lunedì 30 giugno 2014

Gli torna utile anche una faccia da cretino


Alcuni lettori mi hanno pregato di spiegare meglio il senso della frase che apriva uno dei miei ultimi post: «Ogni parallelismo tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria – scrivevo – corre il serio rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie». Credo nella Provvidenza? Ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica? Cos’è che rende Renzi un caso a parte rispetto a «gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria» che ho dato per inteso abbiano tra loro un maggior numero di analogie? Queste – pressappoco – le domande che accompagnavano le richieste di chiarimento. E dunque.
No, non credo nella Provvidenza, ma suppongo fosse chiaro il riferimento alla locuzione usata da Pio XI per Benito Mussolini, e dunque alla perifrasi del ruolo che il θεoς απo μηχανης ha nella tragedia greca: compare all’improvviso, in virtù dei suoi poteri sovrumani mette ordine con fare risoluto a uno stallo della trama e la soluzione sembra soddisfare tutti, o quasi. Occorre tuttavia riflettere su un dato: se l’Uomo della Provvidenza è tale quando torna di qualche utilità nel farsi soluzione di un conflitto del quale non si riesce a prevedere la durata, né lo sviluppo, né l’esito, lasciando presagire solo il logorarsi delle forze in campo, con ricadute negative sull’intero corpo sociale, è giocoforza che egli assuma tratti costanti che sono indipendenti dal contesto.
E dunque no, non ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica, ma ritengo che analogie tra l’uno e l’altro Uomo della Provvidenza siano possibili, anzi, direi che esse vadano costantemente alla conquista del rango di veri e propri marcatori genetici della eccezionalità del loro carattere, facendo da architrave alla costruzione mitopoietica di un destino. Quand’anche siano surrettizie, dunque, le analogie sono cercate, prima, e ottenute, poi, nel tentativo più o meno deliberato di suggerire che l’Uomo della Provvidenza sia una delle risorse intrinseche alla communitas intesa come organismo. Che le analogie siano di fatto o si propongano come tali, dunque, non fa differenza: esse sono in gioco come credenziali di un carisma sempre uguale (straordinaria abilità nella comunicazione, notevole capacità di manovrare gli individui e di affascinare le masse, incrollabile autostima, piglio autoritario, ecc.) che di tanto in tanto è chiamato ad incarnarsi in un tizio dai modi spicci che dinanzi al nodo di Gordio non si scoraggia e lo scioglie recidendolo di netto.
E allora cos’è che non consente di andare più in là di poche analogie nel tentativo di costruire un parallelismo tra Renzi e Berlusconi, o tra Renzi e Craxi, o tra Renzi e Mussolini? Semplice a dirsi: Renzi arriva nel momento in cui all’Uomo della Provvidenza non è più richiesto né un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società. Renzi può muoversi al di fuori delle categorie che la postmodernità sembra avere archiviato per sempre. Le enormi differenze che caratterizzano la crisi dello Stato liberale, la crisi del Movimento operaio, la crisi della Prima repubblica non impediscono di individuare un pur esile tratto comune tra il ventennio di Mussolini, il ventennio di Craxi e il ventennio di Berlusconi: l’azzardo era nel chiedere la piena e indiscussa facoltà di governo in cambio di un’idea di società. L’azzardo di Renzi sta nell’identica richiesta ma in cambio della mera governabilità.
Renzi non ha un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società, per la semplice ragione che oggi non ce n’è bisogno per ottenere consenso. D’altronde, la crisi della democrazia e la deriva populista che ne è conseguita hanno svuotato il consenso del significato che gli attribuivano l’adesione ad un’analisi e ad una proposta, la concordanza sui modi e sui mezzi, quell’idem sentire che prima era sentito come sorte e in tempi più recenti ha preso forma di narrato. In tal senso, per ottenere ciò che vuole, a Renzi non è necessario neanche un consenso che abbia i modi della partecipazione fanatizzata. Il suo modello di populismo non è quello dal basso, che cerca di comporre le contraddittorie pulsioni che salgono da un popolo ridotto a plebe, ma quello dall’alto (la letteratura di scuola marxiana gli ha dato la definizione di neobonapartismo), che momento per momento si fa forte della pulsione predominante per incrementare la presa di dominio che può fare a meno di sostenersi su quelle che l’hanno preceduta, dunque senza doversi porre il problema di risponderne. Ecco perché non ha alcun senso pensare di poter togliere credibilità all’offerta di Renzi coll’inchiodarlo a ciò che ha detto due giorni, due mesi o due anni fa, tanto meno col segnalare le continue prove di quanto sia a digiuno di ogni cultura che non sia quella televisiva, men che meno col caricaturizzarne i tratti del maneggione senza scrupoli: il non aver in alcun conto l’onore che si fonda sulla parola data e sulla coerenza tra il dire e il fare, la sua grassa ignoranza, il suo prestarsi con compiaciuta strafottenza ad ogni genere di critica sono i suoi punti di forza, e perfino avere una faccia da cretino gli torna utile da arma micidiale. La dictatura cui mira (e uso il termine latino per fare chiaro riferimento al suo significato nel diritto romano) è quella che trova ragione nell’urgenza dell’eterno presente che è in ciascuna delle figure retoriche di cui grondano i suoi discorsi, che non a caso sono privi di ogni congrua articolazione e di un intellegibile costrutto. In due parole, Renzi è il trionfo del vuoto che divora tutto ciò che sfiora.
Non ce ne libereremo facilmente, comunque non nel modo col quale ci siamo liberati degli altri Uomini della Provvidenza. In quel modo non conviene neppure provarci.


