Seguo
la diretta parlamentare sulla legge elettorale e devo prendere atto che
centrodestra e centrosinistra sono due facce della stessa immonda cricca. Ora, chi ha qualche consuetudine di queste pagine sa
bene cosa io pensi del M5S. Bene, rimango dell’idea più volte espressa – si tratta
di un movimento fascistoide in mano a due loschi avventurieri – ma quest’Italia
– l’Italia di Renzi e Berlusconi – merita che il M5S le dia una purga. Non è la
prima volta, non sarà l’ultima, che il tanto peggio sia di fatto il tanto
meglio, e oggi penso che ci siamo proprio. Poi, eventualmente, domani cambierò idea e
mi pentirò di averlo scritto, ma oggi questo paese mi sembra meritare un M5S al 37%, e al
primo turno.
martedì 11 marzo 2014
[...]
Fin dal suo farsi la nuova
legge elettorale promette che sarà una vera merda, ma per fortuna abbiamo una Consulta che
sorveglia attenta e prontamente, tra una dozzina d’anni, la straccerà perché incostituzionale.
Pretendere che se ne accorga il Quirinale, le neghi la vidima e la rispedisca
alle Camere sarebbe chieder troppo, perché si sa che Napolitano è uno che non esorbita
di un angstrom dal suo ruolo e non interferisce nella fisiologica dialettica tra due associazioni a delinquere che tentano un accordo.
Contro le cosiddette «quote rosa»
Una
maggior presenza delle donne nella politica e nelle istituzioni è cosa auspicabile,
ma pensare di rimuovere gli ostacoli di natura culturale che vi si oppongono con
le cosiddette «quote rosa» è da folli, tanto più con un sistema elettorale che
preveda «liste bloccate», perché un maggior numero di donne ad essere candidate,
prima, ed elette, poi, si otterrebbe in patente contraddizione al dichiarato proposito
di dar loro pari opportunità di competizione affinché ne siano premiati gli eventuali
meriti, e non capisco perché a insistere nel pretendere che ai partiti sia
imposto per legge di mettere in lista un numero di femmine pari a quello dei
maschi siano proprio le donne arrivate in Parlamento solo per il buon posto che
erano riuscite ad ottenere nelle «liste bloccate» in cui erano candidate, e non
in forza alle preferenze degli aventi diritto al voto: se nell’ordine di lista
hanno ottenuto un posto che le ha favorite rispetto a un candidato maschio,
sarà stato senza dubbio per meriti che non hanno bisogno, dunque, di essere
altrimenti garantiti. Voglio dire: non sono proprio loro la più evidente prova
che si può arrivare in Parlamento, anche se donne, in virtù delle proprie
qualità? Dando per scontato che queste qualità abbiano avuto congruo
riconoscimento nella loro elezione, e che si tratti di qualità che possono
essere apprezzate di là da ogni differenza di genere, perché tanto impegno in
favore delle «quote rosa» e non contro le «liste bloccate»? Quale resistenza hanno incontrato per riuscire ad arrivare in Parlamento e ora si impegnano a rimuovere in favore delle donne che abbiano intenzione di percorrere la stessa strada? Se si tratta di una resistenza che cede dinanzi al merito, che bisogno c’è di rimuoverla?
lunedì 10 marzo 2014
[...]
Molto
probabilmente è questo il brano cui Luciano Canfora fa cenno nel capitolo
finale de La trappola - Il vero volto del maggioritario (Sellerio, 2013) quando
cita La giornata d’uno scrutatore: scrive che il caso-limite descritto da Italo
Calvino – i portatori di gravi handicap mentali, ospiti del Istituto Cottolengo,
cui le suore riuscivano a strappare il voto per la Dc – oggi «ha assunto nuove
forme, talora deprimenti, comunque pervasive e non facilmente sanabili» e si
chiede se «non rest[i] che accettare la difficile convivenza tra diritto al
suffragio e nuovi “raffinati” analfabetismi, non facili da contrastare o sanare»,
com’è nel caso di quello che affligge il «mondo plasmato dalle tv commerciali e
dall’ininterrotto martellamento seduttivo dei valori, miti e modelli che essere
trasmettono». Con ciò è messa in discussione la prassi democratica col più vecchio degli argomenti usato dai suoi nemici? No,
risponde, però, «anche rispetto a questo ineliminabile inconveniente del
suffragio universale, il sistema elettorale proporzionale può rappresentare il
male minore e, in parte, persino un rimedio. Esso evita, infatti, che una forza
politica capace di convogliare su di sé le simpatie degli elettori meno
preparati possa trovarsi grazie a un “marchingegno” maggioritario, a fare un
indebito “pieno” di eletti assicurandosi così una schiacciante e devastante
maggioranza parlamentare. Il meccanismo proporzionale costringe i partiti ad
essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente […]
costringe[ndoli] […] a ridiventare veicolo di educazione politica di massa».
Bene, è
almeno da tre anni a questa parte che m’intrattengo su temi che sono strettamente correlati alla questione sollevata in questo smilzo ma prezioso libricino di Luciano Canfora. Ho affrontato il problema della leadership di tipo carismatico, delle diverse forme di deriva populista, dell’insidia posta negli strumenti di democrazia diretta (il referendum, innanzitutto), del mito della governabilità e dei suoi perniciosi effetti collaterali, sempre a un passo dal tirare i fili, senza mai farlo. È che a tirarli ne sarebbe uscito un saggio in forma edittale, sennò una sorta di manifesto, roba che di solito regge un noi che la mia perfetta solitudine non mi consente.
Potevo solo permettermi un anch’io e Luciano Canfora mi dà questa occasione.
L’analfabetismo civico della gran parte degli italiani, il pauroso deficit di sensibilità democratica della nostra classe politica, la costante tentazione all’irresponsabilità che rende così frequente il cedimento al servaggio familistico, clientelare e corporativo,
l’impossibilità di sperare che tutto questo possa aver fine in tempi brevi mi fanno convinto proporzionalista.
domenica 9 marzo 2014
[...]
Il
giorno che un bambino delle elementari, nella cui aula sia andato in visita Matteo
Renzi, dovesse alzarsi dal suo banco e dire: «Parla, ma non dice niente!»,
saremmo alla parafrasi de I vestiti nuovi dell’imperatore, ma ho i miei dubbi
sul fatto che la maestra possa dire: «Cazzo, è vero!», tanto meno che le cose
mettano come nella fiaba di Hans Christian Andersen. Nel caso capitasse, valga
il presente promemoria: Fabio Fazio reggeva lo strascico a uno che era nudo, e che
per giunta ce l’aveva pure piccolo.
