Nella
lettera dedicatoria «al molto illustre e
valoroso signore il signor Giovanni de’ Medici» (meglio noto come Giovanni
delle Bande Nere) che Matteo Bandello fa precedere alla novella Messer Cocco e Domicilla si sfotte, e di brutto, «il nostro ingegnoso messer Niccolò
Macchiavelli» per aver dato prova, a sue spese, di «quanta differenza sia da chi sa, e non ha messo in opera ciò che sa, da
quello che oltra il sapere ha più volte messe le mani in pasta e dedutto il
pensiero e concetto de l’animo suo in opera esteriore», a illustrare che «sempre il pratico et essercitato con minor
fatica opererà che non farà l’inesperto, essendo l’esperienza maestra de le
cose, di modo che anco s’è veduto alcuna volta una persona senza scienza, ma
lungamente essercitata in qualche mestieri, saperlo molto meglio fare che non
saperà uno in quell’arte dotto ma non esperimentato»: era l’estate del 1526
e nei pressi di Milano «messer Niccolò
quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti
secondo quell’ordine che aveva scritto [nel suo Libro de la arte della guerra],
e mai non gli venne fatto di potergli ordinare», e «tuttavia egli ne parlava sì bene e sì chiaramente, e con le parole sue
mostrava la cosa esser fuor di modo sì facile, che io che nulla ne so mi
credeva di leggero, le sue ragioni e discorsi udendo, aver potuto quella
fanteria ordinare», fino a quando, «veggendo
che messer Niccolò non era per fornirla così tosto», «detto[gli] […] che si
ritirasse e lasciasse far a voi, in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini
ordinaste a quella gente in varii modi e forme, con ammirazione grandissima di
chi vi si ritrovò». Ennesima avvilente conferma – vi accennavo qualche
settimana fa – della «distanza che c’è
tra studio e mestiere [sicché] si
vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto non è affatto
vero, anzi, […] sconcerta, può arrivare a infondere sgomento, ma è di piana
evidenza che, almeno in certi campi, sia impossibile trasporre con qualche
profitto le regole che fanno il metodo della più perfetta scienza» (Malvino, 16.11.2014). Di questo mio
sconforto relativo al fatto che «è nella
più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni
di ciò che è da evitare», piuttosto che da seguire, si stupiva un lettore
(Romeo Sciommeri), il quale mi faceva presente che «di solito si scommette sulla grossolanità della scienza sociale
rispetto alla complessità del suo oggetto di studio»: in pratica, dovremmo
concludere che sia impossibile una qualsivoglia scienza sociale, con ciò dando
per scontato che le scienze sociali siano inassimilabili alle scienze naturali.
Per sostanziale differenza dell’oggetto o per inapplicabilità dello stesso
metodo? Torno un attimo al post cui ho fatto cenno prima, al punto in cui
liquido la questione – in verità, con una soluzione di comodo – scrivendo che «è nella più perfetta scienza politica che
la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare, perché
il miglior daffare raramente è un ottimo affare». Possiamo farcelo bastare
per concludere che quanto la scienza dà come ottimo non è mai tale rispetto a
ciò che l’arte giudica migliore? E in cosa, allora, l’arte del governare
risulta sempre vittoriosa sulla scienza politica? In altri termini – per riprendere
quelli che usavo qualche settimana fa – se «non
si è mai visto un grande economista diventare miliardario grazie a tutta la sua
scienza», bisogna dedurre che non c’è alcuna relazione tra l’arte di far
soldi e le teorie economiche? Ancora: com’è possibile che il consenso si
guadagni così spesso contro ogni ragione?
Lo scienziato della politica risponde che il rapporto tra teoria e fatti
diventa tanto più labile quanto più i fatti si carichino di intenzionalità, per
l’essere azioni di cui sono titolari individui o gruppi, e che è proprio questo
fattore a determinare quel contesto policondizionale in cui viene a perdersi la
prevedibilità che è propria del sistema entro il quale i fatti provano la
correttezza di una teoria; in più, ci dice che, per la loro natura, essi sono
ambigui, dunque difficilmente comprensibili, sia quando siano causa di ciò che
si è chiamati a prevedere, sia quando siano effetto che sembra smentire la previsione.
Resta la questione che avevamo lasciato aperta nei pressi di Milano nell’estate
del 1526: Giovanni delle Bande Nere la chiude sistemando le truppe dove Dio comanda e
invitando Machiavelli a pranzo, dove lo prega «che con una de le sue piacevoli novelle ci volesse ricreare».
lunedì 1 dicembre 2014
Il momento del riscatto
Ancora
mi brucia la figuraccia che ho rimediato col dar credito a una notizia che ha
cominciato a circolare in rete a maggio e che già a giugno tutti sapevano fosse
una bufala: rilanciata qualche giorno fa da Il
Mattino, l’ho ripresa senza sottoporla ad alcuna verifica e, anche se ho
espresso più d’una perplessità su quanto in essa «restava senza spiegazione», non m’ha neanche sfiorato il dubbio
che potesse averla partorita un buontempone.
