autoevidenza,
ma che ad analizzarla si rivela come cosa intricatissima (sehr
vertracktes),
piena di sottigliezze metafisiche (metaphysischer
Spitzfindigkeit)
e di allusioni teologiche (theologischer
Mucken).
Finché è valore d’uso,
infatti, non ha alcunché di misterioso – è un prodotto del lavoro
umano, e soddisfa questo o quel bisogno umano, stop – e tuttavia
chi può negare che in essa vi sia un che di sensibilmente
sovrasensibile (sinnlich
übersinnliches)?
Bene, da cosa le deriverebbe questo tratto, che Marx arriva
addirittura a definire mistico (mystische
Charakter)?
Mantenetevi
forte: «Dalla
sua stessa forma».
E cioè? «Il
mistero della forma della merce sta semplicemente nel fatto che tale
merce restituisce agli uomini, come in uno specchio, l’immagine
delle caratteristiche sociali del loro lavoro, come proprietà
sociali naturali di quelle cose, e perciò restituisce anche
l’immagine
del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo
sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esista al di fuori
di loro».
In sostanza, se il valore di scambio di una cosa, e cioè la forma
che
di un qualsiasi prodotto del lavoro umano fa una merce, sta nella
quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, e se questa
quantità di lavoro indica quanto dell’uomo
che materialmente l’ha
prodotta è stato alienato in favore di chi ne è il proprietario, il
prezzo che chi l’acquista
ritiene congruo, e cioè il valore di mercato, gronda del sangue che
il primo ha succhiato al secondo: nel fascino che quell’oggetto
esercita su chi lo acquista c’è la venerazione per quel dio che
esige, e ottiene, quel tributo di sangue.
Un dio che potrà anche avere il suo fascino, ma di sangue si nutre.
Prendo
in mano, per esempio, la Montblanc che nel 1980 fu il regalo di
laurea che ebbi in dono dalla mia fidanzata di allora, e che oggi è
uno splendido oggetto morto (e parlo della penna, perché della ex
non ho notizia da più di trent’anni),
un modello in numero limitato, lacca cinese, pennino in oro
deliziosamente istoriato: dovrei vederci innanzitutto il costo di
allora, quasi un milione delle vecchie lire; e poi pensare al
plus-valore che l’azienda
di Amburgo sottrasse ai suoi operai, meglio se calcolandolo in marchi
tedeschi; per poi passare a considerarne il suo Fetischcharakter
come
effetto di una proiezione (il ruolo dell’oggetto
di lusso nell’Italia
degli anni Ottanta, per esempio); per così giungere, infine, a
cogliere nella vita che fu dell’oggetto,
quella di là da produzione, vendita, acquisto e possesso, la forma
fantasmagorica (phantasmagorische
Form)
dell’ingarbugliata
matassa di relazioni sociali di cui è il proiettato. Ecco, allora,
perché Marx insiste tanto sul feticcio come simulacro di un dio:
come «i
prodotti della testa umana [idoli,
idee, ma anche disegno, e cioè design]
sembrano essere dotati di una propria vita, figure indipendenti che
sono in rapporto tra di loro e con gli uomini» –
dice – così «i
prodotti della mano umana» ci
appaiono ingannevolmente nella dimensione di «rapporti
di cose tra persone» e
di
«rapporti sociali tra cose»,
mentre invece stanno in quella di un «determinato
rapporto sociale tra gli uomini».
Convincente?
Tutto sta nell’aderire
o meno alla rigida distinzione che Marx fa tra valore d’uso
e valore di scambio, e nel sottoscrivere o meno l’asserto
che «il
carattere mistico della merce non deriva dal suo valore d’uso»,
ma da quello di scambio, un po’
come accade col denaro, che pure può essere feticcio, e proprio in
quanto particolarissimo tipo di merce priva di un valore d’uso.
Bene – ripeto – vi convince? A me non tanto, ma probabilmente è
perché ho metabolizzato male un trauma infantile. Avrò avuto nove o
dieci anni, infatti, quando, aprendo con le forbicine un bottone
foderato di stoffa che avevo staccato da un vecchio paltò di mia
nonna, vi trovai dentro una moneta da cinque lire: banalmente, il
produttore aveva ritenuto più conveniente usare quella piuttosto che
una rondella metallica. Solo qualche tempo dopo seppi che il supporto
rigido all’interno
di un bottone foderato è detto «anima»,
ma fu comunque prima di arrivare alla pagina di Marx sul
Fetischcharakter
der Ware,
e questo forse spiega perché, leggendola, ripensai alla monetina cui
era stato dato un valore d’uso,
sottraendole del tutto quello di scambio, e il bimbo di quel
pomeriggio dei primi anni Sessanta m’uscì
dal petto e con veemenza protestò: «E
il bottone di nonna, allora?».