San Girolamo che estrae la spina dalla zampa del leone
Il San Girolamo che estrae la spina dalla
zampa del leone che più mi piace tra quelli che conosco è di
Defendente Ferrari, un piemontese che visse tra Quattrocento e Cinquecento e
del quale ci sono rimaste solo due dozzine di dipinti di certa attribuzione
e scarsissime informazioni biografiche. Pittura non eccelsa, in realtà, tanto
meno nel caso di questo San Girolamo,
che è forse fra le sue cose peggiori, a cominciare dalla scarsa padronanza nel
trattare la prospettiva, per non parlare dell’incongrua ombreggiatura. E tuttavia il dipinto ha un elemento che lo rende notevole anche al confronto con quelli sullo stesso tema per mano di due giganti come il van der Wayden e il Pinturicchio: il leone del Ferrari, che pure ha
posa innaturale,
anatomia da stemma
araldico, improbabile criniera, ha espressione umana. Quegli occhi volti al cielo sono una trovata di grande effetto, antromorfizzano il bestione fino al tratteggio psicologico: si riesce a stare nella sua pelle, si sente quanto soffra, poverino, quanto gli costi star lì a farsi specillare la zampa, al punto che par quasi di sentirne il suo sordo mugolio a fauci serrate. Un piccolo miracolo di pathos, direi. Tanto più sorprendente, forse, proprio perché tutto intorno è crosta.
Così leggendo Il Foglio di sabato 8 marzo: il solito quadretto da due soldi, ma al centro un bel bestione sofferente, e che spina. Non proprio un sordo mugolio a fauci serrate, ma insomma...
Così leggendo Il Foglio di sabato 8 marzo: il solito quadretto da due soldi, ma al centro un bel bestione sofferente, e che spina. Non proprio un sordo mugolio a fauci serrate, ma insomma...
«È difficile parlare della realtà umana, di noi, della mezza o intera verità che
esprimiamo nella nostra vita, nella scrittura, nella letteratura, nel pensiero di
Dio e nelle sue eventuali conseguenze morali. La struttura del peccato è obsoleta.
Nessuno bada più alle faccende che implicano questioni come la generazione, il
futuro, la stabilità e il senso del mondo. Non fanno parte dell’agenda
digitale, non entrano nei programmi dei governi e delle opposizioni… I figli
senza babbo né mamma, o con uno dei due se va bene, sono un non-problema, che
tra l’altro adesso si potrà risolvere con le adozioni in famiglia di babbo e
babbo, di mamma e mamma… Fino a ieri era cosa da combattere in Zapatero, nella
movida europea, nelle intemerate dell’Onu, in qualche facoltà decostruzionista
di gender studies, in legislazioni eutanasiche o eugenetiche demenziali, ma pur
sempre prodotte da stracci di parlamenti, buone per chiedere il consenso a un
bambino per la sua uccisione con la stessa disinvoltura con cui si chiede a
Elton John il consenso per un’adozione sua e del suo compagno-marito. Ora è
diverso. Ora c’entra il papa in persona, nella sua penitudo potestatis, non so se
mi spiego, lui che è vestito di bianco per ragioni serie, non solo liturgiche.
Che rappresenta o dovrebbe rappresentare l’innocenza o l’aspirazione
all’innocenza del desiderio. Ora in tutte le sue forme la colpa è diventata
interpretazione. Voglio dunque posso. Faccio liberamente. Vade retro chi è sul
mio cammino. Lapidate i lapidatori. Il nostro superomismo ginnasiale e nichilista
ha ormai dalla sua un atteggiamento di benevolenza, di tenerezza, che proviene
dalla cattedra più alta dello spirito, roba che si può finalmente santificare in
quaresima... La pillola
abortiva è già arrivata nell’emporio della democrazia riproduttiva, i futuri penitenti
la possono ordinare per eBay o ti viene porta (venduta) in una regione
meravigliosa, la Toscana, dove abolirono un tempo la pena di morte. Tutto si può
fare quel che si può fare. E la facoltà etica di farlo non è più in
discussione. Questo è il fatto, Ratzinger dixit e previde. Ora ai fatti bisogna
conformarsi. Un papa ha dovuto abdicare, e lo ha fatto con entusiasmo profetico
nonostante la sua stanchezza, e anche noi dobbiamo su queste cose abdicare…».
E manco un San Girolamo a levargli la spina dalla zampa, poverino. Un papista senza papa, ahi.
venerdì 7 marzo 2014
Sui valori, negoziabili e no
Farete
fatica a trovare «valor» nello sterminato archivio dei Documenta Catholica Omnia,
che raccoglie gli scritti «omnium Paparum, Conciliorum, Ss. Patrum, Doctorum
Scriptorumque Ecclesiae», migliaia di autori lungo i venti secoli di storia
cristiana, ad occhio e croce oltre un chilometro di scaffali: per meglio dire, il termine comincia
a farvi capolino non più di un secolo e mezzo fa, per diventare di lì ad oggi
sempre più frequente, fino all’inflazione cui è andato incontro degli ultimi
due o tre decenni, soprattutto sotto il papato di Wojtyla e quello di Ratzinger. Anche fuori da quest’ambito, in realtà, farete fatica a
trovare «valor» prima della seconda metà dell’Ottocento e, quando lo troverete,
non avrà mai il significato che ha oggi, ma quasi esclusivamente quello allegato a «pretium» o a «aestimatio», sennò a «valetudo». Né c’è da stupirsene, perché «valeo» non può
che far riferimento a una valuta, cioè a
un sistema in cui un dato «valor» designa un livello di scala quotativa, che assume corrispettivo di misura ad essa correlata. Perché «valor» cominci ad acquisire il
significato che oggi lo inscrive nella sfera morale come incommensurabile virtù di un principio
– perché, in altri termini,
«valor» perda il senso del relativo che etimologicamente implica e assuma quello dell’assoluto che è fuori scala in quanto inestimabile e fuori mercato in quanto senza prezzo – bisogna aspettare la cosiddetta
«crisi nichilista»
del XIX secolo e la nascita di quella
«filosofia dei valori» che cerca di porvi argine. Degno di nota è il fatto che questa mutazione di «valor» da quantità relativa e particolare a qualità assoluta e universale arrivi alla teologia dalla filosofia, e non viceversa. In sostanza, si tratta di un rimedio tutto secolare
al «Gott ist tot»: il chierico lo fa suo non trovando altra soluzione efficace.
È in un passo di Holzwege (1950) che Martin Heidegger ci dà ottima sintesi di ciò che accade in quel periodo: «Parlare di valori diventa abituale e pensare per valori diventa normale. [...] Si comincia a parlare di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni, di valori spirituali, di qualità valoriali, arrivando a pretendere di trovare quei valori anche presso gli autori classici. [...] Nasce la filosofia dei valori, si costruiscono sistemi di valori, l’etica indaga sulle stratificazioni dei valori, e anche la teologia cristiana prende a definire Dio, quello che fin lì è stato il summum ens qua summum bonum, come valore supremo. Si dichiara la scienza estranea al valore e si collegano i valori alle visioni del mondo. Il valore, ciò che ha valore, diviene un surrogato positivistico del metafisico». In chiosa Carl Schmitt vi appunta: «Una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, minacciava la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo al regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno dei valori come regno della validità ideale» (Die Tyrannei der Werte, 1960). Fin lì il «valor» aveva dato misura del «factus», ora il primo sta al secondo come il «dover essere» all’«essere».
