Si
parla di carta
geografica,
quando la rappresentazione grafica del territorio preso in oggetto è
in una scala uguale o inferiore a 1:1.000.000, rammentando che la
grandezza di una scala è inversamente proporzionale al suo
denominatore. Al diminuire del denominatore, quando dunque la
rappresentazione diventa più particolareggiata e la scala è tra
1:1.000.ooo e 1:100.000, si parla di carta
corografica,
mentre con una scala tra 1:100.000 e 1:10.000 siamo alla carta
topografica.
Di mappa,
sebbene il termine venga spesso impiegato per rappresentazioni in
scale assai minori, come è nel caso di quella lunare, sarebbe
proprio parlare solo per ordini da 1:2.000 in su. Sarà per questo
che l’acribia
con cui Borges confezionava i suoi falsi letterari ci dà mapa,
anziché carta,
per quella rappresentazione dell’Impero
in scala 1:1, che dunque «tenía
el tamaño del Imperio y coincidía puntualmente con él»
(Del rigor en la ciencia)?
La questione meriterebbe un certo interesse, se questo fosse un blog
serio. Si dovrebbe partire dal considerare la terminologia in uso
nelle opere d’interesse
cartografico a disposizione di Borges intorno alla metà degli anni
Trenta del secolo scorso, per verificare se la distinzione tra carta
e mappa in base alla
grandezza della scala fosse già in uso allora come lo è oggi.
Non guasterebbe a tal proposito una capatina alla Biblioteca
Nazionale di Buenos Aires, ma anche alla «Miguel
Cané», perché è vero che Borges vi prese
servizio solo nel 1938, ma Del rigor en la
ciencia non
compare nella prima edizione della Historia
universal de la infamia,
che è del 1935, per entrarci solo nella seconda edizione, che è del
1940. Se questo – dicevamo – fosse un blog serio. Ma non lo è.
Il che mi risparmia il volo in Argentina, ma mi costringe in ogni
caso a dare spiegazione del perché un post che ha per titolo Tagliare attacchi dando ragguagli sul concetto di scala nella rappresentazione
grafica di un territorio.
Do un aiutino? Pensate per un attimo alla
comune radice di rappresentazione e di rappresentanza: in entrambi i
casi si tratta della riproduzione di qualcosa che è altrove, ma che
si fa in modo abbia re-ad-praesentia qui, dove il prae-
è quel dinanzi
che gli dà più o meno piena corrispondenza al reale. Ci siete?
Vabbè, pretendo troppo, meglio porvi la faccenda in altro modo.
Posto che la democrazia rappresentativa fa corrispondere un eletto a
un tot di elettori (1:1.000, 1:10.000, 1:100.000, ecc.), non c’è
contraddizione in termini tra il voler ridurre il numero dei
parlamentari e poi dirsi paladini della democrazia diretta, che
invece ha l’ambizione
di cavare la volonté générale
da una riproduzione dell’elettorato
in scala 1:1? Se riduci il numero di deputati e senatori, ogni
parlamentare rappresenterà un numero maggiore di elettori, con un
ulteriore allontanamento dalla democrazia diretta.
Mi si dirà che il
M5S è per il vincolo di mandato, e dunque... E dunque un cazzo,
perché la riforma costituzionale che intende portare a 400 il numero
dei deputati e a 100 quello dei senatori modifica gli artt. 56 e 57,
ma non sfiora neppure l’art.
67, che dunque continuerà a recitare: «Ogni
membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato».
A mio modesto avviso, è questa l’obiezione
più sensata che si può rivolgere ai grillini, e parlo da persona
che crede nella democrazia rappresentativa, e che si caga letteralmente addosso
ogni volta che sente parlare di democrazia diretta. Ovviamente non
ignoro le ragioni di chi è contrario alla riforma costituzionale,
ma, pur avendo letto tanto sulla questione, ancora non mi è chiaro
come il taglio del numero di deputati e senatori apporterebbe una
deminutio
alla democrazia, se non nel modo in cui la apporta una qualsiasi
legge elettorale che abbia una qualsivoglia, e pur bassissima, soglia
di sbarramento. Anche senza quella, peraltro, ci saranno sempre
elettori che, per l’esiguità
del numero che esprime la loro scelta, rimarranno senza
rappresentante, salvo portare i seggi parlamentari a un numero tanto
alto da consentire di conquistarne uno anche a chi abbia avuto solo –
faccio per dire – 100 voti: sennò, perché 100 elettori – ma a
questo punto anche 50 o 25 – dovrebbero rimanere senza
rappresentante?
In mancanza di una scala 1:1 – e dunque in ogni
momento di democrazia rappresentativa – ci saranno sempre elettori
che non saranno stati in grado di esprimere un proprio
rappresentante, e non si potrà certo chiudere un occhio sul fatto
che saranno pochi, a voler fare della rappresentatività un principio
irrinunciabile.