E niente di lì in poi riuscì a rendermela convincente, neppure le
gran belle glosse, e toste, di Rubin, Benjamin, Baudrillard e
Derrida.
A
dare, però, una mazzata definitiva a Marx – e a Rubin, Benjamin,
Baudrillard e Derrida – è stato, qualche giorno fa, Dieci
splendidi oggetti morti di
Massimo Mantellini (Einaudi, 2020), che fin dal titolo, d’altronde,
non fa mistero di rigettare la tesi che, di là dall’inorganica
realtà del loro valore d’uso,
agli oggetti riconosce esclusivamente un proiettato di vita alienata:
in quanto «morti»,
è evidente che i dieci oggetti – undici, anzi, di cui uno, però,
ancora vivo – abbiano vissuto una vita vera, fuor d’ogni
astrazione, al centro di «rapporti
di cose tra persone» e
di «rapporti
sociali tra cose».
Fin dalla prima di copertina, infatti, si fa presente che «questo
libro parla di loro e dunque di noi».
Quel «dunque»
sembra buttato lì per caso, ma ha la potenza di un assunto. E quel
«loro»?
Certo, come pronome va bene pure se riferito a cose inanimate, ma è
un caso che sia stato preferito a «essi»?
Sono solo indizi, ma inequivocabili: gli oggetti compongono una
costellazione autobiografica. E arrivo, così, all’ultima
pagina di
Dieci
splendidi oggetti morti,
finalmente persuaso che Marx sbagliasse.
Non
vorrei, però, che introdurre a questo modo la mia recensioncella
dell’ultima
fatica del Mantellini portasse fuori strada chi mi legge: al pari dei
suoi due lavori precedenti (La
vista da qui –
minimum fax, 2014; Bassa
risoluzione
– Einaudi, 2018), Dieci
splendidi oggetti morti è
anche un saggio, ma, come gli altri due, non è uno di quei libroni
zeppi del sopracciò che,
dopo averti tolto il fiato col waterboarding di frasi lunghe tre
pagine e averti inflitto scosse elettriche ai coglioni con schemi,
tabelle e diagrammi, ti puntano un’aguzza tesi al
gargarozzo intimandoti:
«Annuisci,
stronzo, sennò sei un uomo morto!».
Quasi non sembra abbia una tesi, invece, e infatti si fa avanti come
uno di quei vacui libricini da intrattenimento che oggi vanno di
moda, tutto collage di curiosità e aneddoti, carinerie e arguzie,
che sembrano voler sedurre chi li legge facendogli dire:
«Caspiterina,
questo l’ho pensato anch’io, ma mica sono stato capace di
rappresentarmelo in modo tanto efficace!».
Tutta apparenza, drago d’un Mantellini, perché, sotto un lessico
assai brillante e un periodare assai scorrevole, come da apericena,
Dieci splendidi
oggetti morti ha
la solidità e la profondità di un classico, da porre sullo scaffale
tra Le mots et les
choses di
Michel Foucault e Logique
du sens
di Gilles Deleuze. E tanto più stupisce, tanto più incanta per
l’elegante
disinvoltura con la quale dà soluzione a questioni che hanno fatto
invano scimunire anche quegli spocchiosi della Scuola di Francoforte,
constatando che riesce a scioglierle senza nemmeno formularle, e in
sole centocinquantadue pagine, poco più di due etti.
Niente
scatarrate di note a pie’
di pagina (qui e lì qualcuna, certo, ma solo come tributo alla
collana), e citazioni, sì, ma quasi tutte relative ad autori vivi o
morti da non più di mezzo secolo (fatta eccezione per un Platone ed
un Flaubert che hanno comunque croccanza liceale), e nessun indice
dei nomi, nessun sommario delle voci bibliografiche, nulla della
stantìa archeologia degli oggetti come reperti: la penna, per
esempio, sta tutta in questo «mio
tratto incerto messo sulla carta»
(pag. 29). E qui mi pare occorra un primo doveroso grazie al
Mantellini, che ci risparmia la preistoria e storia della biro, per
trasfigurarle in mitopoietica: «la
morte dell’oggetto
penna è anche, un po’,
la morte di una parte di me»
(pag. 30). Si colga il tepore di quell’«un
po’»
e lo si compari all’algido
«ora
vi dico»
di tanti saggi su questo o quell’oggetto,
chessò, faccio per dire, la Storia
del bidet
di Luciano Spadanuda (Castelvecchi, 1998), dove al bidet si arriva
con «il
marchese d’Argesson
[che]
una
mattina si recò a far visita, a Parigi, a madame de Prie e fu
testimone di uno spettacolo imprevisto e sorprendente [ed]
era il 1726...».