[Circa un secolo dopo, avremo un esemplare caso di «surrogazione positivistica del metafisico» col prendere ad identificare la «persona» nel suo dna: parafrasando Schmitt, la scienza andava dimostrando che non si dà «persona» se non nel suo farsi, e cioè che non può darsi «persona» in uno stadio embriologico del sistema nervoso centrale comunque posteriore al momento dell’animazione, e allora l’anima si vide costretta a sloggiare dal cervello, dove aveva trovato rifugio dopo essere stata sloggiata dal cuore, trovandone uno nuovo nel corredo cromosomico. Nel tentativo di conservare alla «persona» il suo statuto trascendente, lo spirito andò a trovare ipostasi nell’acido desossiribonucleico, e in pratica l’anima si fece meme: a chi sosteneva che la «persona» nasce con la fusione dei gameti rimaneva solo il rompicapo di due gemelli omozigoti che devono spartirsi una sola anima e l’imbarazzo di trovarsi insieme a Richard Dawkins a ritenere la vita un semplice vettore di senso. Infortuni di un Dio con la smania di incarnarsi e a cui la scienza si è ostinata a fare dispetti.]
Ciò premesso, possiamo sgnignazzare ferocemente alla tautologica affermazione che Bergoglio consegna a De Bortoli (Corriere della Sera, 5.3.2014): «i valori sono valori e basta», dice Cicciobello, e dunque non avrebbe senso dirne alcuni «negoziabili» ed altri no. Come non esser solidali con quei cattolici che in questo papa vedono il liquidatore della baracca? Apre bocca solo per dimostrare quanto sia disperata la missione che si è posta e quanto ne sarà alto il costo. A chi ha cuore che la Chiesa sprofondi, un Bergoglio che segue a un Ratzinger suona come scricchiolio dopo scricchiolio, e non si fa fatica a immaginare la fifa a star lì dentro: è come vedere mamma che ogni sera si prepara per scendere in strada a battere sennò non si mangia, col rischio di non vederla più tornare a casa la mattina dopo, e non mangiare più lo stesso, in più dovendo piangere una madre morta da baldracca. È che non è facile correre dietro alle pecorelle scappate dall’ovile e intanto tener pure buone quelle vi sono rimaste dentro: più ti allontani, e non è detto che riuscirai a portarne indietro tante, più quelle che lasci incustodite te lo rinfacciano, perché sarà pur vero che lassù «ci sarà più gioia per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15, 7), ma quaggiù la cosa solleva più di un problema, che in sostanza è psicologico, ma ci mette niente a diventare ecclesiologico.
L’inversione è stata troppo brusca, d’altronde era indispensabile. Di fatto, da una Chiesa tutta introvertita nella difesa della tradizione sembra si sia passati ad una estroversione che molti considerano una resa alla modernità, e per molti versi non si può dare loro torto. Insomma, ne volano di pesanti, e fischiano di brutto. Il papa è il papa, è vero, e bisogna farselo piacere, al punto che più doloroso è lo sforzo e più Dio ne darà merito, d’altronde questo qui è gesuita, quindi se lecca il culo al secolo sarà per incularselo meglio, ma est modus in rebus, cazzarola, non vorrà mica toccare la dottrina? Lì dentro ci sono i cosiddetti «valori non negoziabili». Non vorrà mica che la misericordia faccia tabula rasa di ciò che è verità e giustizia?
Ecco in questione, appunto, quei «valori» che dicono di un «dover essere», al venir meno del quale non si è neppure più cattolici, neppure più cristiani. In quanto tali, è vero, non v’è traccia nei Vangeli, né in Agostino, né in Tommaso, ma sono diventati «valori» in quanto beni trasmessi di generazione in generazione, ed è stato un «negotium» ad aver dato loro una quotazione: dirli «non negoziabili» significa dichiararli «non ri-negoziabili», a differenza degli altri, e dunque tentare di metterli in cima alla scala dei «valori» correnti. Bene, arriva il fessacchiotto e dice che nessun «valore» è «negoziabile», e ti saluto il tentativo di far distinzione tra i tuoi, quelli assoluti, e gli altri, quelli relativizzabili. Tutti i «valori» sono «valori», nel senso che sono tutti inestimabili: nessuno ha intenzione di farne «negotium» per la semplice ragione che non è possibile, e allora ciascuno si tiene i suoi. È come dire al mondo: Cristo si offre in eucaristia come specchio mandato in frantumi e in ciascuno puoi specchiarti per come puoi, se vuoi, via, prova. Potremo biasimare chi gli metterà il cianuro nel mate, a ’sto sciagurato?
È in un passo di Holzwege (1950) che Martin Heidegger ci dà ottima sintesi di ciò che accade in quel periodo: «Parlare di valori diventa abituale e pensare per valori diventa normale. [...] Si comincia a parlare di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni, di valori spirituali, di qualità valoriali, arrivando a pretendere di trovare quei valori anche presso gli autori classici. [...] Nasce la filosofia dei valori, si costruiscono sistemi di valori, l’etica indaga sulle stratificazioni dei valori, e anche la teologia cristiana prende a definire Dio, quello che fin lì è stato il summum ens qua summum bonum, come valore supremo. Si dichiara la scienza estranea al valore e si collegano i valori alle visioni del mondo. Il valore, ciò che ha valore, diviene un surrogato positivistico del metafisico». In chiosa Carl Schmitt vi appunta: «Una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, minacciava la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo al regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno dei valori come regno della validità ideale» (Die Tyrannei der Werte, 1960). Fin lì il «valor» aveva dato misura del «factus», ora il primo sta al secondo come il «dover essere» all’«essere».
[Circa un secolo dopo, avremo un esemplare caso di «surrogazione positivistica del metafisico» col prendere ad identificare la «persona» nel suo dna: parafrasando Schmitt, la scienza andava dimostrando che non si dà «persona» se non nel suo farsi, e cioè che non può darsi «persona» in uno stadio embriologico del sistema nervoso centrale comunque posteriore al momento dell’animazione, e allora l’anima si vide costretta a sloggiare dal cervello, dove aveva trovato rifugio dopo essere stata sloggiata dal cuore, trovandone uno nuovo nel corredo cromosomico. Nel tentativo di conservare alla «persona» il suo statuto trascendente, lo spirito andò a trovare ipostasi nell’acido desossiribonucleico, e in pratica l’anima si fece meme: a chi sosteneva che la «persona» nasce con la fusione dei gameti rimaneva solo il rompicapo di due gemelli omozigoti che devono spartirsi una sola anima e l’imbarazzo di trovarsi insieme a Richard Dawkins a ritenere la vita un semplice vettore di senso. Infortuni di un Dio con la smania di incarnarsi e a cui la scienza si è ostinata a fare dispetti.]