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Stiamo per assistere al primo dei grandi successi di Bergoglio come diplomatico: a giorni, forse a ore, palestinesi e israeliani si stringeranno in un grande e fraterno abbraccio. 

sabato 28 giugno 2014

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Ogni parallelismo tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria (Benito Mussolini, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi) corre il serio rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie. Solo una cosa unisce saldamente tutte e quattro le esperienze: la qualità umana e il livello intellettuale dei gregari. Mussoliniani (prim’ancora che fascisti), craxiani (prim’ancora che socialisti), leccaculo di Berlusconi (prim’ancora che berlusconiani) e renziani (prim’ancora che avanzi d’apparato) hanno identico profilo psicologico e patterns behaviouriani straordinariamente simili: viene il sospetto che sullo stesso canovaccio si susseguano inestinguibili dinastie di caratteri della Commedia dell’Arte.
Si prenda un Matteo Orfini: «Vendola non cerchi nelle pressioni del Pd le cause della crisi di Sel: due anni fa diceva “mescoliamoci”, oggi cambia radicalmente linea. Davvero crede che la sinistra possa essere rappresentata dal salotto di Barbara Spinelli?». Non ha il physique du rôle dello squadrista, su questo non ci piove. Almeno dieci centimetri di troppo per poterlo dire nano e almeno venti o trenta di meno per poterselo immaginare come ballerina. Cortigiano ad Arcore, neanche a parlarne: troppo peloso, tristissima sciarpetta a strisce, sorriso da far abortire anche la più sfiziosa delle barzellette. E tuttavia, al netto di quello che gli manca, stessa arroganza, stessa postura del pidocchio assiso in trono sulla testa di Zeus, stessa livrea da maggiordomo che si esalta nel bere dal bicchiere del suo padrone.     

venerdì 27 giugno 2014

«Essere di sinistra»? «Una cosa egoista».


Gilioli si sente un privilegiato. Non ha torto, perché lo è rispetto a tanti. Volendo, tuttavia, non potrebbe sentirsi tale. Voglio dire che potrebbe non bastargli quello che ha e sentire privilegiato chi ha più di lui. Sennò pensare di avere esattamente quel che merita e che dunque parlare di privilegio sia per lo meno improprio. Invece dice che gli basta quello che ha e che per dirsi felice – sì, parla proprio di «felicità» – gli manca solo «che lo siano anche quelli che vedo intorno a me». Non poco, direi, perché questo implicherebbe non solo che tutti avessero ciò che rende quasi felice lui, ma che riuscissero pure a farselo bastare.
Ora, non c’è dubbio che, ad avere quello che lui ha – ma anche di meno, probabilmente, e forse anche molto di meno – chi non l’ha potrebbe anche star meglio di come sta, e tuttavia pretendere che a costui possa bastare al punto da potersi dire felice implica che Gilioli vuole l’impossibile, cioè che il concetto di «felicità» sia uguale per tutti.
Si badi bene, non gli contesto che si dichiari quasi felice per ciò che si fa bastare: penso anch’io che solidi affetti, bisogni non eccedenti le proprie disponibilità e un lavoro che piace non siano affatto poco, anzi, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che siano moltissimo. Quello che gli contesto è il vagheggiamento, sul piano ideale, e la ricerca, su quello pratico, della sua piena «felicità» nella pretesa, sul piano ideale, e nella proposta, su quello pratico, che quanto essa rappresenta per lui possa, e dunque debba, rappresentarsi in quanto tale per tutti.
Nella migliore delle ipotesi direi si tratti di un filantropismo un po’ paternalistico, nella peggiore direi si tratti di un cristianesimo senza Cristo, discretamente appiccicaticcio.

Quello che però ritengo sia assai più significativo è il motivo che Gilioli adduce al bisogno che il suo concetto di «felicità» possa, dunque debba, essere uguale per tutti: dice che si tratta di «senso di colpa», «un po’ quel meccanismo che ha portato a suicidarsi non pochi degli scampati all’Olocausto, che non sopportavano di essere tali, più o meno a caso, mentre altri, più o meno a caso, non ne erano scampati».
È questo che ci consente di escludere l’ipotesi di comunismo, che è roba più scientifica che psicologica. Dunque rimane quella del filantropismo un po’ paternalistico, e allora credo la questione – se di questione vogliamo parlare – si ponga nel chiederci cosa autorizzi Gilioli ad amare il prossimo suo come non è detto il prossimo suo voglia essere amato. E naturalmente non parlo di quella porzione del prossimo suo che ne condivide il concetto di «felicità» (lì dentro, in fondo, non mi troverei a disagio neppure io), ma di quella che lo rigetta perché immune dai problemi psicologici di Gilioli. Il quale non è un fesso e intelligentemente ammette che quanto è a fondamento del suo «essere di sinistra» è «una cosa egoista».
Viene da chiedersi quale sia lo spettro psicologico che include questo «essere di sinistra», perché, se dall’avere ciò che si ritiene basti a rendere quasi felice è naturale attendersi un «senso di colpa», dal non averne è naturale attendersi quell’«invidia» che per taluni sarebbe a fondamento psicologico dell’«essere di sinistra». Un Gilioli così inconsapevolmente berlusconiano, e chi se lo aspettava? 

Comparo questo «essere di sinistra» a quello di un Diciottobrumaio o di un Alterlucas e ci sento passare la stessa differenza che passa tra Florence Nightingale e Marie Curie. Scopro un Gilioli umorale, disarmato e disarmante, e nel giudicarlo così mi sembra quasi di fargli un torto, sicché mando un sms a chi penso possa dare un giudizio più avveduto: «I primi tre aggettivi che ti vengono per Gilioli?», chiedo. E la risposta è: «Autentico, appassionato e un po pirlone».  

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Insieme a quella della squadra del Napoli, sulla bara di Ciro Esposito c’era la bandiera con lo stemma di Casa Borbone, sotto la quale si raccolgono da una ventina d’anni i neoborbonici napoletani. Segnalata la presenza del signor Sindaco e di altre autorevoli personalità istituzionali della Repubblica, mentre spiccava l’assenza di Sua Maestà, re Felipe VI.

