[In
questi ultimi giorni ho letto L’ingranaggio del
potere di Lorenzo Castellani (Liberilibri, 2020), trovandolo per
molti aspetti un libro davvero notevole, cosa assai rara in tempi che
hanno ridotto la saggistica a intrattenimento. L’ingranaggio
del potere è un libro serio e onesto, che espone in modo chiaro
una tesi e offre solidi argomenti a suo supporto. In più, è scritto
bene, senza alcun cedimento a quei vanesi istrionismi e a quei
ruffiani ammicchi coi quali, oggi, molti saggisti sono convinti di
poterci estorcere simpatia, laddove il parlare oscuro e il citare a
sproposito non sono riusciti a estorcerci deferenza. La sintassi di
Castellani è limpida anche quando la frase ha una lunghezza
superiore alle sette righe e mai neppure un alone di sciatteria
sfiora il suo lessico: il periodare e la scelta dei termini risultano
impeccabili dalla prima all’ultima delle 240 pagine del testo. Un
libro, insomma, che vien subito voglia di rileggere appena lo si è
letto. E che, offrendo innumerevoli spunti di riflessione, invita al commento. È quello che mi
appresto a fare su queste pagine, cominciando col segnalare quella
che a me pare l’unica manchevolezza di un libro peraltro di gran pregio:
parlo del modo un po’ troppo sbrigativo di trattare un argomento
come quello del Dove comincia la storia della tecnocrazia?,
che sta a titolo del primo paragrafo (pagg. 77-79) di un capitolo, il
terzo, che si ripropone di farci una pur Breve storia della
tecnica in politica (pagg.
77-124). Poco più di due paginette per dar conto del dove nasce il
nodo tra tecnica e politica? Per giunta limitandosi a prendere in
considerazione solo Platone? Quasi certamente sarà un pregiudizio,
sono disposto a concederlo, ma io ritengo che, se non la soluzione,
almeno la corretta impostazione di un problema non possa fare a meno
di andare alla radice dei termini coi quali esso è formulato. Anche
se proprio su queste pagine di recente mi è stata pesantemente
contestata, resto dell’opinione
che il pensiero non possa aver altra forma che quella di linguaggio,
sicché m’azzardo
a dire, augurandomi di non essere impiccato a questa ellissi, che il
più potente strumento in mano allo studio delle scienze sociali è
la filologia. Probabilmente avrò fatto indigestione di Michel
Foucault...]
1.
Il dolore di Achille per la morte di Patroclo mette un po’ in
ombra, nel XVIII canto dell’Iliade, la comparsa dei primi
robot: li ha costruiti Efesto, dio fabbro, ma anche scultore e
ingegnere, e sono i venti tripodi messi a guardia della sua fucina
(373-377), le due statue animate che gli fanno da ancelle (417-421) e
i mantici che entrano in funzione al suo semplice comando vocale
(468-469), meraviglie da lasciare a bocca aperta (θαύμα
ιδέσθαι). Non stupisca, in tale contesto, l’impiego di
un termine come robot che compare per la prima volta solo nel
1920, in una commedia di Karel Čapek, per diventare d’uso comune
solo dopo aver avuto la consacrazione grazie a un racconto di Isaac
Asimov, nel 1941: quelli costruiti da Efesto rispondono pienamente
alla definizione che oggi diamo al termine, perché sono manufatti
che svolgono un robota, che
in ceco significa lavoro pesante, e perché la loro è
rabota, che in antico slavo è servitù. Almeno per le
statue animate che gli fanno da ancelle, poi, c’è che questi robot
di Efesto hanno pure αυδή, cioè voce, e νόος,
cioè intelligenza (419): voce e intelligenza artificiali, che
in ossequio alla nouvelle vague dei mix di cultura alta
e cultura bassa, potremmo dire in anticipo di una trentina di secoli
su quelle dei friends di J. F. Sebastian, il genetic
designer della Tyrel Corporation (Blade Runner, 1982).