Figuracce
del genere dovrebbero far riflettere, e io ci ho provato, ma ho dovuto constatare
che l’orgoglio ferito piegava la riflessione alla mera ricerca di attenuanti,
riuscendo pure a farmene trovare alcune assai spendibili, ma in fondo tutte un
pochino disoneste: mi era d’obbligo una verifica e l’avevo omessa, stop. Severo
con me stesso non meno di quanto lo sia col mio prossimo, eautontimorumeno, ho
condannato Malvino a due mesi di silenzio.
Anche questo, però, m’è sembrato un pochino disonesto: bloggare, alla lunga,
stanca, e approfittare di quanto era accaduto per il riposino che già da
qualche anno vado pensando di concedermi sarebbe stato come andarmene in
villeggiatura dandomi per carcerato.
Che
fare? Ho raccolto il suggerimento di diciottobrumaio: nessuna pausa, ma post rigorosi, seri, ineccepibili. E la
conferenza stampa che Bergoglio ha tenuto sull’aereo che lo riportava in Italia
dopo il suo viaggio in Turchia me ne dà la migliore occasione: non c’è stata,
vi hanno rifilato una bufala.
Sì,
lo so, ci sono centinaia e centinaia di siti che danno la stessa versione, fino
all’ultima virgola, di ciò che Bergoglio avrebbe detto, e c’è perfino un video
che sembrerebbe confermarlo in modo inoppugnabile. Tutto fasullo, si tratta di
una bufala. Bravo l’attore che interpreta Bergoglio, senza dubbio, e in ogni
caso occorre dire che si tratta di un lavoro fatto a regola d’arte visto che c’è
cascata pure Radio Vaticana. Ma via, basta fare attenzione ai contenuti, e si
capisce subito che è un falso grossolano e pure volgaruccio.
«Chi ha venduto armi
chimiche alla Siria era forse proprio chi l’accusava di possederle». E chi l’ha accusata di possederle?
Vi pare che un papa serio possa sparare accuse del genere agli Usa, all’Ue, all’Opac
e all’Onu, così, a cazzo di cane?
«Il Sinodo non è un
Parlamento, ma uno spazio dove parla lo Spirito Santo». E a dirlo sarebbe il
primo papa che ha voluto fossero resi pubblici i risultati delle votazioni sui
singoli punti del documento finale, con la specifica di quanti voti fossero a favore e
quanti contrari, che ci mancava solo il tabellone luminoso che sta a
Montecitorio e a Palazzo Madama? Così si esprime, lo Spirito Santo? A
maggioranza?
Un
papa vero, poi, fa confusione tra fondamentalismo e integralismo come farebbe
un giornalista di Libero o del Tg4?
E
nel parlare di un tizio in coma – in questo caso, del prelato armeno dal quale
il falso Bergoglio ha detto di essersi recato in visita – un vero papa lo
avrebbe definito «un vegetale»?
E
il Corano che sarebbe «un libro di pace»? E «Dio [che] ci ha dato un mondo di incultura primordiale per farne un mondo di
cultura», che, al netto del lessico da camallo, è teologia da avvinazzato? Ma, via, è più che evidente: trattasi di bufala, al cento per cento.
sabato 29 novembre 2014
Ok, il prezzo è giusto!
Nella
personale classifica delle migliori interpretazioni che la cronaca ci ha
offerto nell’ultima settimana, al terzo posto metto l’originale rilettura de I monologhi della vagina (Eve Ensler,
1996) proposta dalla Moretti, al secondo – ex aequo – i due Mattei nel remake
di Totò contro Maciste (Fernando
Cerchio, 1962), mentre non ho esitazioni nell’assegnare la palma d’oro a Bergoglio
nei panni di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (Mt 21, 12-13; Mc 11,
15-17; Lc 19, 45-46; Gv 2, 14-16): «Quante volte, entrando in una chiesa, vediamo che c’è la lista dei
prezzi… Penso allo scandalo che possiamo fare alla gente con il nostro
atteggiamento…», e giù mazzate, ardente come Robert Powell sotto la regia
di Franco Zeffirelli. Non che nel tempio, adesso, si smetterà di far commercio,
ma questo è un altro paio di maniche. Anche a Gerusalemme, d’altronde, il giorno
dopo tornò tutto alla normalità, e così accade oggi, con la Cei che si
precipita a chiarire che l’offerta è libera, ma tanto utile, praticamente
necessaria, sostanzialmente indispensabile. Scompariranno i tariffari in
bacheca, sarà la qualità della prestazione a calibrarne il prezzo, e chissà che
in questo modo non ne vengano migliori entrate. Tutto sommato, in fondo, dov’era
lo scandalo? I tariffari avevano una loro ratio. Prendiamo quello stilato da
don Valerio Mazzola, parroco di Villa di Baggio, ridente borgo del Pistoiese
dal quale è partita la lettera di protesta che ha offerto a Bergoglio lo spunto
per la sua performance.
