Silvio
Trentin (1885-1944) – padre di Bruno, segretario della Cgil dal
1988 al 1994 – fu docente di Diritto amministrativo presso
l’Università Ca’ Foscari di Venezia dal 1923 al 1925, anno in
cui capì che aria tirava, si ritirò dall’insegnamento e riparò
in Francia. Fece ritorno in Italia solo nel 1943, per unirsi alle
formazioni partigiane di Giustizia e Libertà operanti nel Veneto, e
morì l’anno dopo, d’infarto, dopo una breve detenzione seguita
all’arresto da parte della polizia fascista. È in Francia che nel
1929, per i tipi della Girard, esce il suo
Les transformations récents du droit public italien,
che in Italia viene pubblicato da Marsilio nel 1983 col titolo Dallo
statuto albertino al regime fascista (ignoro
se si abbia altra edizione italiana antecedente a questa).
A
pag. 371 leggiamo: «Il
fascismo – una volta consolidata la sua fortuna politica mediante
l’integrale conquista dello stato – dovette necessariamente
pensare, come ogni parvenu, a fabbricare e a fissare senza ritardo i
suoi titoli di nobiltà; a mascherare sotto le pieghe di un vestito
fastoso i segni indelebili e rivelatori della sua vera origine; a
riabilitare insomma, con l’enunciazione di una compiacente
dottrina, gli innumerevoli atti – tutti compiuti nel disprezzo di
ogni aderenza ad un principio, di ogni coerenza ad un programma, di
ogni continuità di direttive – sui quali aveva appena fondato il
regime uscito della sua miracolosa “avventura”».
Sembra
quasi di vederlo, il Mussolini, nell’atelier di Rocco e Gentile: è
in mutande e canottiera, dritto davanti allo specchio, e i due gli
danzano d’attorno prendendo le misure – collo, torace, vita,
braccio, coscia – e lui sbuffa, fa: «Sbrighiamoci!»,
e dà un’occhiataccia al manichino che sta in un angolo (com’è
che non ha testa, il manichino?), poi guarda il tavolo sul quale, in
attesa del taglio, stanno i rotoli di stoffa filosofica e di stoffa
giuridica, e risbuffa, e impreca, e poi si raccomanda che i pantaloni
non stringano troppo al cavallo, e Rocco di rimando: «Stia
tranquillo, Eccellenza, starà comodissimo!»,
e Gentile: «Eccellenza,
con la mistica fascista facciamo tre bottoni o doppiopetto?»,
e lui, brusco: «Non
ha importanza, tanto la porto sbottonata, ma sbrighiamoci, porco d’un
Giuda!»,
e ancora, ormai al limite della sopportazione: «Ma
questo guardaroba è proprio necessario?»,
e Gentile: «Ma
certo, Eccellenza, non vorrà mica incarnare il destino patrio
vestito da squadrista?»,
e Rocco: «Vedrà,
Eccellenza, sembrerà “cosa venuta da cielo in terra a miracol
mostrare”».
Facile
farsi beffe del parvenu, fin troppo facile, quasi me ne pento. È che, negli abiti di uomo di stato, chi fino a ieri è stato un criminale si
nota subito, veste male, mentre sotto lo splendido mantello firmato da un Hobbes o da un Bodin il pronipote di un altrettale fetente sembra quasi un
padreterno. Tempo fa su queste pagine scrivevo: «Quando
si riesce a mettere al sicuro le fortune accumulate sgozzando e
depredando, viene il momento di far dimenticare come si è riusciti
ad accumularle, nel tentativo di lasciar credere che siano cadute dal
cielo a premiare un eccezionale incrocio di virtù. È il momento in
cui il nomignolo del delinquente diventa nome del casato, mentre i
suoi misfatti vengono trasfigurati nei simboli del blasone, dove ben
presto diventeranno leggenda di imprese eroiche. I modi diventano
sempre più fini, il sangue diventa blu, il bottino dei saccheggi
diventa possedimento, e dove prima i nemici pendevano ai ganci di
macelleria si fa spazio alla pinacoteca, ben presto ricca di dipinti
di rara bellezza, immancabili le ninfe al bagno, le scene tratte
dalle Sacre Scritture, i ritratti del padrone di casa cui il pennello
abbia saputo dare la patina d’uomo giusto, perfino pio». Qui
aggiungerei che, anche a discendere dai più alti rami di un
nobilissimo albero genealogico scoprendo che il bisnonno di quel tal
papa squisito mecenate era né più né meno che un mafioso nella
Firenze del Dugento, si finisce sempre per chiudere un occhio,
scurdammece
’o passato,
ché, senza sbudellamenti e squartamenti, niente Michelangelo, solo
orologi a cucù. E dunque, siamo indulgenti col parvenu che abbiamo
sorpreso in sartoria: non avesse fatto la fine che ha fatto, staremmo
qui a lodarne il drop.