Come se in Proust leggessimo: «Si
ha notizia per la prima volta delle petites madeleines in un manuale
di pasticceria del 1648...».
Il Mantellini ci risparmia questo orrore, non ci rifila la storia di
Lazlo Biro che trae l’idea
della penna sfera dalla traccia di fango lasciata sulla neve dalle
biglie con le quali dei ragazzini stanno giocando nelle vie di
Budapest: la penna è quella del 1967, quella degli «esercizi
calligrafici e le macchie sul banco» (pag.
32).
Sono
queste incursioni autobiografiche – peraltro assai discrete, quasi
pudiche – che fanno il sottotesto di Dieci
splendidi oggetti morti,
rendendo inutile il pesante armamentario argomentativo del saggista
comme
il faut:
«La
bic, la reflex, il vinile... –
par d’udire
– Macché
feticci, erano vivi! Avevano un’anima,
e il tempo, inesorabile, ce li ha portati via».
E, voilà,
la cosa ci convince. Non si commetta, però, l’errore
di credere che il Mantellini ci accompagni per mano in un mercatino
delle pulci o, peggio, in un museo degli oggetti d’uso
quotidiano nel Novecento: nessuna operazione-nostalgia, perché
quando si è lì per scivolare nella melassa del passatismo, drago
d’un
Mantellini, ne siamo tratti via per stargli dietro nei suoi
instancabili girovagare per le brulicanti metropoli della
post-modernità, comunque rinfrancati da incantevoli parentesi
d’otium,
cui dà location
degne
di Architectural
Digest.
Qui, ammessi ad un’intimità
che emana una fragranza fresca e agrumata, qui e lì screziata da
note di lavanda, godiamo di un Umanesimo che, fatte le dovute
differenze, ricorda molto quello del Petrarca.
È
solo alla seconda lettura – la prima l’ho
sprecata per trovarvi l’essay
–
che Dieci
splendidi oggetti morti mi
ha aperto gli occhi sulla straordinaria capacità del Mantellini di
pizzicare le corde giuste nel lettore al quale si rivolge. Non vi
stupisca ch’io
parli di un lettore particolare dopo aver appena detto che il
libricino respira d’Umanesimo,
perché, almeno in questo, Marx ha ragione: un idealtipo d’uomo
che si immagini conserva intatta la sua «anima»
sotto la sempre diversa fodera dei tempi – semplicemente – non
esiste. Perciò citavo Petrarca, uomo di mondo quanto non mai,
perfetto anteprototipo del weberiano Wissenschaft
als Beruf,
che nel selfie
ci
tiene ad apparirci «solo
et pensoso»
sullo sfondo de’
«più
deserti campi» anche
se intanto gira come una trottolina in tutta Europa a curare gli
interessi diplomatici dei Colonna: non ha importanza se lo sapesse o
meno – anche a
posteriori
è questione che lascia il tempo che trova – ma il suo pubblico non
era un uomo fuori dal tempo, semmai un uomo saldamente –
comodamente, diremmo – piantato nel tempo da venire, e dunque un
idealtipo di lettore che è universale nel modo in cui l’esprit
du temps
sa immaginarsi l’universalità.
È dall’universo
culturale di Mantellini, dunque, che vien fuori il suo lettore
ideale. Il primo analogo che mi viene in mente è il Massini di
Piazza
Pulita,
che però rispetto a Mantellini è troppo ipertiroideo. In Dieci
splendidi oggetti morti
non c’è
traccia di esaltazione, non c’è
inciampo nell’enfasi:
il pubblico cui si rivolge è lo stesso che non perde un appuntamento
del giovedì su La7, ma sa che col Mantellini è fuori luogo –
perfino sconveniente – accelerare il battito. D’altronde,
il Mantellini è così anche dal vivo, mite, misurato, gentile ma
senza affettazione, ironico ma mai sarcastico, sensibilissimo ma mai
svenevole, anglosassone più che latino, un bon
bourgeois dalle
passioni intelligentemente sorvegliate. Del tutto naturale, quindi,
che gusti, inclinazioni, propensioni – quel che ci guida verso
questo o quello scaffale, ci porta ad ascoltare questo o quel brano
musicale, ecc. – siano raccolti in quello spazio di distribuzione
che la statistica chiama «moda»,
anche se parliamo di gusti, inclinazioni, propensioni di quel ceto
che un tempo veniva detta «aristocrazia
operaia».
