Twitto
poco, per lo più d’istinto, e quasi sempre pentendomi subito di quello che ho
twittato, perché in 140 battute spazi inclusi raramente si argomenta a dovere,
e senza argomentare a dovere ogni scambio di opinioni scade inevitabilmente in
battibecco, che spesso le livella, indebolendo quelle forti e irrobustendo
quelle deboli. Così mi pare sia accaduto ieri.
In
un confronto come si deve, ammesso e non concesso che con un @marioadinolfi ne valga la pena, avrei
dovuto far presente che nessun «bimbo»
era stato «obbligato ad avere due “mamme”».
Innanzitutto, si trattava di una bimba. Questa precisazione, però, l’avrei
lasciata in coda, sollevando una questione solo in apparenza marginale: quanto
di proiettato c’è nel «bimbo» che un @marioadinolfi immagina «obbligato ad avere due “mamme”»? Per
meglio dire: cos’è che autorizza chi trova insopportabile questa sentenza a
mettersi nei panni del minore per dichiararsene insoddisfatto, anzi, per
dirsene penalizzato, e pesantemente, giacché la soluzione sarebbe contro «natura»? Più esplicitamente ancora: non
è un’indebita assunzione di paternità da parte di chi in ogni caso ne ha assai
meno diritto rispetto a una delle due mamme, quella biologica non meno di chi si arroga il diritto di parlare in nome della «legge» e della «natura»?
Ma questo, dicevo, l’avrei
detto solo alla fine. Sarei andato subito al testo della sentenza, nella quale
si legge che la bimba «è nata e cresciuta
con la ricorrente e la sua compagna, madre biologica della bimba, instaurando
con loro un legame inscindibile che, a prescindere da qualsiasi
“classificazione giuridica”, nulla ha di diverso rispetto a un vero e proprio
vincolo genitoriale. Negare alla bambina i diritti e i vantaggi che derivano da
questo rapporto costituirebbe certamente una scelta non corrispondente
all’interesse della minore […] Non si tratta di concedere un diritto ex novo,
creando una situazione prima inesistente, ma di garantire la copertura
giuridica di una situazione di fatto già esistente da anni, nell’esclusivo interesse
di una bambina che è da sempre cresciuta e stata allevata da due donne, che
essa stessa riconosce come riferimenti affettivi primari, al punto tale da
chiamare entrambe “mamma”». Né in oltraggio alla «legge», dunque, né contro «natura».
Ripensandoci, tuttavia, tutto questo si poteva sintetizzare in 140 battute spazi inclusi, chessò, «leggi il testo della sentenza, coglione», ma non sarebbe stato ancora più ellittico? No, è il mezzo che non va bene, è Twitter che non è adatto al fine.