Giovanni
Casalegno e Guido Goffi sono gli autori di un lemmario che raccoglie gli
epiteti ingiuriosi di cui è straordinariamente ricca la lingua italiana
fornendo per ogni termine almeno una fonte, fino a un massimo di cinque, poi
indicizzate in coda all’opera in un’appendice bibliografica di oltre 60 pagine
che da sola, a mio modesto avviso, vale il prezzo del volume (Brutti, fessi e
cattivi – Utet, 2005). Deliziosa la prefazione di Giordano Bruno Guerri, ma è
su un passaggio dell’introduzione che vorrei soffermare l’attenzione: «Insulti,
ingiurie, maldicenze, invettive, improperi, epiteti, contumelie – scrive
Giovanni Casalegno – non sono soltanto semplici “parolacce” o strumenti di
aggressione verbale, ma lo specchio profondo di una intera civiltà, della sua
mentalità, delle sua cultura, del suo sistema di valori, dei suoi codici di
giudizio, delle sue paure e delle sue difese». Se è così, a quale «sistema di
valori» possiamo riferire l’uso di un termine spregiativo come «parruccone»?
Conviene partire proprio dalla definizione che ci offre questo singolare
dizionario, ma prima è doveroso chiarire che questa riflessione prende spunto
dalla ricorrenza che il termine trova su Il Foglio di Giuliano Ferrara:
«parrucconi», ieri, erano gli inquirenti che indagavano su eventuali reati di
Silvio Berlusconi nell’ambito delle «cene eleganti» che questi offriva, fra gli
altri, a faccendieri, puttane e trafficanti di cocaina, e «parrucconi», oggi,
sono Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà
e Salvatore Settis, perché contrari alla riforma del Senato cui pensa Matteo
Renzi. E dunque cos’è, chi è, un «parruccone»?
Per puntare al cuore della
questione, che è quella di individuare un «codice di giudizio» nell’uso del
termine, stralcerei dalla nostra riflessione due questioni tutto sommato
marginali, anche se di stretta attinenza al contesto.
La prima è relativa al fatto che, in
quanto a idee retrive, per giunta sostenute sempre con gran sussiego e a petto gonfio, Il Foglio non è
secondo ad alcun giornale (basti pensare alle invettive contro l’evoluzionismo
e la psicoanalisi, contro il Concilio Vaticano II e il Sessantotto, contro ogni pratica contraccettiva e il divorzio, fino agli sperticati elogi alla Controriforma e al Sillabo). Questo rilievo, tuttavia, non ci è utile per il fine
che ci siamo posti e al più potrebbe essere speso sul piano polemico per
rimarcare l’incoerenza della vacca che
dice al mulo: «Ti puzza il culo». Argumentum ad hominem, peraltro, dunque da
evitare.
La seconda questione, invece, è relativa all’uso strumentale del
termine nel tentativo di dare una continuità di posizione tra lo smettere di
leccare il culo a Silvio Berlusconi, che ormai è andato, e il cominciare a
leccarlo a Matteo Renzi, come a dire: «Non facciamo differenze, lo lecchiamo a
chiunque sia contro i parrucconi, il fatto che si tratti del potente del
momento è del tutto occasionale». Anche qui, però, saremmo a un rilievo
spendibile solo sul piano polemico (per giunta con un possibile rimpallo di
argumentum ad consequentiam), mentre a noi interessa – dicevamo – definire quel
particolare «sistema di valori» entro il quale chi sia contrario, non già alla
possibilità di revisionare la Costituzione, che d’altronde la stessa
Costituzione prevede, ma a una revisione pensata a cazzo di cane, e alla quale
per giunta si intende procedere forzando modi e tempi, sia un «parruccone».
Prima di procede oltre, però, è
necessario chiarire il perché di tanta attenzione proprio a questo epiteto. È presto
detto: ricorre, anche se in forma attenuata, nell’uso del termine
«professorone» che nelle ultime settimane abbiamo sentito in più occasioni
sulle labbra di Matteo Renzi e dei suoi. Direi che siamo, dunque, in quel «sistema di
valori» in cui «professorone» e «parruccone» sono sinonimi di quell’«intellettuale
dei miei stivali» col quale Bettino Craxi ritenne di poter liquidare Norberto Bobbio:
in buona sostanza, come ho già scritto su queste pagine, siamo dinanzi al
disprezzo per la cultura accademica cui il sedicente
«uomo del fare», talvolta cedendo al beffardo, più spesso ostentando fastidio, non può fare a meno di esibire quando scende nella piazza a raccogliere consensi tra gli incolti. Tra i tratti distintivi del demagogo populista, infatti, spicca quello di offrirsi come demiurgo che semplifica e che non perde tempo a cercare di sciogliere i nodi complessi che gli capitano sotto mano, ma li recide di netto.
In questo senso, «parruccone» è insulto che mira più dei suoi sinonimi a ridicolizzare l’avversario che
sollevi obiezioni argomentate in punto di diritto: lo si rappresenta con una
parrucca in testa, desueto orpello di un sapere e di un potere che sarebbero fuori
dal tempo, tanto più detestabili, dunque, quanto più di impiccio a quei
cambiamenti che non di rado invocano l’urgenza per meglio dissimulare il colpo
di mano. Anche per questo occorre prestare massima attenzione al lessico renziano, perché quando sentiremo Matteo Renzi o uno dei suoi usare il termine «parruccone», e a mio modesto avviso non ci vuole molto, l’Allerwertspartei teorizzato da Otto Kirchheimer sarà cosa fatta e allora vorrà dire che berlusconismo e
antiberlusconismo avranno trovato una sintesi, e potremo chiamarla renzismo.