Coi
sondaggi che già da alcuni mesi registrano un lento ma progressivo
calo dei consensi al M5S rispetto al risultato uscito dalle urne il 4
marzo (siamo ormai giunti a una perdita di quasi cinque punti
percentuali) è comprensibile che lo stato maggiore pentastellato
attendesse coi nervi tesi come corde di ukulele (lascerei in pace il
violino, che è strumento serio) l’esito
del processo che vedeva Virginia Raggi accusata di falso ideologico:
una condanna avrebbe messo fine all’esperienza
capitolina nel modo più indecoroso per un movimento politico che
sulla fedina penale pulita ha costruito buona parte della sua
fortuna, col rischio di avviarlo a un irreversibile declino.
Prevedibile,
dunque, che l’assoluzione
liberasse tutte le tossine accumulate nell’attesa,
altrettanto prevedibile che a farne le spese dovessero essere i
giornalisti che più s’erano accaniti su Virginia Raggi, arrivando
al dileggio, all’insulto, alla calunnia, con ciò perdendo ogni
legittimità di critica alla sua amministrazione.
La
rivalsa dei grillini non si è fatta attendere: «sciacalli»,
«pennivendoli», «puttane», epiteti pesanti, ma solo in apparenza,
perché rubricati già da tempo alla voce «giornalista» sul
dizionario analogico della maldicenza.
Ancora
più scontata la reazione della categoria, seconda nella solidarietà
di gregge solo a quella dei tassisti. Niente di nuovo, perché così
funziona, la solidarietà di gregge, almeno fino a quando si rivela
efficace a proteggere il singolo senza arrecare danno al gruppo. Si
pensi a quello che accadeva, fino a qualche anno fa, quando un prete
era sorpreso ad incularsi un chierichetto: una cortina di martiri
della fede veniva prontamente schierata a fargli da paravento, come
se in pericolo fosse la tonaca, non il pedofilo che ci stava dentro,
insudiciandola, e allora è stata la tonaca ad esser presa di mira e
ad essere insudiciata, chiunque ci stesse dentro. Non conveniva, e la
Chiesa, che sa come si sta al mondo, l’ha capito. I giornalisti
italiani non ci sono ancora arrivati, e in questa occasione ne hanno
dato prova: Luigi Di Maio dava dell’«infimo sciacallo» a chi non
s’era risparmiato «titoloni» che «parlavano di corruzione,
imminenti arresti, processo alla bambolina» per «dimostrare che il
M5S era uguale agli altri»; Alessandro Di Battista dava del
«pennivendolo» a quanti avevano «lanciato tonnellate di fango»
addosso a Virginia Raggi, «trattandola come una sgualdrina», per
concludere che la sentenza dimostrava che «le uniche puttane qui
sono solo loro»; e allora via allo sdegno della corporazione tutta,
con proteste vivamente risentite, allarmanti appelli in difesa della
libertà di stampa, fino al grottesco di una Myrta Merlino in posa da
Politkovskaja.
Un
vero peccato, perché anche stavolta è andata persa l’occasione
di quella seria autocritica senza la quale è impensabile che il
giornalismo possa trovar modo di riacquistare anche solo un po’
della credibilità e del prestigio di cui godeva un tempo. Se,
infatti, corri in difesa di un mascalzone solo perché ha in tasca un
tesserino amaranto uguale al tuo, autorizzi a estendere su di te, e
su chiunque corra in sua difesa insieme a te, il giudizio morale che
lo condanna: l’ordine professionale te ne sarà grato, ma poi avrai
più diritto di lamentarti quando si farà di tutta l’erba un
fascio, e dentro, a torto o a ragione, ti ci ritroverai anche tu?
Qui
il post potrebbe anche finire, però risulterebbe sbilanciato in
favore del becerume grillino, e allora provo a riequilibrarlo.
«Puttane», dice Alessandro Di Battista? Non si generalizza? «Puttana» è la nigeriana da venti
euro a pompino e la escort da tremila euro a notte: non è il caso di
far distinzione tra l’agiato direttore e l’assai meno abbiente
redattore? Vogliamo davvero ritenere irrilevante la differenza che c’è tra
il battere per sopravvivere e il farlo per stipare il guardaroba di
capi griffati? Non rivela una bestiale ottusità ignorare la
differenza di milieu, con quanto ne consegue per il profilo
psicologico e quello sociologico, tra «puttana» e «puttana»? Non
è segno di inescusabile insensibilità che un Alessandro Di Battista
non sappia cogliere le affinità che lo legano alla figura-tipo del
giornalista italiano? Si tratta di un tizio che per lo più si è fermato al diploma o ai primi
esami universitari, e di solito viene da una famiglia di ceto
superiore, ma non ha i numeri o la voglia per seguire la strada dei
genitori, oppure viene da una famiglia di ceto medio o basso, e col
giornalismo tenta l’arrampicata verso l’alto, insomma o è un alto-borghese sfigato o un piccolo-borghese arrivista. Come può la
quarta corda dell’ukulele non vibrare per simpatia con la terza?