giovedì 26 giugno 2014

Capra e cavolo


Dinanzi al problema posto dal numero estremamente alto di ginecologi che in Italia oppongono obiezione di coscienza alla pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza, da un lato, e dall’obbligo da parte dello stato di assicurare che tale prestazione medica sia effettuata nei casi previsti della legge 194, dall’altro, io penso esista un modo per salvare capra e cavolo, anzi, penso ne esistano addirittura due: la modifica dell’art. 8 della suddetta legge al punto in cui recita che la prestazione medica può essere fornita esclusivamente da una struttura pubblica o il prepensionamento obbligatorio dei ginecologi obiettori operanti in strutture pubbliche e il loro rimpiazzo con ginecologi non obiettori.
Non faccio fatica a cogliere quali possano essere le perplessità riguardo a queste due soluzioni, ma credo non abbiano ragion d’essere entrando nel dettaglio.
Nel primo caso, le perplessità saranno relative al rispetto dei limiti che la legge pone alla possibilità di un’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni (art. 4) o dopo tale epoca (art. 6): si può sospettare che consentire alle strutture private di fornire la prestazione possa indurre a violare tali limiti per basse ragioni di profitto. È sospetto che concedo abbia ragion d’essere, ma il rischio che questo accada può facilmente essere evitato con l’inasprimento delle sanzioni penali attualmente contemplate per chi si renda responsabile di analoghe violazioni o semplicemente fornisca la prestazione fuori dal circuito delle strutture pubbliche, anche se nel rispetto delle indicazioni e dei limiti temporali contemplati dalla legge. A questo si potrebbe aggiungere un ulteriore deterrente sanzionatorio, stavolta a carico della struttura privata dove si è materialmente compiuto l’illecito, fino al ritiro delle autorizzazioni all’esercizio e alla chiusura di ogni attività sanitaria. Primancora, tuttavia, è da considerare che il rischio di illeciti sarebbe minimo nel caso di strutture private convenzionate, praticamente uguale a zero nel caso in cui la concessione della convenzione preveda che le interruzioni volontarie di gravidanza siano assicurate dalla carta di servizio.
In quanto alla seconda soluzione, suppongo si sollevi la questione della gestione organizzativa del comparto fino all’ottenimento del ricambio di personale. Anche qui penso si tratti di un problema facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, c’è da supporre che il fenomeno dell’obiezione di coscienza abbia a trovare un drastico ridimensionamento dinanzi alla scelta imposta ai ginecologi che operano in strutture pubbliche. Avanzo dubbi sulla genuinità dell’imperativo etico che li induce all’obiezione di coscienza? Avranno modo di smentirli decidendo di dedicarsi alla libera professione. D’altro canto, il ricambio sarebbe progressivo e non impatterebbe eccessivamente sulle carriere professionali dei ginecologi obiettori, consentendo peraltro uno svecchiamento delle piante organiche, immobili da decenni.
Nulla, ovviamente, potrà impedire che un nuovo assunto divenga obiettore dopo l’assunzione, ma anche qui sarà possibile minimizzarne le conseguenze con meccanismi di natura retributiva che scoraggino il prepensionamento: non sarà da intendere come misura ritorsiva perché indotta da ragioni legate esclusivamente allefficienza di un servizio, né sarà una tragedia perdere il posto fin lì occupato in una struttura pubblica con una liquidazione e una pensione di entità irrisorie a fronte di aver dato sollievo a un assillo d’ordine morale, potendo peraltro continuare ad esercitare nel privato. Perché su una cosa credo occorra intendersi: quando la propria coscienza è in attrito anche indiretto con le leggi dello stato, si ha il diritto di darle ristoro nel modo che meglio si ritiene, ma senza poter pretendere che tale ristoro sia a carico della comunità che nel suo insieme è tenuta al rispetto formale e sostanziale delle leggi dello stato. Si può considerarle ingiuste, ma occorre si paghi un prezzo personale alla decisione di osteggiarle col sabotaggio.
Questo ovviamente vale anche per i farmacisti obiettori che si rifiutino di fornire i farmaci per la contraccezione di urgenza ai clienti che ne facciano richiesta dietro prescrizione medica: liberi di farlo, ma rinunciando al convenzionamento col sistema sanitario pubblico. Nessuno ti obbliga alla carriera militare, ma se la scegli, e la Costituzione vede riforma dell’art. 11, e il Parlamento decide di entrare in guerra, hai solo due possibili scelte: dimetterti per tempo dall’esercito o dichiararti disertore e assumertene la piena responsabilità. Nessuno ti vieta di essere un Testimone di Geova, ma questo non ti dà diritto, da medico, di rifiutare una trasfusione a chi stia crepando per una emorragia.     
Mi pare sia chiaro che qui ho messo sullo stesso piano due esigenze cui penso sia opportuno dare lo stesso peso: la libertà del ginecologo di praticare o meno interruzioni volontarie di gravidanza e l’obbligo dello stato di assicurare che una sua legge sia applicata a dovere. Personalmente penso abbiano peso diverso, ma da legislatore in erba mi sono imposto un profilo equanime. 