È
proprio ai robot
di
Efesto che Aristotele fa cenno nel quarto capitolo del primo libro
della sua Politica
(1253b,
23 – 1254a, 19)
per
chiudere quello successivo con l’impegnativa
affermazione che, «per
natura, taluni sono liberi e altri schiavi» (1255a,
2): se avessero dei robot
come quelli che aveva Efesto – dice – «i
capi artigiani non avrebbero bisogno di subordinati, né i padroni di
schiavi» (1254a,
1). È evidente, dunque, che il suo «per
natura»
(φύσει)
implichi uno stato di necessità. Come per ogni azione, infatti, sono
necessari una ψυχή
che dia un ordine e un σώμα
che
lo esegua, per ogni produzione materiale sono indispensabili comandi
e strumenti, e gli strumenti sono necessariamente inanimati
(άψυχα),
come lo è, ad esempio, un aratro, o animati
(έμψυχα),
come invece lo è il bue, cui l’aratro è attaccato.
Ma
possiamo mettere un bue a lavorare su un telaio? Certamente, no. Qui,
in attesa che un Efesto – chessò, un Joseph-Marie Jacquard (1790)
– costruisca un telaio automatizzato, avremo bisogno della mano
dell’uomo a muovere le spole: necessariamente mano di schiavo
(δούλος),
perché quale uomo libero (ελεύθερος)
si sottoporrebbe volontariamente a un lavoro così duro? Già, ma
cos’è l’ελευθερία
che
fa liberi taluni e schiavi talaltri?
Ipse
dice
che si tratta di una condizione sociale che ricalca quella naturale,
giacché forse la natura ci vorrebbe pure tutti liberi, ma non riesce
a farlo, e dice proprio così: «ου
μέντοι
δύναται»,
dove il μέντοι
è
particella che rafforza la negazione, come a dire:
«proprio non ce la fa»,
il che rimanda a una natura
(il φύσει
cui
facevamo cenno prima) che si sostanzia in uno stato di necessità di
cui non si può far altro che prendere atto, senza peraltro star
troppo a brontolare, perché è vero che «la
mente domina il corpo con l’autorità del padrone» (1254b,
5), ma «per
il corpo è naturale e giovevole essere soggetto alla mente» (1254b,
7-8), come «per
gli animali è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal
modo hanno la loro sicurezza»
(1254b, 11-12), al pari di ciò che accade «nelle
relazioni tra maschio e femmina, giacché per natura l’uno è
superiore e l’altra inferiore» (1254b,
13-14). Ugualmente giusto, perché ugualmente necessario, che questo
valga anche per lo schiavo: anche a lui giova essere soggetto a un
padrone, perché «la
parte e il tutto, come il corpo e la mente, hanno gli stessi
interessi, e lo schiavo è una parte del padrone, è come se fosse
una parte viva ma separata, ed è perciò che esiste un interesse,
un’amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che abbiano
meritato di essere tali per natura»
(1255b, 10-15).
A
più di due dozzine di secoli di distanza è facile muovere obiezioni
a questo modo di ragionare, ma, nell’immaginare, come si è detto,
una condizione sociale che non possa far altro che riprodurre quella
naturale, l’elemento imprescindibile e determinante è quello di
natura: possiamo rimproverare ad Aristotele il non riuscire a
cogliere che la natura non esiste se non come prodotto storico, e
dunque culturale, economico, psicologico? Solo a non voler cogliere
che anche Aristotele è un prodotto storico. D’altronde non è
detto che a noi, oggi, faccia orrore qualsivoglia argomento in favore
della schiavitù proprio in quanto prodotti di una storia che ha
ritenuto possibile superarla o, come sostengono taluni, mimetizzarla
in una meno appariscente forma di sfruttamento: possiamo esser certi
che, domani, il processo storico non porti i nostri figli, i nostri
nipoti o i nostri pronipoti a trovare insopportabilmente ipocrita che
essa persista, ancorché mimetizzata, ma non già per mettere fine a
ogni forma di sfruttamento, ma all’ipocrisia, riuscendo a trovare
buoni argomenti per tornare a considerare naturale, e dunque
socialmente accettabile, la schiavitù? Possiamo escluderlo solo in
forza della fede in una storia che è storia di progresso e di
emancipazione: solo questo genere di fede ci consente di archiviare
gli argomenti di Aristotele come definitivamente inservibili. Poi,
certo, ogni fede è almeno un po’ miope, se non cieca.