Ciò premesso, possiamo sgnignazzare ferocemente alla tautologica affermazione che Bergoglio consegna a De Bortoli (Corriere della Sera, 5.3.2014): «i valori sono valori e basta», dice Cicciobello, e dunque non avrebbe senso dirne alcuni «negoziabili» ed altri no. Come non esser solidali con quei cattolici che in questo papa vedono il liquidatore della baracca? Apre bocca solo per dimostrare quanto sia disperata la missione che si è posta e quanto ne sarà alto il costo. A chi ha cuore che la Chiesa sprofondi, un Bergoglio che segue a un Ratzinger suona come scricchiolio dopo scricchiolio, e non si fa fatica a immaginare la fifa a star lì dentro: è come vedere mamma che ogni sera si prepara per scendere in strada a battere sennò non si mangia, col rischio di non vederla più tornare a casa la mattina dopo, e non mangiare più lo stesso, in più dovendo piangere una madre morta da baldracca. È che non è facile correre dietro alle pecorelle scappate dall’ovile e intanto tener pure buone quelle vi sono rimaste dentro: più ti allontani, e non è detto che riuscirai a portarne indietro tante, più quelle che lasci incustodite te lo rinfacciano, perché sarà pur vero che lassù «ci sarà più gioia per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15, 7), ma quaggiù la cosa solleva più di un problema, che in sostanza è psicologico, ma ci mette niente a diventare ecclesiologico.
L’inversione è stata troppo brusca, d’altronde era indispensabile. Di fatto, da una Chiesa tutta introvertita nella difesa della tradizione sembra si sia passati ad una estroversione che molti considerano una resa alla modernità, e per molti versi non si può dare loro torto. Insomma, ne volano di pesanti, e fischiano di brutto. Il papa è il papa, è vero, e bisogna farselo piacere, al punto che più doloroso è lo sforzo e più Dio ne darà merito, d’altronde questo qui è gesuita, quindi se lecca il culo al secolo sarà per incularselo meglio, ma est modus in rebus, cazzarola, non vorrà mica toccare la dottrina? Lì dentro ci sono i cosiddetti «valori non negoziabili». Non vorrà mica che la misericordia faccia tabula rasa di ciò che è verità e giustizia?
Ecco in questione, appunto, quei «valori» che dicono di un «dover essere», al venir meno del quale non si è neppure più cattolici, neppure più cristiani. In quanto tali, è vero, non v’è traccia nei Vangeli, né in Agostino, né in Tommaso, ma sono diventati «valori» in quanto beni trasmessi di generazione in generazione, ed è stato un «negotium» ad aver dato loro una quotazione: dirli «non negoziabili» significa dichiararli «non ri-negoziabili», a differenza degli altri, e dunque tentare di metterli in cima alla scala dei «valori» correnti. Bene, arriva il fessacchiotto e dice che nessun «valore» è «negoziabile», e ti saluto il tentativo di far distinzione tra i tuoi, quelli assoluti, e gli altri, quelli relativizzabili. Tutti i «valori» sono «valori», nel senso che sono tutti inestimabili: nessuno ha intenzione di farne «negotium» per la semplice ragione che non è possibile, e allora ciascuno si tiene i suoi. È come dire al mondo: Cristo si offre in eucaristia come specchio mandato in frantumi e in ciascuno puoi specchiarti per come puoi, se vuoi, via, prova. Potremo biasimare chi gli metterà il cianuro nel mate, a ’sto sciagurato?
mercoledì 5 marzo 2014
Tra «lassismo» e «rigorismo»
Mi pare
di aver già illustrato su queste pagine – due o tre anni fa, se non erro – uno
dei trucchi più ingegnosi cui ricorre il sofista per far forte la sua tesi sulla
vostra: parlo di quello che consiste nel tirarne in ballo una terza, che non è affatto
in discussione, e che per giunta non ha alcun sostenitore nel foro in cui lui e
voi siete convenuti, una tesi che estremizza la sua fino a renderla francamente
insostenibile, di modo che la tesi da lui sostenuta conquisti posizione
equidistante da questa e dalla vostra, andandosi a piazzare «in [quel] medio [dove
si dà per certo] stat virtus».
Esempio: mettiamo si stia discutendo di Concordato,
che voi sosteniate sia opportuno abolirlo e lui sia di parere contrario: il
sofista dirà che il Concordato è la migliore soluzione nei rapporti tra Stato e
Chiesa, contro le tentazioni laiciste, da un lato, e quelle teocratiche,
dall’altro. Voilà, la vostra tesi diventa estremista, dunque implica un pericolo,
inutile star lì a pensar troppo quale (dev’essere di segno opposto a quello di un
regime teocratico, ma come dubitare che sia altrettanto grave?), mentre la sua,
al contrario, è equilibrata, dunque rassicurante, e qui basta che l’uditorio
abbia la fessaggine media che eleva i sofisti al grado di custodi del buonsenso
per guadagnarci pessima fama, oltre a perdere la partita.
Prevedo un’obiezione:
mi si dirà che, se si discute di Concordato, la tesi teocratica è virtualmente
in discussione anche in assenza di chi la sostenga, e che dunque il trucco ha
sostanza di argomento. Siete in errore, perché nel discutere di un patto tra
Stato e Chiesa che in premessa, almeno formalmente, dà per scontato che
entrambi siano sovrani in ambiti distinti, la teocrazia è esclusa a priori:
evocarla è strumentale, e abbiamo visto a qual fine.
Anche se ha precursori di vecchia
data, il trucco di cui stiamo parlando trova i suoi fasti nella retorica da
seminario a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, quando il revival del tomismo
dà al cattolicesimo il vestitino della precettistica e la «virtus» che «stat in
medio» ne taglia il drop: la morale cattolica si dà reputazione di campione di moderatismo. Finisce addirittura, qualche decennio dopo, col
diventare cifra della cosiddetta «strategia della tensione», che trova la sua
filosofia nella dottrina degli «opposti estremismi». Poi, decade a utensile
della polemica da gazzettino, punteruolo retorico di vecchie pantegane come il
Caffarra e il Ruini.
Torno su questo trucco, oggi, perché ne trovo esempio nella relazione che Walter Kasper ha buttato giù a margine del prossimo sinodo, quello che metterà mano alla pastorale sulla famiglia (Il Foglio, 1.3.2014), e nella versione clericus contra clericum è uno spasso: Sua Eminenza si dà posizione moderata tra
«lassismo»
e
«rigorismo», dove il primo sarebbe quello che non vuole e il secondo quello che non può. Archiviata la questione se la Dc fosse o no partito cattolico, e in qual senso, si pone quella assai più intrigante se questo papato sia democristiano o no, e quanto.
lunedì 3 marzo 2014
Un film da esportazione
Parlare
del film di Paolo Sorrentino dopo che ha vinto l’Oscar è assai più difficile di
quanto lo fosse prima. Anche prima, d’altronde, non era facile, perché sembrava
fatto apposta per essere candidato a vincerlo. Non saprei dire se già nel
momento in cui veniva scritto, ma certamente nel momento in cui veniva girato, era
un film che rincorreva il giudizio favorevole che avrebbe dovuto darne il
pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Premio meritatissimo,
dunque, perché il film dimostra di aver pienamente corrisposto al fine per cui
era stato concepito, con encomiabile controllo del mezzo artistico.