mercoledì 25 giugno 2014

Tentare di salire sul carro del vincitore


Tentare di salire sul carro del vincitore quando già è affollato può rivelarsi operazione estremamente ardua e a rischio di mortificanti frustrazioni, ma basta avere avuto in dote dalla natura il quanto basta di faccia tosta a compensare il quanto manca di decoro per non scoraggiarsi, ritentare, e ritentare ancora, anche se una volta sbagli l’aggancio e finisci a mordere la polvere, un’altra ci riesci ma chi sta sopra ti pesta le nocche e un’altra ancora ti stendi davanti al carro sperando che si fermi per non travolgerti, così da approfittarne per guizzarvi sopra, ma quello non frena – si sa che la vittoria corre – e ti arrota: se ti interessa salire lì sopra, metti da parte ogni rispetto per te stesso, fregatene del disprezzo che ti pioverà addosso se riesci nell’impresa, e ancor più del disprezzo se fallirai, e insisti, a dispetto di tutto ciò che ragionevolmente dovrebbe farti disperare di riuscire, anzi, nei limiti di ciò che ti è possibile, fai in modo di lasciar credere a chi guida il carro che averti a bordo gli tornerebbe utile, mentre lasciarti a terra sarebbe un’occasione persa e in fondo pure un’ingiustizia: vanta di aver sempre creduto in lui, esagera in lodi ma non far mancare qualche critica, che però abbia il tono dell’esortazione, e soprattutto millanta doti che non hai, gonfia il curriculum con accorta cura degli aggettivi e degli avverbi, abusa senza pudore di eufemismi e reticenze, glissa su quanto sarebbe motivo di imbarazzo, sennò rivoltalo a dovere per dargli un aspetto decente: insomma, fai come Mario Adinolfi fa da mesi con Matteo Renzi, e non demordere: ti rideranno addosso ad ogni tentativo andato a vuoto, ma a te che importa? O a bordo o nella merda: hai 43 anni, hai rotto il cazzo a mezza Italia col ricambio generazionale e, quando finalmente arriva, corri il serio rischio – più del serio rischio: praticamente la minaccia – di finire nel mucchio degli scarti inservibili: è l’ultima occasione, poi da controversa macchietta da avanspettacolo della politica blaterata sarai declassato a triste fetecchia da talk show di quart’ordine per la miseria di un gettone di presenza, e sarai costretto a contendertelo con un’Alba Parietti o una Flavia Vento, sennò ad arrotondare per bische. Il mondo è crudele e non riesce a cogliere la tragedia personale dietro il comico affanno a non uscire definitivamente dal cono di luce ai cui margini sei aggrappato a dispetto di una ormai irresistibile forza centrifuga: non mollare, non risparmiarti nel metterci la faccia, non farti scrupolo se a tutti sembra in tutto uguale al culo. Può darsi che Matteo Renzi abbia dimenticato la stratosferica figura di merda che gli facesti fare all’indomani delle primarie che perse, quando da furbacchione seppe fare un passo indietro, mentre tu ne facevi uno in avanti e chiedevi a suo nome il Ministero delle Comunicazioni. Può darsi si sia distratto e non rammenti più che uscisti dal Pd per rincorrere l’evanescente miraggio di Scelta civica e per elemosinare il rientro solo dopo aver acchiappato il seggio alla Camera da primo dei non eletti recuperato a fine legislatura. Al Berluschino non fa difetto una faccia rotonda come la tua, quindi è possibile comprenda, chiuda un occhio, voglia fare un’opera di bene e ti prenda a bordo – in fondo sei la negativa del fallimento che il suo azzardo gli ha consentito di schivare, può darsi ti dia uno strapuntino con lo stesso animo grato con cui si accende un cero alla Madonna – e dunque non desistere: ne va della tua vita, e poi, in fondo, torni buono anche come cattivo esempio. Io, per esempio, al mio Michele, che pure è ancora troppo piccino per capire, già l’ho detto: prova a diventarmi una roba simile e ti spezzo le gambe. 

martedì 24 giugno 2014

Sine ira ac studio


Perché portiamo bottoni sulle maniche delle giacche? La questione è controversa. C’è chi sostiene che l’idea sia venuta a Elisabetta I d’Inghilterra per dissuadere i suoi soldati dalla pessima abitudine di smoccolarsi strofinando il naso sul dorso dell’avambraccio, ma esistono versioni alternative, anche se in tutto analoghe, che ne attribuiscono la paternità a Horatio Nelson, a Napoleone Bonaparte, ecc. Tesi suggestive, se non fosse che bottoni sulle maniche delle giacche si osservano già in molti dipinti della seconda metà del Quattrocento.
Più verosimile, come sostengono altri, che proprio in quel periodo vengano a sostituire le fettucce di stoffa che fin lì chiudevano ai polsi le maniche, come si osserva in molti personaggi ritratti da artisti del Duecento e Trecento (talvolta in numero di due o di tre, dal gomito al polso) evitando che queste fossero d’impaccio quando slacciate e semplificando di molto l’operazione di riannodo, che i bottoni consentono con una sola mano.
Di certo c’è che l’uso pratico divenne nel giro di uno o due secoli puramente decorativo, e tale rimane oggi, anche se per fattura e materiali usati i bottoni alle maniche delle giacche non sono più oggetti di lusso, come lo furono nel Seicento e nel Settecento, fatta eccezione per l’argento e l’oro che ancora il blazer classico contempla.
Con la crisi della sartoria artigianale e il trionfo dell’abito in serie, non è più il bottone, ma l’asola, a segnalare una residua preziosità della manica: quella dozzinale non ne ha e i bottoni vi sono appuntati a tutto spessore, a differenza della giacca che conserva qualche pretesa di capo di lusso, sulla cui manica ad ogni bottone corrisponde un’asola e il dettaglio è spesso messo in risalto col lasciarne disimpegnata l’ultima.
Bene, a me pare che la questione dell’immunità parlamentare abbia molte analogie con quella dei bottoni sulle maniche delle giacche. Impossibile negare che l’istituto sia stato introdotto per valide ragioni, ma è altrettanto innegabile che oggi sia decaduto a mera decorazione o, peggio, a rappresentazione di un lusso inutile.
So bene che c’è chi non riuscirebbe mai a rinunciare ai suoi tre o quattro bottoni sulla manica. A me sembra che non abbiano alcuna ragion d’essere, ma cerco di capire a cosa gli servano.
«L’immunità parlamentare – dice – sta nella Costituzione italiana dal 1948. Non basta, si potrebbe tornare ancora più indietro: all’epoca medievale, per esempio, e alle prerogative riservate ai membri dei parlamenti in ragione della loro alta funzione. Non c’era ancora la democrazia, non c’era ancora il suffragio universale, non c’era ancora il costituzionalismo, e però si poneva comunque il problema di come tutelare i componenti delle assemblee elettive. Questa tutela si chiamava allora e si chiamerà in seguito – udite udite – “privilegio parlamentare” […] La parola racconta la lunga storia con cui le istituzioni parlamentari si sono fatte largo contro la prevaricazione di altri poteri, conquistando uno spazio giuridico protetto, a tutela della insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio della funzione parlamentare, e per frapporre un impedimento (entro certo limiti e condizioni) alla sottoposizione a procedimenti penali, o all’arresto, o ad altre misure restrittive, di un rappresentante del popolo» (l’Unità, 24.6.2014). Benissimo, ma queste condizioni persistono? 
La risposta è ellittica: molto, molto ellittica. «È innegabile che di privilegi e immunità parlamentari si parla da che esistono i parlamenti, e dunque qualunque riscrittura della Costituzione è chiamata ad affrontare la questione. Solo che bisognerebbe farlo “sine ira ac studio”».
Convengo, e sine ira ac studio, rinunciando a sospettare che l’asola apra alla sòla, chiedo perché a tutela della insindacabilità delle proprie opinioni non possa bastare, e per tutti, il primo comma dell’art. 21 della Costituzione. Chiedo quale sia la norma penale attualmente vigente che sanziona i voti espressi nell’esercizio della funzione parlamentare. Chiedo quale sia il reato per il quale sarebbe giusto o almeno opportuno che chi l’ha commesso sia perseguibile, se comune cittadino, e no, se deputato o senatore. E nell’articolo non trovo risposte. 



