Un lettore estremamente attento a ciò che scrivo su queste pagine mi ha fatto notare che da qualche tempo insisto molto su un concetto che mi limito a enunciare come se fosse autoevidente, senza sentire alcun bisogno di dimostrarne la solidità, ma soprattutto senza considerarne le ultime conseguenze (non arriva all’imputazione di nichilismo, ma insomma...).
«Non credi sia apodittico – mi scrive – affermare, come fai tu, che il bene comune sia sempre fondato su “un interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un determinato numero di individui”? […] Tu fai discendere questo dal fatto che “buono, vero e bello (morale, dati scientifici e canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla storia di una società, e non sono superiori o antecedenti all’uomo, né in lui connaturati come universali e eterni”, per dirli “sempre dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali...”, ma “funzionali” a cosa? Funzionali, dici, alla difesa di “un interesse che è riuscito ad affermarsi come generale in seguito a un conflitto tra differenti, se non opposti, interessi particolari”. […] Non so se te ne avvedi, ma questo implica qualcosa che io credo sia dirompente: non esisterebbero valori condivisibili al di sopra degli interessi di parte, non vi sarebbe modo di costruire una convivenza su basi valoriali universalmente condivisibili, ma in fondo neppure basi valoriali per una qualsiasi forma di pacifica convivenza. Pensaci un attimo: negando di fatto che esistano valori realmente condivisibili da tutti, che fine fa la società? Se quello che una società dichiara essere bene comune nasconde sempre in realtà l’interesse particolare della classe che in quella società è riuscita a riuscita a imporsi come egemone, ogni patto sociale stipulato su valori condivisi è da considerare sempre un atto di resa che i perdenti hanno siglato in favore dei vincenti. [...] Questo a me pare un incubo: come se ne esce?».
Non se ne esce, caro R., semplicemente non se ne esce. D’altronde, cos’è che ti fa sembrare un incubo una realtà priva di valori che possano essere condivisi senza dover essere imposti? Semplice: è l’idea che buono, vero e bello siano concetti superiori o antecedenti all’uomo, o in lui connaturati come universali e eterni; in più, è un’idea di storia intesa come processo teso a dare su di essi un accordo equanime e unanime, come meta ultima dell’umana autocomprensione; in sostanza, è un vagheggiamento di uscita dalla storia, ma l’esperienza ci ha dato innumerevoli prove che l’incubo vero è proprio lì fuori, nel luogo dove buono, vero e bello sono dichiarati indiscutibili, e dunque non più motivo di conflitto. In realtà, l’esperienza ci ha dato innumerevoli prove che anche uscire dalla storia è impossibile.
Mi limito, qui, a considerare gli ultimi due tentativi fatti, tralasciando quelli effettuati nel corso dei secoli passati: il primo è stato quello di pensare a una società senza classi; il secondo è stato quello di pensare a un uomo senza gravami identitari. Nel primo caso, è parso ovvio che, senza classi, fossero impossibili interessi di classe: bastava abolirle e il bene comune si sarebbe fatto strada da solo. Nel secondo caso, è parso altrettanto ovvio che, liberato dai particolarismi identitari, l’uomo non avrebbe avuto più alcuna difficoltà nello scoprire in sé un’umanità che accomunava i suoi interessi a quelli di ogni altro suo simile. Il primo tentativo, come è noto, si è rivelato fallimentare: una società senza classi doveva comunque avere una guida, e la guida ha finito sempre per farsi classe, rivelando interessi non sempre coincidenti con quelli delle masse che era stata chiamata a guidare, almeno a giudicare dal rapido venir meno del consenso che esse le avevano inizialmente dato. Chi continua a sostenere la bontà del fine, peraltro, non riesce a offrire una soluzione soddisfacente per ovviare a quello che pare essere un insuperabile limite del mezzo: a tutt’oggi, infatti, non si ha esperienza di un tentativo di abolizione delle classi che non sia esitato nella formazione di un ceto dirigente la cui idea di bene comune non dovesse di regola essere brutalmente imposta.
Non diversamente pare stia andando col secondo tentativo, che è tuttora in atto: sembrano avere indubbio peso, infatti, le resistenze alla cosiddetta globalizzazione, che, attraverso il mercato unico mondiale, mira a imporre come indiscutibili dei valori che si ritiene non possano non essere condivisibili perché il mercato regga. Sembra, tuttavia, che il tozzo di pane offerto a miliardi di essere umani che fino a poco tempo fa morivano letteralmente di fame non basti a rendere accettabili i valori che fanno da companatico: il morto di fame si piglia il tozzo di pane, ma pare non sia disposto a rinunciare al proprio kit identitario. Superfluo dire che anche qui il conflitto torna a fare storia.
Ti dovrebbe esser chiaro, caro R., che la questione sta tutta in ciò che chiamiamo «valore». E qui, come ho già scritto in altre due o tre occasioni, io mi sento di dover dar ragione a quella bestia nera di Carl Schmitt, che in suo scritto minore, densissimo ancorché assai breve (Die Tyrannei del Werte, 1959-1960; in italiano lo trovi edito da Adelphi, 2008, col titolo La tirannia dei valori), sulla questione mi pare assai convincente.