A
me pare che si tratti di prezzi onesti. Forse qualcosa restava senza spiegazione –
un terzo gemello ha lo sconto del 30% sui 90 euro del primo battesimo o sui
60 euro del secondo? perché pagare solo le prime comunioni, visto che sul piano
teologico non c’è alcuna differenza con quelle successive? solo 70 euro di
differenza tra un matrimonio come Dio comanda e uno come Dio abbozza? nel caso
in cui l’agonizzante non spiri, c’è un rimborso, anche solo parziale, del
prezzo speso per l’estrema unzione? un miracolo a 1.000 euro, non è pochino? non
sarebbe giusto rendere più elastico il prezzo del funerale in relazione alla
tempestività della prenotazione? in quanto alle sanzioni: 5 euro per ogni squillo
di telefonino, senza specificare un sovrapprezzo in caso di risposta alla
chiamata? e un sms, poi, viene a costare più di un atto di libidine, per giunta
in un luogo sacro? e non può capitare che a far ritardo sia lo sposo? – ma in
generale, via, mi pare potesse andare.
martedì 25 novembre 2014
[...]
È
la prima metà dell’editoriale che Marco Travaglio ha firmato per Il Fatto Quotidiano di martedì 25
novembre e chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale non potrà negare
che il pezzo sia costruito molto bene, da polemista di gran talento. Appagati i
sensi da un così bel saggio di scrittura, tuttavia, c’è da chiedersi a cosa
possa mai servire l’ennesima conferma che Matteo Renzi sia una gran merda d’uomo.
Scoprirlo ancora una volta cinico, sleale, opportunista – falso come una
banconota da ottanta euro – farà cambiare idea a qualcuno? Probabilmente neanche
Marco Travaglio ci conta, ma è che quello è il suo lavoro: dare argomenti a chi
già abbia le sue stesse convinzioni, confortarlo nella persuasione che avesse
ragione, ieri, contro la maggioranza di italiani che sceglieva Silvio
Berlusconi e che abbia ragione, oggi, contro la maggioranza di italiani che
sceglie Matteo Renzi. Una sorta di assistenza psicologica, potremmo concludere.
Ma un problema resta, ed è quello della patente inefficacia di argomenti che
dovrebbero essere inoppugnabili – che un uomo politico sia in costante debito
di coerenza verso l’opinione pubblica, che debba tener fede alla parola data,
che non possa concedersi il lusso di una doppia morale – a fronte degli
strumenti che a dispetto di tutto ciò procurano consenso: non basta aver ragione
per vederla riconosciuta. Nel mio piccolo ho già messo in guardia dall’usare la
ragionevolezza come genere di conforto, perché è pia illusione «pensa[re] che a far perdere consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a
coglierlo in contraddizione con se stesso, dar prova che non sia uomo di
parola, che non mantenga le promesse, che cambi idea con la disinvoltura con
cui una puttana passa da cliente a cliente», perché fare le pulci a un
demagogo, se non è per mestiere, è per accanimento da ingenui «convinti che alla gente faccia difetto solo
la memoria. Magari. È che alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto
la buona coscienza» (Malvino,
22.9.2014).
lunedì 24 novembre 2014
[...]
«I grow old … I grow old
…»
Thomas S. Eliot
Dicono che Renzi sia un grande comunicatore, quindi tocca a me sforzarmi di capire cosa abbia detto
se mi è risultato oscuro, ma con discrezione, senza dar da vedere lo sforzo,
sennò passo per coglione. E dunque: «Possono
tirarci le uova, ci faremo le crepes, o i lacrimogeni, li considereremo delle
lampade». Alle uova e alle crepes – sia lodato Iddio – ci arrivo. È una
battuta del cazzo, ma posso pure far finta di trovarla una sparata ganza. Ma i
lacrimogeni e le lampade? La frase sembra mettere gli uni e le altre nella
stessa relazione che regge uova e crepes (una fiera noncuranza ci consentirà di
trarre un vantaggio da qualsiasi attacco), ma mi scervello nel prendere in
considerazione ogni tipo di lampada (a olio, a gas, a petrolio, ad alcol, ad
acetilene, e alogena, fluorescente, a raggi ultravioletti, e quella
endoscopica, quella scialitica, perfino quella di Aladino) e non riesco a stabilire
alcun collegamento logico con un lacrimogeno, anche a voler prendere in
considerazione ogni possibile accezione dell’aggettivo sostantivato. Eppure
tutti sembrano aver colto cosa volesse dire. Per meglio dire, nessuno solleva
la questione. E a me resta il problema: «Possono
tirarci i lacrimogeni, li considereremo delle lampade». Ma i lacrimogeni,
poi, solitamente chi li tira, chi in piazza contesta il governo o la polizia su ordine del governo? Niente, non ne esco, buio totale. E neanche un’anima buona a spararmi un lacrimogeno.
[...]