lunedì 23 giugno 2014

Bergoglio scomunica i mafiosi, lalléro, lallà


Non c’è bisogno di credere in un dio per esprimere una motivata condanna morale della criminalità organizzata, tanto meno di quel dio al quale tanta criminalità organizzata è devotissima da sempre. «Quello che mi ha colpito nella mia frequentazione dei mafiosi – scriveva qualche tempo fa Roberto Scarpinato – è l’avere constatato che si tratta in moltissimi casi di cattolici credenti e praticanti, e non c’è simulazione […] Come è compatibile – si chiedeva – il fatto che questi uomini uccidono, sono mafiosi, eppure sono in pace con se stessi e con Dio? La conclusione a cui sono arrivato è che in realtà non pregano lo stesso Dio, pregano un Dio diverso. Pregano un Dio diverso, perché nella cultura cattolica il rapporto tra il singolo e Dio è gestito da un mediatore culturale: ciascuna articolazione sociale esprime dal suo interno un mediatore. E così abbiamo i sacerdoti della mafia e i sacerdoti dell’antimafia […] Il mafioso ha un rapporto con Dio che non è conflittuale perché il mediatore con Dio che lui stesso sceglie è espressione della sua stessa cultura. Vi sono delle chiese che sono piene, la domenica, del popolo di mafia, dove ci sono dei sacerdoti che mediano il rapporto con Dio in modo da eliminare qualsiasi attrito e qualsiasi frizione». Ora, che un papa scomunichi i mafiosi in quanto mafiosi, i camorristi in quanto camorristi, eccetera, sembrerebbe essere evento degno di nota, perché il «mediatore culturale» fin qui connivente si troverebbe di fatto ad essere delegittimato nel «mediare il rapporto» tra Dio e il mafioso in quanto mafioso, il camorrista in quanto camorrista, eccetera. Sembrerebbe, insomma, un gesto destinato a metter fine per sempre a quella connivenza tra ministri del culto e uomini appartenenti a questa o quella organizzazione criminale che non ha mai mancato di offrirsi come paradosso dalle pagine di cronaca. Gesto che lo stesso Roberto Scarpinato evocava come risolutore: «Fino a quando la Chiesa cattolica non denuncerà in modo inequivocabile che certi comportamenti non sono compatibili col Vangelo – scriveva – potremo dire che c’è qualcosa che continua a non funzionare nei fatti». E dunque, con la scomunica di Bergoglio, i fatti cominceranno a funzionare? Più di un dato ci spinge ad essere scettici, a cominciare da quello che lo stesso Roberto Scarpinato metteva in evidenza: «La Chiesa ha la struttura ordinamentale di una monarchia assoluta, basata sulla gerarchia e sull’obbedienza […] Io credo che non si possa fare un discorso di liberazione degli altri se l’istituzione che lo fa non si nutre di una profonda ed autentica democrazia interna. Mi pare vi sia una contraddizione in termini». Personalmente andrei anche più in là, direi che le analogie tra la Chiesa cattolica e l’organizzazione criminale di stampo mafioso sono innanzitutto di tipo antropologico, ma qui non voglio approfondire questo aspetto, sul quale d’altronde mi sono già intrattenuto in altre occasioni: vorrei limitarmi a considerare la portata della scomunica comminata da Bergoglio.
Innanzitutto occorre considerare che non può essersi trattato di una scomunica latae sententiae: non sarebbe stato necessario emetterla, perché automatica, dunque avente già effetto; d’altronde i casi in cui essa è prevista non sono in alcun modo adattabili alla condizione di appartenente ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso. Ad excludendum, deve essersi trattato di scomunica ferendae sententiae, e nessun problema si porrebbe se non fosse che i casi in cui essa è contemplata non sono tra quelli che costituiscono lo specifico dell’attività criminale di stampo mafioso, tanto meno quello della semplice appartenenza ad un’organizzazione del tipo in oggetto. È vero che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha dato authentica interpretatio del can. 1374 del nuovo Codice di Diritto Canonico indicando come valido motivo di scomunica la semplice appartenenza alla Massoneria, ma tale parere non è mai stato esteso alla semplice appartenenza ad un’organizzazione criminale, sicché la sanzione rimane applicabile solo a una persona fisica, non a un organizzazione nel suo insieme. In teoria, sarebbe possibile rimuovere questo ostacolo, ma la modifica dovrebbe passare per decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede o per editto pontificale motu proprio, di cui al momento non si ha notizia, né annuncio. Sorge il sospetto che Bergoglio abbia voluto, e per l’ennesima volta, mietere simpatie a costo zero, come quando si produce in quelle soffici banalità spolverate con zucchero a velo che deliziano i palati grossolani. Ben più efficace sarebbe stata una scomunica a tutti i religiosi in varia misura conniventi coi pesci grandi, medi e piccolini delle cosche: per una scomunica del genere ci sarebbero stati gli estremi a norma del Codice del Diritto Canonico, e gli effetti sarebbero stati davvero dirompenti. Poi, certo, avrebbe significato lasciare enormi territori della Sicilia, della Calabria e della Campania sguarniti di preti… Meglio spararla grossa e insignificante, tanto più adesso che mafia, camorra e ’ndrangheta attraversano un periodaccio e non possono permettersi di sparargli un colpo di bazooka in culo.     

venerdì 20 giugno 2014

Di dadi e di bulloni


Solo in apparenza v’è contraddizione tra la lode del creato che il cattolico sussume in quella del creatore e la rozza, sguaiata e deprimente idea di «natura» in cui è sussunto ciò che egli ritiene «naturale», perché il disprezzo della carne è in fondo l’unico modo che egli ha per farsi convinto di avere un’anima, sicché non deve stupire che al fondo di ogni riaffermazione di ciò che egli ritiene «naturale» su ciò che ritiene «contro natura» vi sia la sordida trivialità che immiserisce il corporeo a materia inorganica.
Un esempio davvero illuminante di questa tetra dimensione in cui il cattolicesimo ritiene di poter rinchiudere il corporeo ci è offerto da un post con cui Berlicche ritiene di offrirci prova inoppugnabile di quanto l’eterosessualità sia «naturale» e l’omosessualità sia «contro natura», col ridurre il maschio a bullone e la femmina a dado: illuminante perché rivela che la complementarietà che rende coppia due individui, in fondo, starebbe tutta in un buco da riempire.
Non è improbabile che anche qualche gay possa essere d’accordo. In quanto alle lesbiche, ce ne sono alcune che nel comodino hanno dei dildo che nella vagina della moglie di Berlicche si avviterebbero assai più saldamente di quanto egli riesca a fare col suo bulloncino. In buona evidenza, direi che anche stavolta siamo all’infortunio argomentativo di chi presume di aver confezionato un efficace espediente didascalico che in realtà torna buono solo a costruire un’oscena barzelletta da caserma. 