Nel
suo caso, Trentin dice che il taglio sartoriale era di scuola
tedesca, ma con alcune sostanziali variazioni che fecero dell’abito
una creazione del tutto originale. Rocco e Gentile, infatti,
«cercarono
in tutti i modi di trarre partito dalle dottrine che furono enunciate
in Germania durante il periodo bismarkiano da tutta una scuola di
giuristi; dottrine che, avendo il loro punto d’inizio nella
filosofia hegeliana ed essendo imbevute del principio di identità
dei contrari, erano state fatalmente indotte a riconoscere l’identità
della forza e del diritto, a definire il diritto come “la politica
della forza”»
(pagg. 378-380), e però da quel cartamodello di sovranità
eliminarono il principio di autolimitazione, secondo il quale,
«benché
lo stato rimanga sovrano, l’attività dei suoi organi non può
svilupparsi altro che secondo le prescrizioni e sotto la garanzia
delle sanzioni dettate dalla norma giuridica»
(pag. 381), e tanto si adoperarono perché l’abito fosse
esclusivamente a misura di chi doveva indossarlo che la sovranità
dello stato finì per diventare sovranità tutta personale. Sarà che
scrive nel 1929 e forse non ha letto lo Schmitt del 1922 (di fatto nell’indice dei nomi non c’è), altrimenti pure in quelle modifiche
del cartamodello avrebbe dovuto riconoscere una mano tedesca.
Qui forse è necessario, però, che io dia qualche spiegazione. Nell’ultimo post ho citato Schmitt e ho detto che il suo stato d’eccezione fonda sulla distinzione tra legittimità e legalità, che in realtà è un eufemismo in luogo del conflitto tra arbitrio e diritto, che finisce con l’attribuire al primo la piena sovranità che al secondo lascia solo in comodato; e un lettore, anonimo per giunta, ha commentato: «Ma legalità e legittimità non sono la stessa cosa?»; ed io, brusco: «No», e senza aggiungere altro, perché a doverlo fare sarei stato scortese; e allora un altro lettore, da buon samaritano, è intervenuto e ha detto: «Fino al 1946 le donne in Italia non potevano votare. Secondo me questa disposizione era legale ma non legittima»; e certo – ho risposto io – questo è «un buon esempio, ma non è tutto così semplice. [...] Cosa rendeva legittimo il voto alle donne anche prima del 1946? Qualsiasi sia la risposta, essa rimanda a un valore: e cos’è un valore, se non un particolare punto di vista?». Troppo criptico, c’era bisogno di spiegare. Per esempio, avrei potuto chiedere: fino a non molto tempo fa, un figlio nato fuori dal matrimonio veniva definito illegittimo, il valore cui rimandava il concetto di legittimità, qui, era o no un particolare punto di vista?
Poi c’è che proprio in quelle ore Andrea Pennacchi ha
twittato un adagio di Marco Aurelio («Quel
che è male per l’alveare è male per l’ape»)
che in tutta evidenza esortava a tollerare gli isterici decreti
governativi in nome del bene comune; e lì ho avuto un
fastidiosissimo giramento di coglioni, ma ho cercato lo stesso di
mantenere la calma che solitamente mi vien meno quando mi rifilano la
minestrina dell’organicismo riscaldata al fuocherello del volèmose
bbene,
e ho commentato:
«Questa è la logica sulla quale regge l’arnia, ma sia chiaro che
l’ape non agisce, è agita. E tuttavia questa logica incanta
l’apicultore, la ritiene mirabile, e questo è comprensibile per il
miele che gliene viene».