In
premessa alla sua deliziosa Antologia
apocrifa (Bompiani, 1978) Paolo Vita-Finzi afferma che per una efficace
parodia letteraria è necessario innanzitutto individuare il «codice d’uso» dell’autore che si
intende scimmiottare. Questa raccomandazione mi è tornata in mente nell’apprestarmi a scrivere un editoriale à la Ferrara,
ispirato dal suo Quando la libertà è una
procedura schifosa e comoda di annientamento (Il Foglio, 24.11.2014), pezzullo in cui il suo «codice d’uso» è più scoperto del solito, come capita a chi si
segga dinanzi alla pagina bianca senza sapere di che cazzo scrivere e, per
chiudere il pezzo in tempo utile, ricorra ai suoi più collaudati automatismi,
meglio se su un tema già affrontato mille volte: ça va sans dire, qui, l’aborto, e usando i consueti frattali di perifrasi
che per modulo hanno la geremiade dell’anziana signora sull’autobus («non c’è più religione», «chissà di questo passo dove andremo a finire», «questa non è libertà, è
libertinaggio», ecc.). Tutto così
scontato, in questo suo editoriale, che mi è sembrato si parodiasse da solo,
sicché m’è passata la voglia di farlo io, tanto più che, sul mugugno che chiude il pezzo, l’anziana
signora m’ha dato un brivido: «Ogni tanto
mi sorprendo a sognare che questa libertà venga sommersa dal sacro islam, in mancanza
di argomenti migliori. E non escludo, io che non ho una fede confessionale, che
finisca proprio così, in uno scontro di assoluti in cui l’assoluto dell’io soccomba
di fronte all’assoluto di Dio». Passi dar del debosciato al giovanotto che
non le cede il posto a sedere, ma qui siamo al «le auguro di perdere le gambe sotto un treno» e al «ciu-ciuf, ciu-ciuf, ciu-ciuf» che dovrebbe farlo cagare addosso. Non è bello, ecco.
Prova a dargli torto
«Il mio partito – dice l’astensionista con un certo orgoglio – è assai più forte del tuo», e non ha importanza quale sia il partito del tizio cui si rivolge. «Alle ultime Europee – dice – eravamo più di 21 milioni, il 41,3%. Appena lo 0,5% in più del 40,8% andato a Renzi? Manco per niente, Renzi è stato votato da poco più di 11 milioni degli aventi diritto al voto, che fa il 23,3% del totale; meno di 6 milioni hanno votato Grillo, che fa poco più del 10%; e meno di 5 hanno votato Berlusconi, che dunque non ha superato il 9%; e per gli altri neanche spreco tempo a fare calcoli».
Non gli si può dar torto, e si capisce
l’orgoglio: «Negli ultimi vent’anni – dice – non siamo mai scesi al di sotto
del 15%, ma la crescita è stata costante e alle Politiche del 2013 abbiamo
sfiorato il 25%, diventando il primo partito». A renderlo tanto fiero, manco a
dirlo, sono i risultati che arrivano dalla Calabria e dall’Emilia Romagna, dove
il suo partito ha stravinto, con una maggioranza assoluta che supera di
parecchi punti il 50%, e tuttavia non dà segno di montarsi la testa, come fin
troppo spesso è dato osservare in chi si lascia andare a invereconde capriole
di giubilo per aver guadagnato appena una manciata di voti: «Erano elezioni
limitate solo a due Regioni, non ci illudiamo di poter riconfermare questo
exploit, e tuttavia – dice – si tratta di un risultato che consolida una linea
di tendenza che ci vede ormai da anni come il partito di gran lunga più amato
dagli italiani».
Non gli si può dar torto, ma provarci è un
dovere morale. Non ha importanza quale sia il partito del tizio che senta questo
dovere, ma all’astensionista arriva puntuale la regina delle obiezioni: «Quello
dell’astensionismo non è un partito». «Sì, vabbe’ – è la risposta – sarà
partito il tuo. Chiamalo comitato elettorale, chiamalo piede di porco per
forzare il coperchio dell’erario, chiamalo proprietà privata di un leader, ma
non chiamarlo partito».
«Ma il voto di chi non vota vale zero».
«Sì, perché il tuo vale qualcosa? Voti la lista bloccata di un cosiddetto
partito che non mantiene neanche la metà della metà della metà delle promesse
che ti ha fatto in campagna elettorale, e ti senti protagonista per il solo
fatto di aver lerciato una scheda con un frego?».
«Ma chi si astiene perde ogni diritto di
lamentarsi». «E uno dovrebbe votare solo per poterlo fare avendone pieno diritto?
Succede niente ad abusarne senza averne il diritto? E fa differenza col farlo
avendone il diritto? Il lamento, dico, è il premio di consolazione che spetta a
chi sa di fare una cazzata, e la fa?».
«Ma l’astensionismo è il buco nero che
inghiotte tutto e il contrario di tutto: rabbia e strafottenza, destra e
sinistra che hanno perso ogni rappresentanza, qualunquismo di andata e di
ritorno…». «Il partito che hai votato tu, invece, ha un’identità bella precisa,
vero? Non dico un’ideologia, che non si usa più. Non dico una classe o un
blocco sociale, che con lo sfarinamento generale sarebbe come parlar di fisica
delle particelle a un summit della ’ndrangheta. Mi limito a un elettorato che
abbia un minimo di omogeneità sul piano culturale… Ma che dico, culturale? Sul
piano della piana logica dove due più due fa quattro: forse che il tuo partito
ce l’ha?».