Di fatto, quando questo accade, il portato artistico, se c’è, diventa invisibile. Difficile afferrarlo, impossibile dire di averlo afferrato. Si resta impigliati in una battuta, in una immagine, le si dà il valore di una chiave, la si infila nella toppa, ma non si apre niente. Così, dovessi dire dove volesse andare a parare, il film, manco per niente. Affresco allegorico? Apologo morale? Elegia? Può darsi, e no. In più, non appartengo al pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Per dire, non uno dei film che mi sono più piaciuti – e parlo di Alfred Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Orson Welles – ha mai vinto la statuetta placcata d’oro.
Non vorrei essere frainteso, però. Non dico che La grande bellezza sia stato pensato e realizzato al solo scopo di ottenere l’Oscar e ciò che il premio rappresenta in termini di profitto per l’autore e il produttore: anche per questo, ovviamente, ma in primo luogo per andare incontro al particolare genere di consenso che produce questo particolare genere di profitto. In altri termini, il film di Paolo Sorrentino non aveva alcuna aspirazione di parlare a tutti, come di solito è nelle ambizioni di un artista, ancorché velleitarie o forse, proprio per ciò, e così spesso, velleitarie: si rivolgeva a un pubblico ben preciso, anche se assai vasto, e cercava di ottenerne il consenso secondandone l’immaginario. Ancora più esplicitamente: era un film da esportazione destinato al pubblico che della città di Roma ha proprio l’idea cui la pellicola ha dato corpo in immagini.
Un film per turisti, potremmo dire, ma sarebbe ancora troppo generico. Direi fosse un film per turisti intenzionati a tornare a casa con l’idea che li aveva accompagnati alla partenza, però arricchita da un gran numero di evocazioni e rimandi, frattali della loro idea di Roma, non solo come straordinario magazzino di vestigia del passato, ma come sintesi emblematica di quell’italianità che è cifra distintiva dei più datati depliant. Non solo turisti stranieri, dunque.
Non che questa italianità sia mero prodotto letterario, tutt’altro. Prende i tratti letterari di quello che solitamente è detto carattere, ma trova rispondenza in quei luoghi comuni che gli italiani si sforzano di incarnare, anche se sempre più pigramente, per una crescente fatica che arrischia il micidiale. Le numerose citazioni felliniane in cui Paolo Sorrentino ha manifestamente cercato e trovato compiacimento avevano il solo fine di dissimulare questa fatica in una connaturata accidia. Perciò potremmo dire che l’Oscar a La grande bellezza è un premio non solo a Paolo Sorrentino e alla sua indubbia bravura, ma anche a quegli italiani che con eroicomica determinazione sgomitano per entrare nell’inquadratura. Del tutto naturale che gioiscano del premio.
Di fatto, quando questo accade, il portato artistico, se c’è, diventa invisibile. Difficile afferrarlo, impossibile dire di averlo afferrato. Si resta impigliati in una battuta, in una immagine, le si dà il valore di una chiave, la si infila nella toppa, ma non si apre niente. Così, dovessi dire dove volesse andare a parare, il film, manco per niente. Affresco allegorico? Apologo morale? Elegia? Può darsi, e no. In più, non appartengo al pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Per dire, non uno dei film che mi sono più piaciuti – e parlo di Alfred Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Orson Welles – ha mai vinto la statuetta placcata d’oro.
Non vorrei essere frainteso, però. Non dico che La grande bellezza sia stato pensato e realizzato al solo scopo di ottenere l’Oscar e ciò che il premio rappresenta in termini di profitto per l’autore e il produttore: anche per questo, ovviamente, ma in primo luogo per andare incontro al particolare genere di consenso che produce questo particolare genere di profitto. In altri termini, il film di Paolo Sorrentino non aveva alcuna aspirazione di parlare a tutti, come di solito è nelle ambizioni di un artista, ancorché velleitarie o forse, proprio per ciò, e così spesso, velleitarie: si rivolgeva a un pubblico ben preciso, anche se assai vasto, e cercava di ottenerne il consenso secondandone l’immaginario. Ancora più esplicitamente: era un film da esportazione destinato al pubblico che della città di Roma ha proprio l’idea cui la pellicola ha dato corpo in immagini.
Un film per turisti, potremmo dire, ma sarebbe ancora troppo generico. Direi fosse un film per turisti intenzionati a tornare a casa con l’idea che li aveva accompagnati alla partenza, però arricchita da un gran numero di evocazioni e rimandi, frattali della loro idea di Roma, non solo come straordinario magazzino di vestigia del passato, ma come sintesi emblematica di quell’italianità che è cifra distintiva dei più datati depliant. Non solo turisti stranieri, dunque.
Non che questa italianità sia mero prodotto letterario, tutt’altro. Prende i tratti letterari di quello che solitamente è detto carattere, ma trova rispondenza in quei luoghi comuni che gli italiani si sforzano di incarnare, anche se sempre più pigramente, per una crescente fatica che arrischia il micidiale. Le numerose citazioni felliniane in cui Paolo Sorrentino ha manifestamente cercato e trovato compiacimento avevano il solo fine di dissimulare questa fatica in una connaturata accidia. Perciò potremmo dire che l’Oscar a La grande bellezza è un premio non solo a Paolo Sorrentino e alla sua indubbia bravura, ma anche a quegli italiani che con eroicomica determinazione sgomitano per entrare nell’inquadratura. Del tutto naturale che gioiscano del premio.
Il risvegliatore della Pietà di Michelangelo
Peggio
dell’insensibilità dinanzi all’opera d’arte c’è solo lo stravolgerne il
significato calcando a forza nelle intenzioni dell’artista le proprie
impressioni, spesso balzane, non di rado a dispetto di ciò che attestano le
fonti storiche, e senza lasciare adito a dubbio, o addirittura a offesa della più piana
evidenza e a oltraggio del più solido buonsenso: vizio ridicolo, che tuttavia
diventa francamente insopportabile quando a sostegno di quella che è immancabilmente presentata come straordinaria scoperta, strabiliante rilevazione che dovrebbe far
luce sulla più intima natura dell’artista, l’eccentrico di turno non ha da produrre
altro argomento che il suo intuito. Con l’articolo di Luc Templier per Donne,
Chiesa, Mondo, l’inserto domenicale de L’Osservatore Romano curato da Lucetta
Scaraffia, ci risiamo. E a farne le spese è la Pietà di Michelangelo Buonarroti
conservata nella Basilica di San Pietro in Vaticano: «Un giorno mi è apparso un
dettaglio che ha cambiato la mia visione dell’opera. […] Maria è giovane,
troppo giovane, addirittura più giovane di Cristo. […] Cristo è abbandonato, […]
non mostra alcun segno di rigidità. Al contrario, a forma di S, è flessuoso, sensuale,
languido. […] Di fatto non vediamo più solo la Vergine e Cristo morto, ma una
giovane donna e un giovane uomo volontariamente offerto alle sue braccia. Una coppia
insomma. […] Capiamo ciò che Michelangelo ha suggerito in questa sublime
parabola: la capitolazione consenziente del maschile al principio femminile.