E pure questo molto molto molto chiaro non era.
Infine, capitava pure
un’altra
cosa: da tante stimabili personcine sentivo dire – testualmente, eh
– che «la
Costituzione è sospesa»,
e il tono era di chi sottintendesse «è
brutto, sì, vabbè, ma è necessario»,
mentre a sottolinearne la gravità, e anche con calore, era il Renzi
di cui su queste pagine s’è
sempre detto il peggio del peggio, senza eccezioni, e dal 2010.
Strumentale, la sua posizione? Molto probabile, e tuttavia è una
posizione che merita attenzione di là da chi la esprime, e dal
perché, per arrivare ad essere condivisa, nel caso, o rigettata. In
via preliminare, tuttavia, è da notare che essa nega la priorità
dell’interesse
che impone (imporrebbe) la sospensione della Costituzione e solleva
la questione del chi abbia il potere di affermare questa priorità,
che è chiaramente un potere che mette in discussione la legalità in
nome della legittimità.
So bene che sul punto merita attenzione
anche un’altra
posizione, quella di chi sostiene che fin qui non c’è
stata alcuna sospensione della Costituzione, perché l’art. 16
recita che «ogni
cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte
del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge
stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza».
Ho molti dubbi – e li ho già espressi – sul fatto che in questo
caso le «limitazioni»
siano
state stabilite per «legge»:
il potere legislativo è del Parlamento e fin qui esse sono venute
tutte dall’esecutivo. Vado oltre il lecito affermando che, se «la
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione»
(art. 1), mettersi sotto i piedi queste forme e questi limiti
configuri – e qui torno a Trentin – una redefinizione del
concetto di sovranità? Se il potere di decidere quando
vi siano «motivi
di sanità o di sicurezza» per
porre limiti ai diritti contemplati dalla Costituzione si trasferisce
dal legislativo all’esecutivo, che peraltro si arroga anche quello
di decidere fino a quando questi motivi sussistano, quanto
distanti siamo dalla situazione in cui «sovrano
è chi decide sullo stato di eccezione»?
Anticipo
l’obiezione:
c’è
coincidenza formale e sostanziale tra emergenza e stato di eccezione?
Mah, non saprei, vedete voi, lascio parlare Schmitt e poi mi dite.
«In
generale non si disputa intorno ad un concetto in sé, quanto meno
nella storia della sovranità: si disputa intorno al suo concreto
impiego, cioè su chi in caso di conflitto decida dove consiste
l’interesse pubblico o statale, la sicurezza e l’ordine pubblico,
le salut public e così via. Il caso d’eccezione, il caso non
descritto nell’ordinamento giuridico vigente, può al massimo
essere indicato come caso di emergenza esterna, come pericolo per
l’esistenza dello Stato o qualcosa di simile, ma non può essere
descritto con riferimento alla situazione di fatto. Solo questo caso
rende attuale la questione relativa al soggetto della sovranità, che
è poi la questione della sovranità stessa. Non si può affermare
con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza,
né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa
possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di
emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il
contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati. Anzi
dal punto di vista dello Stato di diritto non sussiste qui nessuna
competenza. La costituzione può al più indicare chi deve agire in
un caso siffatto. Se quest’azione non è sottoposta a nessun
controllo, se essa non è ripartita in qualche modo, secondo la
prassi della costituzione dello Stato di diritto, fra diverse istanze
che si controllano e si bilanciano a vicenda, allora diventa
automaticamente chiaro chi è il sovrano. Egli decide tanto sul fatto
se sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che
cosa si debba fare per superarlo. Egli sta al di fuori
dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia
appartiene ad esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se
la costituzione in toto possa essere sospesa».
Non
so che impressione ne abbiate tratto voi, io ribadisco quanto ho già
detto qui e nel post precedente: Agamben ha visto giusto.