«Resta il fatto che non votare è da
irresponsabili». «E tu indicami quale sia il voto di cui un qualsiasi italiano
possa dirsi responsabile appena un istante dopo aver fatto cadere la sua scheda
nell’urna».
E prova a dargli torto.
domenica 23 novembre 2014
[...]
Poco
prima di dimettersi, un Presidente della Repubblica va a conferire dal Papa, proprio
come, poco prima di dimettersi, un Presidente del Consiglio va a conferire dal
Presidente della Repubblica. Certe notizie sono così disgustose che si possono
punire solo negando loro ogni commento.
venerdì 21 novembre 2014
mercoledì 19 novembre 2014
Grattarsi il culo
Grattarsi
il culo è operazione che implica il movimento combinato di almeno tre dozzine
di muscoli, dal cingolo scapolare alle punte delle dita, e l’attivazione di almeno
sette aree neuronali, tra corteccia motoria, cervelletto e gangli della base. Per
grattarselo, tuttavia, non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso
meccanismo che coordina le fasi dell’operazione, né a conoscerlo ce lo si
gratta meglio.
Le
cose vanno a questo modo anche con certi mezzucci retorici: volgari quanto
grattarsi il culo, non hanno minore complessità strutturale, che tuttavia non c’è
bisogno di conoscere per farne uso, perché quasi sempre vengono impiegati come risposta
immediata a un stimolo cogente, d’impulso, con lo stesso automatismo che porta la
mano al culo, quando prude.
Un
esempio: «Ci sono due modi di stare in un
talk show televisivo. Il primo è quello prono al pubblico […] Poi c’è il
secondo modo. Provare a dire la verità. […]
Quando vado in un talk show in tv o alla radio io scelgo sempre la
seconda strada. […] Non ho mai cercato il consenso per il consenso. Preferisco la
verità». Si tratta della struttura portante di un lunghissimo post col quale
Mario Adinolfi prova a trarsi d’impaccio dalle obiezioni che gli sono state
rivolte dal pubblico in studio a L’aria
che tira (La7, 18.11.2014).
È
il mezzuccio retorico che mira a neutralizzare la sostanza delle obiezioni
eludendole e opponendo ad esse una «verità»
che sarebbe tale solo perché trova dissenso in quanto irritante, e che perciò
non avrebbe bisogno di altro argomento. In pratica: ho ragione per il solo
fatto di essere irritante. Espediente retorico tutt’altro che lineare, ma il
cui impiego non necessita di alcuna conoscenza del meccanismo che può renderlo efficace: ti prude, te lo gratti, ti passa.
martedì 18 novembre 2014
[...]
Un
tempo le organizzazioni criminali avevano altro stile. Se volevano qualcosa da
te, prima di passare alle brutte maniere ti mandavano un omino mite che
esponeva la richiesta con allusioni sfuggenti e con modi perfino eccessivamente
cortesi. Tutto è cambiato, oggi mandano un energumeno che prima ti rompe il
muso e poi ti espone la richiesta, e non c’è cosca che faccia eccezione, tutt’al
più ti mandano uno che sembrerebbe un omino mite, ma che in realtà è un
energumeno.
Beh, questa era la presentazione, adesso ecco l’intervista che
Sandro Magister ha concesso a ItaliaOggi. Da brividi. Alla prossima, Bergoglio
si ritrova il cianuro nel mate.
«Qualunque cosa sia»
In
Io e Annie (Usa, 1977) c’è una scena
che ho utilizzato mille volte per un sogno ad occhi aperti. Alvy (Woody Allen)
e Annie (Diane Keaton) sono in coda per entrare al cinema e proprio dietro di
loro c’è un tizio insopportabile che, parlando ad alta voce con la tizia che le
è affianco, spara senza sosta sentenze su sentenze – sui film di Fellini, sul
teatro di Beckett, sulle tesi di Marshall McLuhan – irritando visibilmente Alvy,
che finisce per sbottare: «Che cosa non darei
per avere un’enorme palata di cacca di cavallo», provocando così le
proteste del tizio: «Ma per caso è
vietato esprimere le proprie opinioni?». E Alvy: «No, ma deve esprimerle ad alta voce? Insomma, non si vergogna di
pontificare così? E la cosa più buffa è Marshall McLuhan… Ma lei sa niente di
Marshall McLuhan?». Al che il tizio ribatte che insegna alla Columbia
University, tiene un corso su Tv, media e
cultura. «Beh, poco male –
risponde Alvy – perché il signor McLuhan
è qui». E Marshall McLuhan – proprio lui in persona – appare all’improvviso
e al tizio dice: «Ho sentito quello che
ha detto. Lei non sa niente del mio lavoro. Come sia arrivato a tenere un corso
alla Columbia è cosa che desta meraviglia». E Alvy chiosa: «Ah, ragazzi, se la realtà fosse così!».
Non
è un caso, penso, che Woody Allen abbia scelto un critico come deus ex machina, perché un artista poteva
uscirsene con qualcosa del tipo: «Credo
che nel mio lavoro il signore abbia visto quello che forse già pensava di suo,
che non è assolutamente la verità,
perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si
parla di problematiche così complesse come quelle che affronto io. Quello che
so è che il mio lavoro è stato accolto bene da chi ci ha visto una cosa, ma
anche il suo contrario. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema
di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio».