Quella
che, ad esempio, vuole la storia sempre uguale a se stessa dovrà
allo stesso modo andarci piano col ritenere che ad Aristotele non
possano essere mosse obiezioni, perché con la robotizzazione della
produzione sarebbe dovuto venir meno lo stato di necessità che
giustificava la schiavitù: la macchina ci avrebbe reso tutti
ελεύθεροι.
Non è accaduto. Anzi, a lamentare che essa abbia reso un po’
δούλοι anche
gli ελεύθεροι
abbiamo visto in prima fila proprio i filosofi, quasi tutti, fatta
eccezione per i positivisti, che in fondo stanno alla filosofia come
Alessandro sta al nodo di Gordio. E allora a cosa può servire, oggi,
tornare agli argomenti di Aristotele in favore della schiavitù?
La
domanda può essere impostata anche diversamente, prendendo a spunto
proprio quello che Castellani scrive chiedendosi Dove
comincia la storia della tecnocrazia? «Diversi studiosi –
scrive – tendono
a partire da molto lontano considerando alcuni pensatori politici
classici come veri e propri precursori della mentalità tecnocratica.
Su tutti spicca l’opera
filosofica di Platone, nella cui sofocrazia si rintraccerebbero
vedute espressamente tecnocratiche. Tuttavia, questa sofocrazia
platonica implica un ruolo politico del sapiente, che però non è il
“competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico».
Se davvero fosse così, questo «partire
da molto lontano»
sarebbe davvero inutile, ma è davvero così? Non proprio. Infatti, a
leggere la seconda parte del suo Politico
(287 B – 311 C), scopriamo che la σοφία
che avanza la pretesa di informare la gestione della cosa pubblica è
anch’essa una τέχνη:
è quella tecnica di misurazione indispensabile a determinare quel
giusto mezzo che è ultimo fine – insieme – morale e politico, ed
è una tecnica – mi si lasci passare il bisticcio – che è
tecnica fin dal termine che la designa (μετρητική).
Se compariamo questa pagina a quella di un altro dialogo, Ione,
vediamo che questa τέχνη
ha
specificità proprie, certo, ma al pari di ogni altra τέχνη,
sicché «quando
un’arte
[τέχνη]
è
conoscenza di determinati oggetti e un’altra
è conoscenza di altri oggetti, io do ad una un nome e all’altra
un nome diverso» (537
D). Andare
alle fondamenta del termine τέχνη
ci
consente
di poter affermare che anche la sofocrazia è una tecnocrazia. Ma –
abbiamo visto – Castellani afferma che «questa
sofocrazia platonica implica un ruolo politico del sapiente, che però
non è il
“competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico».
Solo in apparenza, obietterei. Quello che fa la differenza è solo il
tipo di competenza chiamata a rispondere dei bisogni dell’individuo
e della collettività: se la scienza sottrae campo alla filosofia, la
competenza filosofica perderà potere rispetto a quella scientifica;
il filosofo è costretto a ritirare la sua pretesa sofocratica a
fronte dell’avanzare della pretesa tecnocratica dello scienziato.
Anche qui, d’altronde, con ciò che è «competente»,
andare alla radice del significante può darci il più compiuto
significato. Già l’ho scritto due o tre mesi fa, qui mi è necessario ripetermi.
Di
chi eccelle nei vari campi delle scienze naturali e di quelle umane
(sospendendo, qui, la questione se queste ultime siano davvero
scienze) si potrebbe dire che ha bravura, capacità,
perizia, professionalità, ma da qualche tempo si
preferisce dire che ha competenza, e la cosa non è tutta
italiana, perché anche nella lingua oggi più parlata al mondo si
preferisce dire che è competent piuttosto che able,
capable, capacious, adept, expert,
experienced, qualified o conversant. C’è un
motivo che spiega questa scelta lessicale? Probabilmente sta nel
fatto che competere ha altre tre accezioni oltre a quella che
fa della competenza l’abilità che si può trarre da un
idoneo bagaglio cognitivo e da una specifica esperienza: competere,
infatti, vuol dire anche misurarsi, concorrere,
lottare, contendere; in più, ciò che mi compete è
anche ciò che mi spetta in termini di riconoscimento della
legittimità del ruolo; ciò che mi spetta, però, è anche
spettanza, e cioè compenso, onorario, parcella,
provvigione. Chi è competente, insomma, non è
soltanto un esperto, ma anche uno che deve misurarsi con
altri contendenti per arrivare a conquistare una prerogativa
relativa a un merito, da cui consegue di diritto un privilegio.