Anticipo l’obiezione
di chi mi dirà che, portando a 400 il numero dei deputati e a 100
quello dei senatori, sui 51 milioni e dispari di aventi diritto al
voto aumenteranno quelli che non avranno un rappresentante: sorvolando sulla crescente percentuale di astenuti, che non sembra destare analoga preoccupazione, direi che tutto sta
nel tipo di legge elettorale che si intende adottare e nel modo di
definire i collegi, salvo il considerare non democratici i paesi in
cui il rapporto eletti/elettori è più
o meno simile a quello che produrrebbe la riforma costituzionale, che
comunque dovrà passare al vaglio referendario, e dunque potrà
essere bocciata nel caso sia giudicata «un
rischio per la democrazia» (Huffington
Post)
oppure, consegnando il dubbio all’inquietudine,
qualcosa «che
può portarci verso terre ancora incognite»
(Il
Mattino).
E tuttavia, fin d’ora,
è giusto porgere l’orecchio
a questi allarmi.
Ridurre il numero dei parlamentari è «un
rischio per la democrazia» per
Gregorio De Falco, quello del «sali
a bordo, cazzo!».
Tutti condivisibili, gli argomenti coi quali illustra la natura
demagogica dell’iniziativa
del M5S, ma sul perché la democrazia corra dei rischi si fa fatica a seguirlo.
«Quei
numeri sono fissati in Costituzione secondo criteri razionali, allo
scopo di ottenere il miglior rapporto tra eletti ed elettori ed al
fine di dare sostanza reale al concetto di rappresentanza politica».
Quali «criteri
razionali»,
che non siano già saltati dal 1948 a oggi. È cambiato il numero
degli aventi diritto al voto, si è uniformata la durata del mandato
alla Camera e al Senato, sono completamente cambiate (e un’infinità di volte) legge elettorale
e composizione dei collegi.
Ma, poi, cosa renderebbe poco democratico
il rapporto di un eletto ogni 114.000 abitanti, come accade in
Germania, rispetto al rapporto di un eletto ogni 63.000, come
accade in Italia? (Evitiamo di parlare dei Stati Uniti dove 435
membri del la Camera dei rappresentanti e 100 membri del Senato
rappresentano 330 milioni di abitanti per non incorrere
nell’immancabile
«ma è diverso!». Certo, ogni cosa è diversa da ogni altra cosa,
come d’altronde
lo è l’Italia
di oggi rispetto a quella di 70 anni fa: e allora, di grazia, quali
«criteri
razionali»?)
Peggio ancora col Babau «che
può portarci verso terre ancora incognite»:
Massimo
Adinolfi, ormai specializzato in argomentazioni a lingua di Menelicche,
nemmeno accenna a cosa ci attenderebbe, limitandosi a lamentare che
attorno all’ultima
riforma costituzionale, quella che il 4 dicembre 2016 fu ricacciata
in gola a Renzi, c’era
più ansia. Com’è
che allora si temeva una deriva autoritaria o oggi no?
«Tre
anni fa, tutti o quasi avevamo imparato a usare la fatale formula:
“il combinato disposto”. Una roba che prima maneggiavano solo i
giuristi è diventata, in quel frangente, patrimonio di tutti gli
italiani. A tavola capitava che si dicesse: il combinato disposto di
primo e secondo piatto mi ha portato sino alla sazietà. Da non
credere. Ma era una faccenda seria: era la riforma costituzionale
unita alla legge elettorale ciò di cui si paventavano conseguenze
nefaste sugli equilibri tra i poteri. Caso vuole però che la legge
elettorale non sia nel frattempo mutata, e che dunque ci vorrebbe
qualcuno che spiegasse se il combinato disposto, per l’appunto, di
Rosatellum e Parlamento snello non comporti effettivi distorsivi
sulla rappresentanza parlamentare. Invece: nessuna mobilitazione.
Eppure non è uno scherzo: se tu riduci il numero dei parlamentari
innalzi indirettamente le soglie di sbarramento a discapito delle
formazioni minori».
Qui davvero si è in difficoltà: sta a prenderci per il culo,
l’Adinolfi, per saggiare quanto siamo atarassici, o gli è saltato il salvavita nella ghiandola pineale? Quello del
combinato disposto non era il Rosatellum, ma l’Italicum:
merda della stessa infima qualità, e tuttavia con differenze
sostanziali, andasse a ripassarsele tra un numero da tabarin su Il
Foglio e
una serata della tournée «Adotta
un filosofo».
Riesce a immaginarselo, l’Adinolfi,
un combinato disposto di Italicum
scritto da D’Alimonte
e di Parlamento riscritto dalla Boschi, oggi, con una Lega al di
sopra del fatale 37%? Altro che star lì in posa da chiachiello sulle
pagine de Il
Mattino,
sarebbe già in «villeggiatura»
a Ventotene, col sole a picchiar duro su quella pettinatura a
noce di cocco.
Notevole, però, quel «combinato
disposto di primo e secondo piatto»,
che con due pennellate fa il ritratto al cittadino qualunque che si
azzarda a mettere il naso in faccende troppo più grandi di lui, con
tragicomico effetto. Dopo Massimo D’Alema
e Andrea Orlando, Adinolfi è pronto ad essere adottato da Myrta Merlino. Con migliori fortune, cordialmente gli auguriamo.