È che all’artista interessa più essere apprezzato che essere capito? Se si accetta che egli non debba porsi il problema di cosa voglia dire ciò che crea, anzi non debba neanche porsi il problema di capire cosa esattamente abbia intenzione di fargli dire, questo non è affatto grave: l’importante è che la sua creazione trovi apprezzamento, poco importa che sia tanto ambigua da trovarlo presso chi la legge in un modo e presso chi la legge in modo opposto – anzi, tanto più ambigua, tanto meglio – perché l’unico modo sbagliato di leggerla sarà quella che non le farà trovare apprezzamento, unico caso, questo, in cui l’artista potrà lamentare un fraintendimento. Ma a questo punto mi auguro che il lettore abbia colto l’ironia nell’uso del termine artista, mentre mi auguro che l’artista non l’abbia colta, perché questo di bello ha l’ironia: mette d’accordo chi capisce e chi fraintende.
Forse, però, è meglio ricorrere a un esempio.
È che all’artista interessa più essere apprezzato che essere capito? Se si accetta che egli non debba porsi il problema di cosa voglia dire ciò che crea, anzi non debba neanche porsi il problema di capire cosa esattamente abbia intenzione di fargli dire, questo non è affatto grave: l’importante è che la sua creazione trovi apprezzamento, poco importa che sia tanto ambigua da trovarlo presso chi la legge in un modo e presso chi la legge in modo opposto – anzi, tanto più ambigua, tanto meglio – perché l’unico modo sbagliato di leggerla sarà quella che non le farà trovare apprezzamento, unico caso, questo, in cui l’artista potrà lamentare un fraintendimento. Ma a questo punto mi auguro che il lettore abbia colto l’ironia nell’uso del termine artista, mentre mi auguro che l’artista non l’abbia colta, perché questo di bello ha l’ironia: mette d’accordo chi capisce e chi fraintende.
Forse, però, è meglio ricorrere a un esempio.
Qual
è il messaggio che vi pare trasmetta questo corto? Una «esplosiva verità», cioè che l’Italia sia piena di gioventù «improduttiva, cazzeggiona, scioperaiola,
protetta, corporativa, e per di più travestita da organismo protestatario
minaccioso violento radicale antagonista»? Se l’avete inteso a questo modo,
siete d’accordo con Giuliano Ferrara, al quale proprio perciò è piaciuto tanto
e dice che «dovrebbe essere premiato, trasmesso
nelle scuole, e ritrasmesso in tv a cura della Presidenza del Consiglio, con abbondanti
sovvenzioni pubbliche e di Confindustria perché le menti libere che lo hanno
concepito e realizzato possano insistere nel filone d’oro della presa per il
culo dei miti italiani poveraccisti».
O pensate piuttosto che il corto volesse essere un ironico ribaltamento di quella realtà di fatto che in Italia sta bruciando un’intera generazione tra disoccupazione e precarietà? Vi verrebbe voglia di chiederlo all’autore, vero? Beh, non lo fate, potreste rimanere delusi, e poi l’ho fatto io per voi. Capirete che, col miraggio di abbondanti sovvenzioni dalla Presidenza del Consiglio e dalla Confindustria, l’ironia, se c’era al momento di scrivere la sceneggiatura, ora può anche andare a farsi benedire. E allora, sì, «non è stato accolto come un video che sfotte i bamboccioni, anzi, molti hanno scritto di non sapere se ridere o piangere, lo hanno definito divertente e drammatico, comico e triste», però «potrebbe anche essere vero che certi giovani sono sfaticati e mammomi», e tuttavia «ciò non toglie che lo stato è assente, il lavoro è precario e mal pagato, ecc.». Insomma, «credo che nel mio lavoro Ferrara abbia visto quello che forse già pensava di suo, che non è assolutamente la verità, perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si parla di problematiche così complesse. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio. L’ironia era solo il mezzo per raccontare qualcosa di vero, qualsiasi cosa sia».
«Qualunque cosa sia»: e poi c’è pure qualche cretino che afferma che i giovani italiani non siano ormai disposti a tutto pur di portare a casa qualche soldo?
O pensate piuttosto che il corto volesse essere un ironico ribaltamento di quella realtà di fatto che in Italia sta bruciando un’intera generazione tra disoccupazione e precarietà? Vi verrebbe voglia di chiederlo all’autore, vero? Beh, non lo fate, potreste rimanere delusi, e poi l’ho fatto io per voi. Capirete che, col miraggio di abbondanti sovvenzioni dalla Presidenza del Consiglio e dalla Confindustria, l’ironia, se c’era al momento di scrivere la sceneggiatura, ora può anche andare a farsi benedire. E allora, sì, «non è stato accolto come un video che sfotte i bamboccioni, anzi, molti hanno scritto di non sapere se ridere o piangere, lo hanno definito divertente e drammatico, comico e triste», però «potrebbe anche essere vero che certi giovani sono sfaticati e mammomi», e tuttavia «ciò non toglie che lo stato è assente, il lavoro è precario e mal pagato, ecc.». Insomma, «credo che nel mio lavoro Ferrara abbia visto quello che forse già pensava di suo, che non è assolutamente la verità, perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si parla di problematiche così complesse. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio. L’ironia era solo il mezzo per raccontare qualcosa di vero, qualsiasi cosa sia».