martedì 17 giugno 2014

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Nei mesi in cui Michael Schumacher è stato in coma, c’è stato chi ha parlato dell’eventualità di sospendere i trattamento terapeutici che lo tenevano in vita o prospettato, anche solo in ipotesi, l’opportunità di un intervento eutanasico attivo? Familiari? Amici? Colleghi? Conoscenti? Fan? Non mi risulta, né mi risulta che in tal senso si siano espressi i medici che lo hanno tenuto in cura, né quelli a vario titolo chiamati a esprimersi sul caso. Sarà che solo oggi recupero la gran parte di ciò che è stato scritto sulla vicenda, dunque può darsi che qualcosa mi sia sfuggito, ma neppure mi risulta che una sola voce nell’opinione pubblica nazionale e internazionale si sia levata a ventilare soluzioni del genere, né in esortazione, né in auspicio, neppure a fronte del fatto che col passare delle settimane prendeva sempre maggior consistenza il timore che le conseguenze dell’incidente fossero destinate ad esitare in danni seri e permanenti, timore che d’altronde è parso fin da subito realisticamente fondato. E allora – chiedo – come cazzo salta in mente a Nicoletta Tiliacos di prendere occasione dalla vicenda di Schumacher per biasimare gli «sguardi [che] giudicano inadeguat[o] a garantire una vita “degna di essere vissuta”» il solo parziale recupero delle funzionalità neurologiche che per lui si prospetta ora che è uscito dal coma? Chi guarda non fa altro che proiettare su sé stesso le condizioni in cui versa il pilota di Formula 1, sicché il giudizio se una siffatta vita sia degna o no di essere vissuta attiene a sé solo: Schumacher si offre come mera occasione di una riflessione tutta personale, non già come problema sul da farsi. In buona sostanza, siamo alla differenza posta tra chi ritiene che in queste situazioni ciascuno abbia il diritto di poter decidere per sé stesso – Schumacher compreso, se ha provveduto a lasciare disposizioni al riguardo, o chi per lui – e chi, al contrario, pretende che la propria scelta debba avere valore cogente per tutti, e questo con una significativa rilevanza sul piano morale: chi non ritiene degna di essere vissuta una vita in tali condizioni di affliggenti impedimenti psicofisici mai si sognerebbe di imporre ad altri la propria scelta eutanasica, al contrario di chi invece la ritiene degna in ogni caso, e che spesso – troppo spesso – esige ciò valga per tutti.
Ma dov’è la notizia che consente alla Tiliacos di insinuare che un’imposizione del genere sarebbe lecita o addirittura necessaria? È presto detto: «Michael Schumacher si è svegliato dal coma, comunica con la moglie e i figli, “mostra momenti di coscienza e di risveglio”, come dice la sua manager, e ha lasciato l’ospedale di Grenoble, dove era ricoverato da dicembre, per una fase, “che sarà lunga”, di cura e di riabilitazione in una struttura di Losanna» (Il Foglio, 17.6.2014). Bene, ma dov’è la contraddizione con quanto ha detto alcuni giorni fa «Gary Hartstein, l’anestesista americano fino al 2012 delegato medico della Formula 1», che pure «non parla per conoscenza diretta ma, dice, interpreta i fatti»? Ha detto che «sei mesi di coma non fanno sperare niente di buono», che la sola novità è «che le sue condizioni sono diventate abbastanza stabili da permettere un trasferimento» e che comunque nessuno può assicurare che «Schumacher potrà tornare “a esprimersi e che lavorerà duramente per stare meglio o che dovrà nuovamente imparare a camminare, leggere, scrivere”»: dov’è la contraddizione col fatto che il pilota è semplicemente uscito dal coma? Si badi bene: Hartstein non si è mai augurato che Schumacher morisse, né esprime questo augurio ora, né ha mai ha suggerito fosse meglio lasciarlo morire, tanto meno sollecita o ha sollecitato un intervento eutanasico attivo, e nemmeno si azzarda a dire che al posto di Schumacher la sua scelta sarebbe in tal senso. E tuttavia sembra che a disturbare la Tiliacos basti il suo realismo, cui in pratica ella rimprovera di non voler concedere che «l’inaspettato può sempre accadere». Pur rilevando che sulla base delle affermazioni di Hartstein tale rimprovero è palesemente immotivato, ancora si potrebbe comprenderlo se egli avesse mai affermato che il coma in cui versava Schumacher fosse da considerare irreversibile, ma questo non l’ha mai fatto: si è sempre e solo limitato a constatare ciò che è ampiamente documentato sul piano prognostico. È questo che in fin dei conti sembra infastidire la Tiliacos, alla quale piace immaginare che «attorno a certi letti non si giocano solo lunghe partite tra la vita e la morte, ma anche lunghe battaglie tra visioni del mondo, e quindi della vita e della morte».
Battaglie da combattere sulla pelle di chi vi è steso dentro, tra chi è disposto a riconoscergli il diritto di autodeterminazione e chi invece è fermamente intenzionato a negarglielo, opponendogli il dovere di sopravvivere, e a qualsiasi prezzo. Non è tutto, perché a far forte questo dovere interverrebbe un imperativo etico che è la negativa della proiezione di chi prende a spunto il caso di Schumacher per dire che al suo posto preferirebbe morire: «La differenza [tra chi pensa che ciascuno abbia il diritto di decidere per sé e chi pensa che tutti abbiamo il dovere di rinunciarvi] la fa lo sguardo delle persone care, famigliari e amici, ma anche del “pubblico”, se pubblico è il personaggio, come lo sono un grande campione sportivo [Michael Schumacher], un politico simbolo del suo paese [Ariel Sharon], una giovane donna americana [Terry Schiavo] e una italiana [Eluana Englaro] diventate oggetto di uno scontro di civiltà». Uno scontro di civiltà che, a ben vedere, è tra la civiltà che dichiara la sovranità dell’individuo sul proprio corpo e sulla propria mente e la barbarie che la nega. Superfluo rilevare che la sgangherata sofistica della Tiliacos è al servizio di quest’ultima.

lunedì 16 giugno 2014

Del tutto naturale che sulla bancarella di libri vecchi il Principio di una logica della vita morale di Maurice Blondel stia accanto al trattato di malattie infettive dato alle stampe prima della scoperta degli antibiotici: qui i mercuriali per la lue, lì l’αντιφασις come «simbolo inadeguato» della στερησις. 