Chiarito
questo, dovrebbe essere evidente il contesto in cui si muove il
competent rispetto al semplice capable: è quello del
mercato delle esperienze professionali dal quale la società è
giocoforza tenuta ad attingere allo scopo di risolvere i problemi che
le sono posti dalla necessità di dare risposta ai bisogni
individuali e collettivi. Ne risulta che non è possibile alcuna
considerazione relativa alla competenza dei competenti
astraendosi dalle politiche che la società adotta riguardo a
questi bisogni. Ovviamente, qui, società è sineddoche: sono
i ceti dirigenti di una società che decidono le politiche relative
ai bisogni individuali e collettivi, e che dunque dettano le norme
che regolano il mercato delle competenze e, in ultima analisi,
a decidere chi è competente e chi no.
Non
c’è da stupirsi, allora, che a una messa in discussione del ruolo
svolto dai ceti dirigenti di una società, che è un dato pressoché
costante ogni qual volta la risposta ai bisogni individuali e
collettivi non sia adeguata, si accompagni una messa in discussione
dei competenti che sono sul loro libro paga. È altrettanto
evidente perché non sia solo il loro ruolo ad essere messo in
discussione, ma la loro stessa competenza, che per quanto si è
fin qui detto, non può essere considerata avulsa dalle logiche che
hanno favorito un esperto rispetto a un altro, promuovendo a
competente l’uno, e l’altro no.
È
una imperdonabile ingenuità, infatti, quando non è sfacciata
malafede, sostenere che il sapere possa essere politicamente neutro.
Ne abbiamo già parlato su queste pagine qualche anno fa, in
occasione della ristampa de Il tradimento dei chierici di
Julien Benda (Einaudi, 2012). In questo libro, uno dei tanti che sono
più citati che letti, si denuncia la recente compromissione
dell’intellettuale col potere politico (il testo è del 1927 e
Benda scrive che la cosa ha preso piede «da cinquant’anni
a questa parte»), che sarebbe da considerare come una vera e
propria trahison, perché, quando è comme il faut,
l’intellettuale «non persegue fini pratici, ma, cercando
soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della
speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non
temporale, dice in qualche modo: “Il mio regno non è di questo
mondo”». L’intellettuale comme il faut, qui, non è
competente: sta fuori da ogni competizione indetta dal
regno di questo mondo, ciò che gli spetta è la sola
soddisfazione personale. Assumendo che buono, vero e bello trovino
assoluto nel trascendente, filosofo, scienziato e artista hanno
funzione ieratica, attendono al sacro ufficio del pontifex che
letteralmente costruisce il ponte tra trascendenza e immanenza.
In
realtà, sappiamo, il sapere nasce già compromesso col
potere, e questo vale per tutte le accezioni dei due termini.
In quale epoca della storia umana il sapere non si è fatto
strumento del potere? E come potrebbe essere altrimenti, visto
che l’intellettuale, al pari di ogni altro individuo, è sempre un
prodotto sociale perfino quando assume connotati antisociali? Pare
evidente, allora, che stupirsi – e, ancor più, indignarsi –
perché le competenze dei competenti sono messe in
discussione nei momenti di crisi riveli una fede nella trascendenza
di buono, vero e bello, nel filone che da Platone arriva a Hegel, e
purtroppo non s’arresta lì: solo immaginando che filosofo,
scienziato e artista ne siano i sacerdoti diventa scandaloso che essi
siano messi in discussione, e con essi le loro competenze. Noi
sappiamo, invece, che buono, vero e bello (morale, dati scientifici e
canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla
storia di una società, e non sono superiori o antecedenti all’uomo,
né in lui connaturati come universali ed eterni: sono sempre
dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali alla difesa di un
interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in
un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un
determinato numero di individui. Questo ci consente di non
considerare scandaloso che la competenza sia messa in
discussione: quando accade, non sentiamo venir meno il reverenziale
rispetto che si deve a un dio, ma la capacità di controllo sulla
società da parte dei suoi ceti dirigenti.
[segue]