«Qualunque cosa sia»: e poi c’è pure qualche cretino che afferma che i giovani italiani non siano ormai disposti a tutto pur di portare a casa qualche soldo?
domenica 16 novembre 2014
[...]
Quanto
si lucra in Italia col cosiddetto volontariato? E chi lucra di più? E su quali
strumenti può contare? Consiglio la lettura di un post che mi pare dia ottimo
spunto a un’inchiesta giornalistica che risponda a queste domande.
Già che mi trovo, ne consiglio pure un altro che ha il pregio della sintesi e della chiarezza su una faccenda terribilmente complessa come il riassetto delle forze in campo sullo scenario internazionale.
Già che mi trovo, ne consiglio pure un altro che ha il pregio della sintesi e della chiarezza su una faccenda terribilmente complessa come il riassetto delle forze in campo sullo scenario internazionale.
Gabriella Goat
Che
il mondo sia impazzito è sensazione che ha sempre accompagnato tutti i disadattati,
fin dalla notte dei tempi. Converrà, dunque, non farci cogliere in castagna dinanzi
a quanto ci fa trasalire perché brutalmente o miserevolmente assurdo, facendo
finta di averne colto la ratio, di trovarla in qualche modo sensata o per lo
meno divertente, così sembreremo ottimamente incardinati nel secolo, che fin
dalla notte dei tempi è segno di un buon metabolismo. Evitiamo di strabuzzare
gli occhi, quindi, dinanzi alla notizia che la signora Gabriella Capra, in ciò
appoggiata dalla Fondazione Nazionale Consumatori, sia intenzionata a portare
in tribunale la Astley Baker Davies per ottenere un risarcimento di 100.000
euro perché in una delle puntate di Peppa Pig è comparso un personaggio che
aveva proprio il suo nome, e da allora tutti la sfottono. Evitiamo di star lì a
considerare che nella striscia originale Gabriella Capra era Gabriella Goat,
perché al pari di tutti i personaggi che vi compaiono il surname indica la specie animale e il name ne ha quasi sempre in comune l’iniziale (Delphine Donkey, Kylie
Kangaroo, Emily Elephant, Wendy Wolf, ecc.), e allertiamo la francese Gabrielle
Chèvre, la spagnola Gabriela Cabra, la tedesca Gabri Ziege, se esistono: hanno
danni da lamentare, non tardassero a farlo. E tanta solidarietà alle poverette,
nel caso i rispettivi tribunali non ne accogliessero le richieste mandandole a
depositare qua e là, in Francia, in Spagna, in Germania – insieme alla signora Gabriella
Capra qui in Italia – le note feci a palline.
[...]
Tra
scienza politica e arte del governo passa tutta la distanza che c’è tra studio
e mestiere: si vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto
non è affatto vero, anzi, come non si è mai visto un grande economista
diventare miliardario grazie a tutta la sua scienza – ma si sarebbe tentati a
un altro parallelo, assai più feroce: si ricava più denaro dal vendere numeri
da giocare al lotto che dalle vincite ottenute grazie alle puntate su quei
numeri – così non s’è mai visto un Platone tornare di qualche utilità a un
Dionigi, né un Tocqueville più fortunato di un Talleyrand. Sconcerta, può
arrivare a infondere sgomento, ma è di piana evidenza che, almeno in certi
campi, sia impossibile trasporre con qualche profitto le regole che fanno il
metodo della più perfetta scienza. Dovrebbe essere la prova che ogni scienza
sociale abbia un limite nel fatto stesso d’essere – appunto – scienza, ma più
probabilmente – e qui la probabilità si carica dell’investimento emotivo che
sta in una scommessa – è che nessuna scienza sociale ha ragion d’essere se non
accetta come irriducibile la grossolanità di ciò che ne è oggetto. Quando
apprendiamo che un mestierante di successo ascolta con la massima attenzione
tutto il collegio di illustri ed autorevoli periti ai quali ha chiesto parere, per
poi decidere di testa sua, spesso contro quanto consigliato da quei saggi, e il
risultato della decisione premia il mestiere contro la scienza, non dobbiamo trarre
l’affrettata conclusione che non ci sia squadra o pialla per il legno storto: è
nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni
di ciò che è da evitare, perché il miglior daffare raramente è un ottimo affare.