Alto
e basso, nel Mantellini, si sposano benissimo: De Gregori non fa a
pugni con Eraclito, né Peter Gabriel con John Cage, i telefoni
pubblici di Manhattan hanno la forma che ricorda («un
po’»)
la stele di Rosetta, l’ultimo
frame che Opportunity ha inviato da Marte è un Rothko, e così via.
Altrettanto avviene con le evocazioni, che hanno anche maggiore
potenza delle citazioni, soprattutto quando danno l’impressione
di essere involontarie. «Servono
braccia grandi per dispiegare la carta stradale del Nord Italia...»
(pag. 3): è un caso che Dieci
splendidi oggetti morti
ci accolga aprendoci queste «braccia
grandi»
che fanno eco alle «grandi
braccia, grandi mani avrò per te»
di Mina? Non lo sapremo mai, ma intanto l’evocazione
c’è,
e la canzone è proprio del periodo in cui sulla carta Michelin ci
cerca la strada per arrivare dove «i
nostri genitori stanno portando me e mia sorella per le vacanze
estive».
«Siamo
fermi in un autogrill o in una stazione di rifornimento. Il motore
dell’auto
si sta raffreddando (dice mio padre che una volta all’ora
è meglio fermarsi un po’)»
(pag. 4): dettagli in apparenza insignificanti, ma che costruiscono
un’atmofera,
peraltro assai simile al «dolcemente
viaggiare / rallentando per
poi accelerare /gentilmente senza strappi al motore»,
che è più meno dello stesso periodo. Una straordinaria tavolozza di
immagini ed emozioni, non c’è
che dire. Alla fin fine, cosa ci importa se l’effetto
sia studiato o casuale? Con due pennellate, il Mantellini si
presenta, e ci seduce: sono figlio di un padre saggio e prudente,
salite a bordo, si parte. La se-duzione, d’altronde,
con-duce.
In
ogni saggio c’è l’immancabile momento in cui l’autore cita una
sua opera precedente. C’è modo e modo ovviamente, e non di rado è
fastidioso, ma anche su questo punto occorre spendere una lode: un
«bassa risoluzione» (in
corsivo nel testo), a pag. 58, sta a impercettibile ammicco, mentre
di La vista da qui è
ripresa la tesi che il medium non è
il messaggio nella incidentale affermazione che «la
tecnologia è una forma di ragionamento che va a sostituirne un
altro»
(pag. 36). Una discrezione, una grazia, che, al confronto, le autocitazioni dei Beatles risultano
pacchianate. Al confronto, perfino un cameo di Hitchcock in uno dei suoi film diventa fastidiosa intrusione.
[...]
Qui
metto da parte le altre note che avevo appuntato e vi lascio alla
lettura di Dieci splendidi oggetti
morti, di
cui vi consiglio caldamente l’acquisto. Un’ultima
cosa, però. A pag. 101, citando il Roland Barthes di Mythologies
(1957),
l’oggetto appare come «miglior
portatore del soprannaturale».
Seppur di sponda, dunque, la questione del Fetischcharakter
der Ware è
affrontata, ovviamente rigettandola, e abbiamo visto con quale atto
di fede. Non si deve tuttavia commettere l’errore
di credere che i feticci di cui ci parla il Mantellini affollino un
Pantheon di tipo pagano o animista, perché, quando si chiede quale
sia l’oggetto
che al meglio rappresenta «le
caratteristiche di grandiosità e mistero»,
la risposta è: «l’insieme
di tutte le tecnologie che hanno abolito i fili […] le molte
tecnologie che, sempre più spesso, avvolgono la propria funzione con
un mantello di invisibilità. Il momento in cui, fra causa ed
effetto, si spande quell’istante
di assoluto silenzio. O di buio improvviso»
(pag. 102). L’atmosfera
sembra tardo-ellenistica, si avverte una tensione al monoteismo, al
Grande Feticcio che tutto prende e pervade. Anche per questo, Dieci
splendidi oggetti morti
è un testo che rimarrà.