Chiusa
la stagione che ci illuse di essere finalmente diventati un paese
normale per il solo fatto di essere approdati al tanto agognato
bipolarismo, formula magica che avrebbe sanato i mali della Prima
Repubblica, a cominciare da quello dell’instabilità
dei governi, dalla quale si diceva fossero sortiti tutti gli altri –
sia consentito l’inciso: s’è
visto quanto fosse magica, la formula – ecco che se ne apre una
nuova, quella del tripolarismo, come a insinuarci il sospetto che la
normalità non fa per noi, che siamo nati per essere speciali, forse
semplicioni, ma refrattari alle semplificazioni, anche a quella di
due opposti schieramenti che facciano il pienone di tutte le
piccinerie in lizza a surrogare la permanente guerra civile che a
chiacchiere ci piace da impazzire, ma che poi stanca, e ci convince
che in fondo siamo nati per venire a patti, per costruire le basi di
una civile convivenza in cui ci si possa fottere a vicenda, ma a
bassa intensità.
È che dev’esserci
stato, col bipolarismo, qualche fraintendimento circa il concetto di
normalità, che probabilmente – azzardo un’ipotesi
– dev’esser nato per il
cronico ritardo che ci portiamo nell’arrancare
dietro un mondo che da oltre un secolo va a zigzag, ma troppo
velocemente per gente riflessiva com’è
noto sono gli italiani: così, mentre il bipolarismo già mostrava
chiaramente i suoi limiti perfino nei paesi in cui era quasi
diventato forma mentis, noi lo adottavamo con l’entusiasmo
che l’animale mette nell’uso
dell’organo che gli è stato
conferito da una mutazione vincente, certi che semplificare la selva
di particolarismi, per lo più corrispondenti a bassi interessi di
famiglie, clan, consorterie e corporazioni, ci avrebbe dato
l’alternanza, la solidità
dell’esecutivo, un sano
pragmatismo, le ascelle sempre belle fresche e la pelle vellutata.
Preso con entusiasmo lo zig, non avevano calcolato lo zag: di una
politica semplificata in due opposti schieramenti, uno di destra e
uno di sinistra, cioè, per meglio dire, uno di centrodestra e uno di
centrosinistra, entrambi a rompersi le corna per conquistare il
centro, lasciando a destra e a sinistra zoccoli ritenuti duri, poi
rivelatisi friabilissimi, il mondo non sapeva più che farsene. La morte delle ideologie, il ritorno del sacro, la riscoperta dei particolarismi, il revival del nazionalismo, boh, va’ a capire. Due
schieramenti erano pochi. O troppi. Pochi per farsi carico delle
diverse e perfino opposte ragioni che gemmavano in seno ad ogni
schieramento, troppi per quella bella e illuminata dittatura cui
anche il più sincero democratico cominciava a fare un pensierino.
Come risolvere l’aporia?
Soluzione all’italiana:
tripolarismo. Asimmetrico, per giunta. I tre schieramenti, che
insieme raccolgono più dei tre quarti dei votanti, che comunque sono
a stento i tre quinti degli aventi diritto al voto, hanno forze
pressoché pari, e la cosiddetta morte delle ideologie ha reso
estremamente mobili gli elettori, per non parlare degli eletti,
sicché un incremento o un calo dei consensi, gratta gratta, non è
mai affidato a un progetto di società, talvolta neppure a un
programma di governo, ma quasi esclusivamente alla spinta o al
risucchio di istanze labili, quasi tutte umorali, che sembra quasi
impongano a ogni soggetto politico lo star dietro ai sondaggi, come
il tafano sta appiccicato al culo della vacca.
Questo è quanto i tre
schieramenti hanno in comune (ovviamente con la vocazione a
rappresentare il meglio della società italiana, che non si sa perché
si ci accanisce a dare per scontato sia la maggioranza, in un paese
dove a ogni vizio morale o intellettuale di un eletto corrisponde con
purissima proporzionale lo stesso vizio, per lo più imbruttito, in
quanti lo hanno scelto a rappresentarli), ma il resto li fa
differenti in tutto: mentre il Pd è un partito (per meglio dire, è
un comitato elettorale), il centrodestra è una coalizione (per
meglio dire, lo sarebbe a rimuovere due o tre dozzine di problemini
che vi si frappongono) e il M5S, invece, è un movimento che
fieramente disdegna la forma partito (per meglio dire, ci tiene a
darsi aspetto di assemblea permanente, ma in fondo è un marchio dato
in franchising a ogni sfessato che sia disposto ad obbedire
ciecamente alla politica aziendale).
Non solo: tutti e tre gli
schieramenti hanno vocazione maggioritaria, ma, mentre il M5S
persegue l’obiettivo in
orgogliosa solitudine, indisponibile ad alleanze con chicchessia, il
Pd e il centrodestra hanno una voglia matta di stringere un’intesa,
però ci tengono a far finta di esserci costretti, ovviamente per il
bene del paese, e ovviamente a malincuore, perché avessero il
consenso per far tutto da soli, e vabbè, ma per quanto fior fior di
cervelloni si alternino da anni nel tentativo di scrivere una legge
elettorale che eviti di avere due poker d’assi
allo stesso giro, tant’è, chi
vince è costretto a spartirsi il piatto, sicché si tollera perfino
che al rilancio uno dica «servito» e si
giochi tutte le fiches che ha davanti, per poi ritirare la posta in
gioco se il giro pare butti male. E poi comunque gli ordini vengono
da Bruxelles, uguali per chiunque stia al governo, tanto vale far
finta di stare al gioco.
Non pensiate, però, che questo non abbia
generato disagio. L’ha generato,
eccome. L’ha generato e continua
a generarlo, come ieri dimostrava il fenomeno del terzismo e oggi
dimostra quello del quartismo. Ma qui occorre intendersi.
Nel
definire il terzismo come l’«atteggiamento di chi sostiene una
terza posizione autonoma rispetto a due schieramenti contrapposti»,
il Treccani mette le mani avanti, dicendo che il termine è proprio
del «linguaggio giornalistico», come a dissuaderci da ogni
considerazione di merito sul significato che qui il significante si
incarica di rappresentare. È noto, infatti, che la logica che
informa il giornalismo non risponda affatto ai criteri sui quali in
altri ambiti si fonda la relazione tra cosa e parola, prevalendo la
ratio che piega l’una all’altra, o viceversa, per rendere
efficaci delle suggestioni, per lo più servendosi di eufemismi o
iperboli.
Nel caso del terzismo, che peraltro è fenomeno tutto
giornalistico (nasce e muore dentro al Corriere della Sera, fatta
eccezione per le sue emanazioni emulative), la suggestione sta
nell’evocazione di una «posizione» che implicherebbe uno spazio
ben definito, entro il quale sarebbe possibile riconoscere, se non
un’unità di pensiero, almeno un comune sentire, che tuttavia non
le conferirebbe i connotati di «schieramento», e questo per il suo
non porsi in competizione con le due opposte «posizioni», ma anzi
per offrirne ad esse una terza come occasione di mediazione. Niente
di più lontano, in realtà, da quanto abbiamo constatato negli
interventi di quanti venivano definiti terzisti nel passato
ventennio: la loro terzietà sembrava non avere affatto un tratto
univoco, né sul piano culturale, né su quello politico, anzi,
sembrava non avere neanche vocazione a mediare, accontentandosi di
trovare un’equidistanza
che servisse ad assicurare un profilo di superiore neutralità.
Tutto
uguale col quartismo, che però rivela un’asimmetria
di neutralità che trova congruità con quella dello schema
tripolare. E infatti c’è
quartismo e quartismo.
[segue]