Prima di entrare nel merito di ciò che Schmitt afferma, però, ritengo utile aprire una parentesi su un’altra questione, che a quella dei valori è strettamente collegata, e che pure ho già affrontato su queste pagine: la convenzione che divide i diritti tra «umani» e «civili», convenzione che regge sullo stesso assunto che buono, vero e bello siano concetti superiori o antecedenti all’uomo, o in lui connaturati come universali e eterni. Quelli «umani», infatti, sarebbero diritti che nascono insieme all’uomo, mentre quelli «civili» sarebbero acquisiti. In realtà, la storia insegna che tutti i diritti sono acquisiti e quelli che chiamiamo «diritti umani» sono semplicemente quelli acquisiti da molto più tempo, da tanto più tempo che ormai ci paiono imprescindibili dall’uomo, al punto che quelli di più assai recente acquisisione, e che pure ci paiono fondamentali, ci danno l’impressione di essere più scoperte che invenzioni: erano nati insieme all’uomo, ma fino a un certo punto non lo si sapeva ancora. Quando ne ho parlato, ho preso a esempio il diritto di migrare che dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 è messo tra quelli considerati «inalienabili», ma di cui non si ha traccia nel Bill of rights del 1789, né nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793. E qui, per dar conto di quanto il concetto di «valore» sia strettamente collegato a quello di «diritto umano», con ciò che implica il voler considerare, e a torto, trascendente ciò che in realtà è del tutto immanente, positivo, interamente immerso nella storia e nei conflitti dei quali essa non può fare a meno, occorre fare attenzione a una parolina che sembra assai innocente e invece è usata come un’arma per imporre come generale ogni interesse particolare, con ciò che ne consegue riguardo alla reale natura di quello che chiamiamo bene comune. Questa parolina è «dignità», che non a caso, nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, sta a ragione del doverli dichiarare tali: è nel loro rispetto che la dignità umana può dirsi piena. Sfugge ai più che il «dignus» della «dignitas» trae etimo, peraltro non del tutto certo, da un «dicere» e/o un «docere» che giocoforza implica un chi «dicit-docet» cosa valga e quanto, il quale non può farlo altrimenti che in veste di «dignitario», cioè di chi è investito del potere di conferire «valore» in nome e per conto di un’autorità costituita, che solitamente si dichiara interprete delle leggi di Dio o della Natura, che, quando c’è da dare all’uomo una dimensione creaturale, sostanzialmente coincidono.
Ovviamente Schmitt non perde tempo a interrogarsi sull’etimo dei termini in oggetto, va dritto al cuore della questione: «Il valore – scrive – non è, ma vale. […] Questo valere implica ovviamente un impulso tanto più forte alla realizzazione. Il valore aspira apertamene a essere messo in atto. Non è reale, ma è senza dubbio riferito alla realtà, e attende con impazienza di essere attuato ed eseguito». Ma come è riuscito a diventare indispensabile? Come è riuscito, il valore, che fino a un certo punto è stato attribuito solo a cose, a diventare misura della dignità delle persone? È accaduto col trionfo di «una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, [che è parso] minaccia[sse] la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo il regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno di valori come regno della validità ideale. Era un tentativo di affermare l’uomo come creatura libera e responsabile, non già in un essere, ma quantomeno nella validità di ciò che veniva chiamato valore. Un tentativo, questo, che può senz’altro essere definitito un surrogato positivistico del metafisico. La validità di valori si basa su atti di posizione. Ma chi è, qui, che pone i valori?». Qui, stranamente, Schmitt dice che la risposta più chiara a questa domanda è stata data da Max Weber, per il quale «a porre i valori è l’individuo umano nel suo totale libero arbitrio puramente soggettivo. Egli si sottrae così alla avalutatività assoluta del positivismo scientifico, contrapponendo a esso la sua visione del mondo libera, cioè soggettiva. La libertà puramente soggettiva della posizione di valori conduce però a un eterno conflitto di valori e delle visioni del mondo». «E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita – conclude Weber (Wissenschaft als Beruf, 1918) – e precisamente per l’eternità»; dacché Schmitt chiosa: «Sono sempre i valori a fomentare la battaglia e a tener viva l’ostilità».
Ritengo si possa trarne quanto basta per affermare che una condivisione di valori sia sempre basata sulla momentanea sconfitta di altri valori, e che questa condizione corrisponda alla vittoria di un interesse particolare che è riuscito a imporsi come generale su altri interessi particolari. Tutto sembra pacifico, ma è una pace che segue a una guerra, che non di rado è stata feroce.
Ecco perché, caro R., dietro la locuzione «bene comune» io non riesco a vedere alcuna comune convenienza. Per meglio dire: ad un determinato «bene comune» si può arrivare a con-venire, ma in quel luogo c’è chi arriva come convocante e chi arriva come convocato, se non come obbligatoriamente coscritto.