Giusta esaltazione dei valori femminili a lungo calpestati, eppur vicini anche
ai valori dei Vangeli. […] Ma perché, mi direte, questa allegoria non era mai
stata commentata? Perché le rivelazioni importanti, sacre, non possono mai
essere fatte subito. Esse sono sempre velate: nella poesia, nelle favole, nelle
parabole. Nel marmo. Là aspettano, a volte per lungo tempo, che qualche traghettatore
(o passante) o qualche risvegliatore le colga». Chiaro, no? In quel pezzo di
marmo dormiva un Gesù morto in grembo a una Maria addolorata, ma Luc Templier è
passato di lì, ha buttato l’occhio e il suo formidabile intuito ha risvegliato dall’algida materia il
giovanotto spossato da una formidabile scopata cui la sua ganza volge lo
sguardo come a dire: «T’ho succhiato l’anima, ammettilo». Grandioso, è
comprensibile che la Lucetta si sia subito precipitata a mettere in pagina lo
scoop.
Dinanzi
a una rivelazione di tale portata i nostri pregiudizi si volatilizzano. Dalla
biografia di Ascanio Condivi, che del Buonarroti era amico, avevamo letto che,
a chi gli aveva sollevato l’obiezione della giovane età di Maria, Michelangelo
aveva risposto: «La castità, la santità e l’incorruzione preservano la
giovinezza». Mentiva, è ovvio. Riuscendo a ingannare perfino il Vasari, che di
lì a poco avrebbe scritto: «Se bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli
abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s’accorgono e non sanno eglino
che le persone vergini senza essere contaminate si mantengono e conservano l’aria
de ’l viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu
Cristo fanno il contrario?». L’usanza di ritrarre Maria con le fattezze di
quando aveva messo al mondo Gesù per significare che fosse «Figlia del suo
stesso Figlio»? Cazzate. Guardate bene la Pietà, è proprio come dice Luc
Templier. Anzi, se osservate bene la mano che Gesù lascia cadere sul panneggio
della veste di Maria, riuscirete anche a vedere tra le dita la sigaretta che dopo una scopata è cosa santa.
sabato 1 marzo 2014
[...]
Dopo
aver sentito un gesuita dire che «dietro il pensiero casistico sempre c’è una
trappola», manca solo Vattimo che dà del frocio a Socrate, e poi non resta che
l’Apocalisse.
Fare per fare / 4
[«Prima
di tirare le somme della nostra riflessione – dicevo – occorre ancora un altro
paragrafo: quello che ci chiarisca il precipitato storico della
personalizzazione della politica, dalle forme del culto della persona
dell’autocrate al successo mediatico dell’impostore, nel ventaglio delle sue
più comuni tipologie». Sarà il caso di rimandare per soffermarci in un inciso.]
L’ambiguità
del termine Beruf, che è professione, ma pure vocazione, è carica, ma pure
occupazione, potrebbe rendere un po’ scivolosa la lettura di Politik als Beruf (1918), ma Max Weber chiarisce subito: «lo stato è quella comunità umana che nei limiti di un determinato territorio esige per sé, e con successo, il monopolio della forza fisica legittima» e «chi fa azione politica [altri non è che chi] aspira alla partecipazione di [questo] potere o all’influenza sulla sua ripartizione». Né Arbeit, né Werk, dunque, ma risposta a una chiamata (Ruf), che possiamo immaginare cogente come quella al sacerdozio o alle armi.
In tal senso, giacché
«lo stato consiste in un rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, il quale poggia sul mezzo della forza legittima (vale a dire: considerata legittima)», la risposta alla chiamata inscrive nella logica che fonda una linea gerarchica di tipo religioso e/o militare e detta le regole della missione e della conquista. D’altro canto, e sempre in stretta analogia ai compiti che sono della milizia e/o dell’ordine religioso, c’è un nesso tra mezzo e fine che
dà ragione della «legittimità della dominazione» in forma di «giustificazioni intrinseche»:
«anzitutto, l’autorità dell’“eterno ieri”, ossia del costume, la cui stabilità è consacrata da una validità di antichissima data, fondata sulla consuetudine»; «in secondo luogo,
l’autorità del dono di grazia personale di natura straordinaria (carisma), la dedizione assolutamente personale e la fiducia personale nelle rivelazioni, nel carattere eroico o in altre qualità di capo di un individuo»; e, «infine, la dominazione in forza della
“legalità”, [...] e cioè in forza dell’obbedienza fondata sull’adempimento di doveri stabiliti da norme: una dominazione qual è quella esercitata dal moderno “funzionario statale”».
Weber non si serve dell’analogia che qui abbiamo proposto col servizio sacerdotale e con quello militare (ma potremmo anche prendere in considerazione quello che li unisce nell’ordine di tipo religioso-cavalleresco), dunque dovremo provare a saggiarne la validità in relazione alle
«giustificazioni intrinseche». Possibile? Senza alcun dubbio. Nella Politik als Beruf, infatti, ne abbiamo i corrispondenti, sia al vertice, sia alla base della piramide gerarchica. E nell’immagine che apre questo post offro cinque esempi che, al netto delle enormi differenze, declinano lo stesso paradigma.
venerdì 28 febbraio 2014
mercoledì 26 febbraio 2014
Fare per fare / 3
Nel
secondo paragrafo di Fare per fare (Malvino, 24.2.2014) ho scritto che «l’apparente
ineffabilità della relazione [tra l’impostore e i suoi “polli”] si scioglie
nello spostare l’attenzione dall’offerta alla domanda» e che «la promessa di un
interesse assai più alto di quello un promotore finanziario può ragionevolmente
assicurare ai suoi clienti» trova il “pollo” in chiunque nutra l’«illusoria
aspettativa d’inclusione» nella «pseudologica phantastica» (Helen Deutsch) che «l’impostore
affida alla cifra simbolica della propria persona», come dispensatrice degli
effetti dei suoi «poteri magici» (Max Weber): è per questo che ho parlato di un
«doppio investimento», perché a quello che promette il lucro materiale (un incremento della cifra investita nel caso di un promotore finanziario, elevati utili aziendali nel caso di un manager, condizioni di vita migliore nel caso di un tribuno della plebe, ecc.) si
sovrappone, per certi versi si sostituisce, quello che assicura al “pollo” un
effetto di «legatura» all’impostore, equivalente del sortilegio che nelle
pratiche magiche lega le sorti di mandante e mandatario. Occorre tuttavia
spiegare donde nasca l’«illusoria aspettativa» cui facevo cenno, e trovare gli
elementi che nel “pollo” siano il concavo di ciò nell’impostore sta nel
convesso della sua impostura. E qui torna l’assunto argomentato ne Il cosiddetto carisma (Malvino, 13.12.2012):
«Grave errore, [...] quello di considerare il carisma come un dato oggettivo, incontestabilmente reale [...] Il carisma è un prodotto relazionale [...] Si dovrebbe smettere di considerarlo come una sorta di grazia della quale un leader può essere dotato o meno, ma una sorta di disgrazia nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità severamente disturbata».