Fino a Bartolomé de Las Casas, la cosa è data, ma non cerca e non trova spiegazione: «Nulla subiectio, nulla servitus, nullum onus unquam impositum fuit, nisi populus qui subiturus illa onera erat, impositioni eiusmodi voluntarie consentiret» (De Regia Potestate, § 4.1). Poi arriva Étienne de La Boétie.

«Ci vogliono sessant’anni d’incredibile fatica e sofferenza per creare una simile persona, che però è buona solo per morire, ormai». Detto da André Malraux nel 1933, quando la vita media era appunto di sessant’anni o giù di lì. Se la condition humaine è sempre uguale a se stessa, la quantità di fatica e sofferenza necessaria a creare una persona buona solo a morire – inesorabilmente – cresce.

D’un tratto m’assale la nostalgia di Luigi De Marchi.

Vacca fa a Togliatti lo stesso servizietto che Togliatti fece a Gramsci: pubblica il pubblicabile. 

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Non c’è da stupirsi che l’avventura brasiliana della nostra Nazionale non abbia ancora messo in moto la macchina propagandistica di Palazzo Chigi. Se infatti un’eventuale vittoria dell’Italia ai Mondiali sarebbe senza dubbio destinata a rappresentare una ritrovata capacità di credere in se stessi che gli italiani dovrebbero all’aria nuova che si respira da quando Matteo Renzi è capo del governo, l’investimento propagandistico che dovrà rendere cogente questa relazione non può che essere rimandato a quando sia possibile escludere una pessima figura da parte della squadra. Questo spiega la prudenza che ha consigliato di evitare anche una tiepida esultanza alla vittoria dell’Italia sull’Inghilterra: il risultato non assicura la qualificazione e, dopo aver creato anche un tenue link tra il team di Prandelli e quello di Renzi, un inglorioso ritorno a casa dopo due eventuali sconfitte col Costarica e coll’Uruguay si offrirebbe da micidiale metafora di una vacua illusione abortita in cocente figura di merda. C’è da presumere che almeno fino a venerdì Renzi e i suoi continueranno a far finta che i Mondiali non si stiano neanche disputando, per continuare a tacere se l’Italia perderà o otterrà solo un pareggio; in caso di vittoria, invece, dovrebbe essere abbastanza sicuro almeno il secondo posto nel girone C, dunque il passaggio agli ottavi di finali, e allora qualcuno tra gli uomini più vicini a Renzi – un Luca Lotti, per esempio – comincerà a tessere le dovute suggestioni, per farle diventare sempre più sfacciate nel caso in cui l’Italia arrivi a superare i quarti di finale. Lì c’è da attendersi che Renzi indossi la maglia azzurra, s’intesti il merito dei goal fatti e dei rigori parati, e per le semifinali voli in Brasile per prodursi nel numero che meglio gli riesce: pretendere di avere partita vinta perché fin lì ha avuto il 40,8% di possesso palla.       

Quando c’era Togliatti

Tra due mesi ricorre il 50° della morte di Palmiro Togliatti e già si riapre la discussione sulle miserie e gli splendori  della sua figura, secondo i punti di vista. Fin troppo ovvio che il passato si offra come pretesto per parlare del presente, tanto più adesso che la cosiddetta morte delle ideologie spinge i suoi orfani – orfini e affini – a cercare antecedenti nobili al cinismo e all’opportunismo, alla doppiezza e alla spregiudicatezza, del Migliore che gli tocca avere a leader. Operazione complicata, per certi versi dolorosa, e soprattutto a rischio di infortunio. Così per un articolo di Francesco Cundari sull’ultimo numero di Leftwing. Mi ero posto in mente di commentarlo su queste pagine, poi ha vinto la sintesi. 

domenica 15 giugno 2014

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Prima riunione del Gran Consiglio del Fascismo dopo le elezioni del 1929

sabato 14 giugno 2014

Se dico

Se dico che i tuoi argomenti sono zoppicanti, che la tua passione è febbricitante, che il tuo fare è convulso, oltre ad offendere te, offendo anche chi è portatore di patologie che sul piano sintomatologico si manifestano con zoppia, febbre e convulsioni? Se sottovaluto il tuo fiuto e dico che i tuoi guadagni in Borsa sono dovuti solo ad una fortunata serie di colpi gobbi, oltre a deprezzare i tuoi meriti, faccio offesa anche a chi soffre di cifoscoliosi severa? Se per accusarti di essere ostinatamente insensibile a una questione, dico che da quell’orecchio non ci senti, mostro a mia volta insensibilità verso i soggetti affetti da ipoacusia? È moralmente inaccettabile, insomma, l’uso della figura retorica che mutui significato dalla valenza analogica, metaforica o allegorica offerta da una condizione clinica? Parrebbe lo sia, ma solo per alcune condizioni cliniche. Nei casi sopra esposti, per esempio, sarà difficile che insorgano le associazioni che tutelano i diritti degli epilettici, dei rachitici e degli ipoudenti, e se dico che quel progetto è folle o che quel ragazzino è pestifero, sarà difficile che qualcuno mi rimproveri di aver mancato di rispetto a chi soffre di disturbi psichiatrici o a chi lotta la sua battaglia per la vita contro quel tal ceppo di Pasteurella o di Yersinia. Così, di un tizio potrò dire che ha reazioni isteriche o che la sua sospettosità è paranoica senza dovermi aspettare lamentele se non da lui, ma guai a dargli dell’autistico per significare la sua chiusura alle ragioni altrui. Trovare una risposta a questa incomprensibile disparità di atteggiamento è arduo, e a cercarla si arrischia. 