sabato 15 novembre 2014
Accedine
Può
darsi ch’io m’inganni e stia per dirne una tanto bestiale da dovermene vergognare
per mesi, perciò faccio affidamento, senza neanche contarci troppo, sull’indulgenza
di chi non avrà alcuna difficoltà nel dimostrarmi che lo stato d’animo che qui
mi appresto a descrivere – il mio, da qualche tempo a questa parte, quasi tutte
le volte che decido che questa pagina vada aggiornata, sennò che sia meglio
chiudere il blog – non sia affatto singolare, men che meno necessiti di un neologismo,
perché è di questo che si tratta: non è certo singolare la sensazione che nulla
valga la pena di un commento, questo lo so; né è singolare quella che induca a
credere che un commento, ancorché sprezzantemente liquidatorio o meticolosamente
decostruttivo, offenderebbe più chi lo fa, per il semplice fatto che così si
abbasserebbe a farlo, che quanto ne sia l’oggetto, così elevato dalla bassezza
della sua piatta insulsaggine o della sua brutale volgarità all’immeritata dignità
di un qualche interesse, e so anche questo; come so bene che nemmeno è
singolare che questa sensazione possa riguardare molto o tutto, per qualche
tempo, a tratti, o per un lungo periodo, senza remissioni; però dico che senza
dubbio abbia un connotato peculiare – un quid
con tanto di sui generis – il
sentire che tanta insulsaggine e tanta volgarità non possano scorrere senza
apporvi sopra il marchio dell’infamia, e nel contempo il sentire che sia
inutile, e soprattutto avvilente. Lo si sente necessario, quasi indispensabile,
ma si avverte che sarebbe fatica enorme, e mortificante, e vana. Si aggiunga,
inoltre, che non sarebbe fatica dovuta, se non a ciò che rende intollerabile la
fatica di lasciar perdere, far finta di non aver visto e di non aver sentito:
non è mestiere di scrivere, quello del commento, tutt’al più è abitudine affine
alla mania. Un guazzabuglio di malesseri, insomma, in cui si possono trovare –
variamente dosate e composte – una frenesia d’urgenza e una noia del ripetersi,
un’indignazione che può degenerare nella maniera e una spossatezza da
inconcludenza, una rabbia sorda da risentito e una resa che cerca nobiltà nella
sconfitta, alle quali va ad aggiungersi quel tanto di ridicolo che sta nel
poterne fare a meno, ma non volerlo, però costringersi a farlo, e poi non farlo:
evitare di scriverne, però sentendone in colpa, ma traendo una sorta di
sollievo da questa mancanza nel considerare quanto peserebbe l’accollarsene il
dovere, che poi è tutto verso se stessi. La direi accedine, un misto di accidia e acredine, ma il termine non mi
sembra del tutto adeguato, perché almeno nel caso di specie – il mio – è
relativo a uno stato d’animo che mi assale solo quando scorro la cronaca: tutto
mi sembra futile e mi irrita, a cominciare dal fatto che la futilità non
meriterebbe tanta irritazione, e tutto mi spinge a sputar bile ma sei volte su
sette me lo risparmio, e m’acconcio a una posa di disgustata alterigia, che io
stesso sento falsa, che io stesso mi rinfaccio.
Prendete
il caso della lettera che la Diocesi di Milano ha inviato a seimila insegnanti
di religione, stipendiati dallo Stato, ma idonei all’insegnamento solo se graditi
alla Chiesa, e inidonei quando le diventano sgraditi. Lettera che sollecita una
schedatura di quanti siano impegnati a combattere nella scuola pregiudizi e discriminazioni
relative alle libere e responsabili scelte di genere. Lettera che ha sollevato
qualche protesta e di cui subito la Diocesi di Milano si è scusata. Ora c’è chi
le manda lettere per farle presente che ha sbagliato a scusarsi. Quanto ci
sarebbe da scrivere sulla faccenda. E quanto sarebbe inutile. E quanto sarebbe
noioso ripetere quello che comunque sarebbe necessario ripetere, nel caso. E
quanto mi irrita il non volerlo fare. Più mi irrita quanto accade, e più è irritante il fatto che finirò per ritenerlo degno di disinteressarmene, metà soddisfatto per aver lasciato perdere e metà pentito per non averne scritto. È accedine, direi.
martedì 11 novembre 2014
lunedì 10 novembre 2014
[...]
All’apertura
dei lavori dell’Assemblea generale dei vescovi italiani, che oggi ha preso
avvio ad Assisi, il cardinale Angelo Bagnasco ha lamentato la persecuzione di
cui son fatti vittime i cristiani, «a
volte evidente e brutale, altre volte subdola e mascherata, ma non per questo
meno violenta», e si è chiesto se per caso questo non accada «perché i cristiani sono una presenza
scomoda». Non scomoda, Eminenza, ma molesta. Vada a qualche capoverso
indietro, rilegga ciò che ha detto riguardo alla «creazione di nuove figure» alternative alla famiglia tradizionale:
ha detto che vengono create «con
distinguo pretestuosi che hanno l’unico scopo di confondere la gente», con
ciò mettendo in discussione che possa esserci famiglia dove non ci sia famiglia
cristiana, e questo non è bello, perché è offensivo, puzza di intolleranza e di
prepotenza. Che ha da stupirsi, dunque? A questo voler dettar legge sulle vite
altrui, mi pare naturale che chi abbia zotico profilo antropologico s’irriti
come una bestia, e ci scappi il martire. A chi ha l’animo gentile, invece,
scappa tutt’al più un «vada a cagare»,
e questa, lei, me la chiama violenza? Via, sia cortese, non rompa il cazzo.
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