Robert Cialdini (The Psychology of Persuasion,
1984) individua in sei attributi l’armamentario tattico dell’impostore: (a) l’ingegno
nel darsi veste di autorità; (b) l’abilità nel riprodurre un ingannevole
rapporto di congrua reciprocità tra offerta e domanda; (c) l’essere in grado di
dare all’offerta una preziosa dote di peculiarità che la renda rara o addirittura unica; (d) il
saper attribuire all’adesione
un carattere di riprova sociale d’un qualche prestigio; (e) la capacità di
acquisire gradi crescenti di adesione come tributi di coerenza ad un iniziale
impegno di pur scarso valore; (f) la capacità di creare un simpatetico medium comunicativo. Non è affatto difficile individuare le debolezze del
“pollo”
che esaltano queste doti nell’impostore, né è difficile immaginare gli scenari entro i quali queste debolezze vengono evocate e accentuate: occorre solo aver fatto tesoro della lezione della psicosociologia di scuola anglosassone (Richard T. Lapiere, Collective Behavior; Kimball Young, Social Psychology; Neil J. Smelser, Theory of Collective Behavior).
Chiarita la natura della «legatura» tra impostore e “polli”,
possiamo passare a considerare i caratteri che assume quando
l’impostura ha per oggetto una massa, e qui può tornarci utile l’analisi di ciò che Nello Barile ha definito
«neototalitarismo» (La mentalità neototalitaria, 2008), che in buona sostanza è la militarizzazione delle pratiche di mimesi e di seduzione. La conquista non è di uno spazio pubblico che viene egemonizzato per esclusione o marginalizzazione del diverso, ma per espropriazione della sua diversità, che
l’impostore incorpora senza che questa generi elemento di rottura nella narrazione mitopoietica dei suoi
«poteri magici»: «Il
verbo neototalitario consiste nella volontà di affermare il proprio punto di
vista impossessandosi di quello dell’altro in una sommatoria di comportamenti
contraddittori […] La mentalità neototalitaria non contraddistingue colui che
esclude l’altro ignorandolo, né chi lo include assoggettandolo, ma è propria di
colui che esclude l’altro attraverso l’emulazione». Siamo così all’inversione del paradigma che faceva del totalitarismo politico del Novecento un progetto di reductio ad unum così ben illustrato nel celeberrimo passo del discorso che Pio XI tenne il 18 settembre 1938, ribadendo la legittimità della pretesa che il cattolicesimo opponeva agli usurpatori: «Se c’è
un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della
Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle,
dato che l’uomo è creatura del Buon Dio. E il rappresentante delle idee, dei pensieri
e dei diritti di Dio, non è che la Chiesa».
Con la «mentalità neototalitaria», la conquista dell’egemonia politica e culturale rinuncia ai massacri: al terrore subentra la fascinazione. Non per questo, tuttavia, vengono meno i rischi per chi se ne fa attore. Basti comparare ciò che il generale Raffaele Cadorna scrisse in epitaffio al Ventennio: «È la solita folla che alterna l’“Osanna!” al “Crucifige!” e che tende ad attribuire a uno solo le proprie fortune o le proprie sciagure. Chi la trascina e la esalta, accarezzandone gli istinti ed eccitandone le passioni, la vedrà delirare nell’ora del successo, ma se la ritroverà davanti, inesorabile e spietata, al momento del disastro» (La riscossa, Rizzoli 1948), con ciò che Manfred Kets de Vries ha scritto sul destino che incombe sull’impostore: «Se c’è un aspetto su cui la letteratura non solo concorda, ma è unanime, è proprio che essere leader significa o richiede innanzitutto di dimostrare di avere una visione. La visione non di rado coincide con il sogno (“ho fatto un sogno…”) là dove la leadership si salda al carisma: la leadership carismatica è la leadership di un grande sogno che si insegue, che si vuole realizzare e che per molti aspetti è alto nella scala dei valori, alto nella scala delle difficoltà, alto nella fedeltà che richiede. Il sogno nella relazione con chi è sotto diventa così il vero profondo motivo psicologico delle vicissitudini della relazione di potere. In questo senso a sognare si è in due: il capo e i suoi gregari, tutti ugualmente coinvolti ad alimentare, a inseguire il sogno, a rispecchiarsi in esso: un sogno a due, un bi-sogno. Evidentemente così forte da potersi trasformare in illusione, autoinganno, fuga dalla realtà. La caduta del sogno, l’aprire gli occhi sulla realtà per quella che è, la delusione più grande della leadership, la sua fine, molto spesso proprio per questo violenta e distruttiva, è la vendetta per un sogno tradito» (Essays on the Psychology of Leadership, 1993).
Ma prima di tirare le somme della nostra riflessione occorre ancora un altro paragrafo: quello che ci chiarisca il precipitato storico della personalizzazione della politica, dalle forme del culto della persona dell’autocrate al successo mediatico dell’impostore, nel ventaglio delle sue più comuni tipologie.
Con la «mentalità neototalitaria», la conquista dell’egemonia politica e culturale rinuncia ai massacri: al terrore subentra la fascinazione. Non per questo, tuttavia, vengono meno i rischi per chi se ne fa attore. Basti comparare ciò che il generale Raffaele Cadorna scrisse in epitaffio al Ventennio: «È la solita folla che alterna l’“Osanna!” al “Crucifige!” e che tende ad attribuire a uno solo le proprie fortune o le proprie sciagure. Chi la trascina e la esalta, accarezzandone gli istinti ed eccitandone le passioni, la vedrà delirare nell’ora del successo, ma se la ritroverà davanti, inesorabile e spietata, al momento del disastro» (La riscossa, Rizzoli 1948), con ciò che Manfred Kets de Vries ha scritto sul destino che incombe sull’impostore: «Se c’è un aspetto su cui la letteratura non solo concorda, ma è unanime, è proprio che essere leader significa o richiede innanzitutto di dimostrare di avere una visione. La visione non di rado coincide con il sogno (“ho fatto un sogno…”) là dove la leadership si salda al carisma: la leadership carismatica è la leadership di un grande sogno che si insegue, che si vuole realizzare e che per molti aspetti è alto nella scala dei valori, alto nella scala delle difficoltà, alto nella fedeltà che richiede. Il sogno nella relazione con chi è sotto diventa così il vero profondo motivo psicologico delle vicissitudini della relazione di potere. In questo senso a sognare si è in due: il capo e i suoi gregari, tutti ugualmente coinvolti ad alimentare, a inseguire il sogno, a rispecchiarsi in esso: un sogno a due, un bi-sogno. Evidentemente così forte da potersi trasformare in illusione, autoinganno, fuga dalla realtà. La caduta del sogno, l’aprire gli occhi sulla realtà per quella che è, la delusione più grande della leadership, la sua fine, molto spesso proprio per questo violenta e distruttiva, è la vendetta per un sogno tradito» (Essays on the Psychology of Leadership, 1993).