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La cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la politica, la cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne in evidenza alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura mascherati dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete di questa o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un partito in una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare un narrato personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in grado di surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico che fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo elettorale sia stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa di rappresentare a quello estetico sul quale la persona del leader oggi pretende di ritagliare l’hortus conclusus di una storia – la sua – come rappresentazione di un’unità di intenti. In altri termini, diremmo che l’appiattimento di un partito sulla persona del proprio leader è la continuazione del culto della personalità con altri mezzi: dalla figura di Augusto, che esprime una visione dell’impero come progetto, si arriva a quella di Eliogabalo, che la immiserisce a performance.
A Eliogabalo, tuttavia, occorre rammentare che sarà trucidato, trascinato per strade ribollenti di rabbia, fatto a pezzi e buttato nella Cloaca Maxima. Facesse meno lo stronzetto, anzi, esagerasse, esagerasse pure: se non si è Augusto, non resta altro. 

giovedì 12 giugno 2014

Pastorale per l’infanzia

«Collaboratori di Dio, voi avete sui figli un’autorità che non viene dalla legge, né dallo stato, né dalla tradizione, ma da Dio stesso. Questa autorità assumerà una espressione differente, man mano che il bambino cresce; potrete anche delegarla, ma non potrete mai abbandonarla completamente finché il fanciullo non sia diventato adulto. Bisogna sostenere arditamente che per educare un bambino è necessario esercitare su di lui un’autorità ed esigere da lui ubbidienza. Il fanciullo al quale “si lascia fare”, sotto pretesto di rispettare la sua libertà, rischierebbe fortemente di diventare un essere malvagio, contro il quale in seguito si dovrebbe impiegare, per difendersi, la forza bruta. […] Volete che i figlioli vi ubbidiscano? Convinceteli fin da piccoli che un ordine e un desiderio di papà o di mamma non debbono soffrire ritardo alcuno nell’esecuzione. Quando un piccolo non ubbidisce, pensate che ciò non è colpa sua, ma dei genitori. Un bambino, che avrà acquistato l’abitudine a ubbidire al primo comando, non avrà neppure l’idea che si possa disubbidire ai genitori. Ripetere due volte lo stesso ordine è prova di debolezza e inizio di perdita d’autorità. […] Se la cosa è grave e importante, state attenti affinché il bambino ubbidisca subito senza mormorare, senza smorfie e senza quelle lentezze e quei sotterfugi a cui molti genitori lasciano che si abituino a poco a poco i loro bimbi e che diventano così difficili da correggere verso l’età di quattordici o quindici anni. […] Prendete i mezzi che crederete più opportuni per influire sullo spirito del bambino, ma ad ogni costo fatevi ubbidire. […] Fino ai due anni l’ubbidienza del piccolo non può essere che passiva. La madre deve sforzarsi a preparare il suo figliolo e formare in lui dei buoni automatismi e felici associazioni, che genereranno buoni comportamenti. Dai tre anni e anche prima, seguendo lo sviluppo intellettuale, l’ubbidienza deve incominciare a essere attiva; ma una cosa è certa ed è che da uno ai sette anni il fanciullo passa per tre tappe di ubbidienza: ubbidire perché lo vogliono, sapere ubbidire perché bisogna, voler ubbidire per necessità ed interesse. A sette anni il subconscio del fanciullo deve essere mobilitato in tutta la sua ricchezza con tutti gli automatismi, fisici, intellettuali e morali; in altre parole: i giochi devono essere fatti e ben fatti. […] Quando si comanda qualcosa al bimbo bisogna sapere con chiarezza ciò che si vuole e volerlo fermissimamente. Il fanciullo capisce istintivamente e subito, dal tono della voce, l’importanza reale che si da a ciò che gli si comanda…»

Chiudi il volume di pastorale per l’infanzia, apri Avvenire e leggi:


Sei personcina troppo educata per mandare a fare in culo l’autorevole prelato che l’ha detto, ma fai un’eccezione, e ce lo mandi. 

«Vedendo come vanno le cose»


Riparato a Lugano, in precipitosa fuga dal ducato estense, Antonio Panizzi scriveva: «Vado in Francia o Spagna e vivrò povero, onesto e liberale. Me ne rido, io, della porca Fortuna: io farò disperar Lei, non Lei me». Lo scriveva sul finire del 1822 e di lì a qualche mese avrebbe scelto l’Inghilterra, per Liverpool e poi Londra, dove in breve sarebbe diventato il ricercatissimo conferenziere che sul Rinascimento italiano incantava sale stracolme, finendo per assumere la direzione del British Museum. Finirà i suoi giorni nel 1879, a 84 anni, appagato e sereno tranne che nell’inestinguibile odio per «quel frate porco di Pietro Giordani» che lo aveva segnalato come carbonaro costringendolo all’esilio. Sull’Italia, che intanto conquistava l’unità, non si faceva troppe illusioni, e anzi disperava. Lo fecero senatore nel 1868, e tornò, guardò, e scrisse: «Mi vergogno d’essere italiano vedendo come vanno le cose… Vanitas vanitatum et omnia vanitas». Un caratteraccio, il Panizzi: collerico, sboccato, un fondo umbratile, un’insaziabile sete di giustizia, del tutto incapace di chiudere un occhio e con l’altro vedere il buono che c’è anche nel peggio del peggio, volendolo trovare. Ecco, potremmo dire che era uno di quelli che non vogliono trovarlo a tutti i costi, il buono che c’è anche nel peggio del peggio.
Non ho perfetta comprensione del come mi sia saltato in mente di parlare del Panizzi. Ero dinanzi alla pagina bianca e l’intenzione era di commentare la cronaca politica di queste ultime settimane. Da qualsiasi bandolo tentassi di sbrogliare il gomitolo, la voglia era di tirare, strappare o lasciar perdere. Allora ho pensato a quel tale che con proficua saggezza rampognava gli intransigenti che «non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno». Chi sono io - mi son detto - per mandarlo a cagare? E allora mi è venuto in soccorso il Panizzi. 
    

   

Brazil 2014