Ma prima di tirare le somme della nostra riflessione occorre ancora un altro paragrafo: quello che ci chiarisca il precipitato storico della personalizzazione della politica, dalle forme del culto della persona dell’autocrate al successo mediatico dell’impostore, nel ventaglio delle sue più comuni tipologie.
lunedì 24 febbraio 2014
Fare per fare / 2
Sarebbe
ingenuo, prima che ingiusto, considerare Matteo Renzi un avventuriero con
straordinarie capacità di impostura. Com’è stato per Silvio Berlusconi, è
piuttosto da intendersi come sintomo di una patologia, e della stessa patologia,
come vedremo, ma ad uno stadio notevolmente più avanzato. Come non è dato
impostore, infatti, senza platea di gonzi che ne esprima il bisogno, ancorché
inconscio, legato all’illusoria aspettativa d’inclusione in quella narrazione che
Helen Deutsch ha definito «pseudologica phantastica» (Neuroses and Character
Types, 1965), allo stesso modo non è dato carisma, weberianamente intenso come «qualità
della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli
uomini comuni ed è trattato come uno dotato di qualità soprannaturali,
sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali, non accessibili alle
persone normali» (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922), che non sia espressione di
un investimento emotivo che tende ad acquisire i benefici effetti di una «grazia»
(χάρις): in entrambi i casi, l’apparente ineffabilità della relazione si
scioglie nello spostare l’attenzione dall’offerta alla domanda. Nella promessa
di un interesse assai più alto di quello un promotore finanziario può ragionevolmente
assicurare ai suoi clienti c’è sempre la richiesta di un doppio investimento
che in buona parte è sui suoi «poteri magici» (Max Weber, ibidem): tale domanda
trova ineluttabilmente adesione nel bisogno di essere toccati da questa «magia»,
della quale si presume esser fatti degni dall’atto di fede alla narrazione che l’impostore
o il leader carismatico affidano alla cifra simbolica della propria persona,
che si offre come fattore «legante». E non è un caso, infatti, che il termine «legatura» ricorra nelle pratiche magiche come sinonimo di sortilegio che implica mandante
e mandatario.
Lo straordinario caso di Silvio Berlusconi, che mostra la natura
di questo vincolo pattizio anche nei suoi effetti residuali, laddove la «magia»
si è rivelata deludente per oltre un terzo della platea che aveva sottoscritto
il mandato, si offre come paradigma di questo meccanismo di fidelizzazione, e
trova le ragioni che ne hanno reso possibile la parabola non già nella sua persona,
o comunque non solo, ma innanzitutto nelle aspettative di quello che per una
lunga stagione è stato un vero e proprio blocco sociale, la risultante di un
profondo mutamento della società italiana. Per dirla in altro modo, la tv di
Silvio Berlusconi non ha creato ex novo dei bisogni, ma li ha solo liberati
dalla rimozione che li traduceva in nevrosi, sicché è stato facile, per chi si
offriva come «liberatore», accreditarsi come più genuina espressione di un
profondo che esigeva legittimazione. È così anche per Matteo Renzi, ma in uno
stadio ulteriore di questo venir meno della denevrotizzazione del rimosso, che denota
una palese tendenza all’ingravescenza della peraltro cronica incapacità degli
italiani ad assumersi responsabilità. Questo, d’altronde, è il motivo per cui la
personalizzazione della politica, che è orientamento cui solitamente inclina la
democrazia nelle sue più gravi crisi, in Italia assume ancora e ancora le
fattezze dell’Uomo della Provvidenza, quelle del decisionista le cui decisioni
nascono da un cieco senso della volontà, dell’innovatore che rappezza il vecchio
in patchwork neanche tanto originali, del rivoluzionario che ha per orizzonte un
rimpasto del presente. Non è un caso che da trent’anni non si abbia idea di Rinascita, che non debba dirsi in debito con la profetica visione di Licio Gelli.
domenica 23 febbraio 2014
Fare per fare
In
questi ultimi giorni ho ascoltato, in gran parte riascoltato, gli interventi coi quali Matteo Renzi ha
chiuso le quattro edizioni della Leopolda [(2010) 1, 2, 3, (2011) 4, (2012) 5,
(2013) 6], tutte le interviste televisive di più ampio respiro che ha concesso
dal 2008 ad oggi [(Le invasioni barbariche) 7, 8, 9, 10, 11, (Che tempo che fa)
12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, (Ballarò) 19, 20, (In mezz’ora) 21, 22, (Porta a
porta) 23, (Otto e mezza) 24, 25, 26, 27, 28, (Virus) 29, 30], tutto ciò che ha detto nel corso
dei confronti televisivi tenutisi in occasione delle primarie del 2012 per la candidatura a premier [(Raiuno) 31, 32,
33, 34, 35, 36] e di quelle del 2013 per la segreteria del Pd [(Sky Tg24) 37] e una dozzina di suoi discorsi, per lo più tenuti nell’ultimo anno, in occasione di comizi elettorali e riunioni di partito [38, 39, 40, 41, ecc.], per un totale di circa 42 ore, una vera e propria full immersion nel suo vacuo scilinguagnolo, dalla quale sono riemerso senza essere riuscito a cogliere traccia, non già di una Weltanschauung renziana, nella quale d’altronde non contavo di imbattermi, ma neppure di un
suo pur vago progetto di società, e non dico di un progetto originale, ma renziano anche solo per scopiazzatura, sicché mi sembra di poter concludere in serena coscienza che, dietro la mimica da personaggio di cinepanettone e le battute da piazzista di biancheria intima in lycra,
in Matteo Renzi c’è il grado zero della politica intesa come idea di polis e che, dunque, lo
stato delle cose che trova sintesi d’immagine nel suo arrivo a
Palazzo Chigi consente di disertare ogni valutazione di merito su un eventuale orizzonte strategico in cui sia ragionevole pensare la
linea politica del suo esecutivo: ammesso e non concesso che il suo governo riesca a tracciarne una che non sia la mera risultante delle resistenze interne ed esterne che si opporranno al suo velleitarismo, è impossibile immaginarne un’articolazione, quindi è del tutto inutile intrattenerci a ipotizzarne la direttrice. Sarà un fare per fare, nel tentativo di durare per durare.
Iscriviti a:
Post (Atom)