In
un dibattito politico quasi sempre urlato, spesso degradato a rissa,
ormai da troppo tempo intollerabilmente intossicato dal ricorso
pressoché costante a pratiche di mistificazione e di impostura, una
voce che ci invita a ragionare, ad affrontare una questione armati
solo di buon senso, non può restare inascoltata. In questo caso,
poi, si tratta di una voce che chi sa apprezzare la sempre più rara
virtù dell’onestà
intellettuale non può non considerare amica, dunque porgiamo orecchio.
L’invito
di Massimo Bordin – chi lo conosce potrà tranquillamente chiudere
un occhio sul fatto che il suo invito parta dalle pagine del quotidiano più schifosamente renziano – è a far uso del solo buon senso per discutere di
quella che a molti è parsa esplicita intenzione di Matteo Renzi –
ora da lui risolutamente negata: gli sarebbe stata disonestamente
attribuita dai suoi avversari – di trasformare il referendum di
ottobre in un plebiscito sulla sua persona.
Questione interessante di
là dal caso che la solleva, perché attiene al più generale tema
della comunicazione in ambito politico. Qui, in sostanza, ci troveremmo di fronte
a un clamoroso misunderstanding. Ne sarebbe stato fatto oggetto
proprio l’uomo
politico che da tanti è considerato il più abile comunicatore
attualmente sulla piazza, sicché tertium non datur: o a Matteo Renzi
è stata disonestamente attribuita un’intenzione
che davvero non aveva, e allora c’è
da denunciare un odioso complotto ai suoi danni, o quanto ha detto in numerose occasioni rendeva chiara ed inequivocabile l’intenzione che gli è stata attribuita, e allora c’è
da segnalare la ritirata strategica di uno sbruffone, bugiardo
matricolato, spudorato quaquaraquà.
Prima di passare all’analisi
degli argomenti che portano Massimo Bordin a concludere che «se
perdo, vado a casa»
non intendesse affatto snaturare il senso del referendum sulla
riforma costituzionale, ma solo «anticipa[re]
una
conseguenza logica del voto di ottobre»
nel caso di una vittoria dei no, c’è
tuttavia da segnalare un motivo di perplessità riguardo al metodo
che egli ci propone: che significa «con
mente sgombra da sovrastrutture teoriche»?
Per «sovrastruttura
teorica»
dobbiamo
intendere quanto pretende di conferire sostanza veritativa a un
principio meramente assertivo, come quando l’espressione
è usata nei commentari di Diritto per richiamare a
un’interpretazione più consona allo spirito che alla lettera della
norma,
o invece parliamo della costruzione ideologica che impone alla realtà
l’astrazione
dei modelli analogici da cui procede, come accade nella più comune
violazione del metodo scientifico? Tutto sommato, è problema
marginale, forse il richiamo è solo a non vedere necessaria
confliggenza tra senso comune e buon senso. Continua a perplimere, ma passiamo al testo, sennò ci impantaniamo.
«Proviamo
a immaginare –
propone Massimo Bordin – che
il referendum di ottobre si concluda con una inequivocabile sconfitta
della riforma voluta dal governo. Cosa succederebbe?»,
si chiede.
«Di
sicuro l’opposizione chiederebbe con un certo vigore che il
governo, sconfitto su una questione certo non marginale, levasse il
campo. Non ci sarebbe obbligo, secondo Costituzione, ma visto che già
oggi non passa giorno senza che qualche esponente autorevole della
minoranza parlamentare intimi a Renzi di dimettersi, sarebbe a dir
poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si sentisse
dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non restate
al governo”. Non si capisce allora perché sia così grave che
Renzi abbia anticipato una conseguenza logica del voto di ottobre».
È qui che il dover dare per scontato che Massimo Bordin sia in buona
fede – mi è impossibile fare altrimenti – mi costringe alla sorpresa del constatare che il suo celebrato
acume non riesca a cogliere la differenza tra il dover far fronte
alle conseguenze di una sconfitta, come sarebbe la bocciatura di una
riforma sulla quale Matteo Renzi ha più volte detto di volersi giocare la
faccia, fra le quali vi sarebbe senza dubbio una richiesta di
dimissioni da parte delle opposizioni – dimissioni di cui comunque
non ci sarebbe obbligo – e il fare di questa eventualità una vera
e propria posta in gioco nel lanciare una sfida. Il dover dare per
scontato che Massimo Bordin sia in buona fede mi costringe alla
sorpresa nel leggere che tale sfida sarebbe già tutta implicita
dell’impossibilità
che si realizzi il caso «a
dir poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si
sentisse dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non
restate al governo”».
Da che mondo è mondo, quand’è
che un governo è tenuto a ritenere fondate le richieste delle
opposizioni, se queste sono al di fuori delle condizioni poste dalla
Costituzione? È legittimo che, anche al di fuori di tali condizioni,
le opposizioni dicano «se
perdi, vai a casa»,
ma dire «se
perdo, vado a casa» da
Presidente del Consiglio cambia inevitabilmente il senso della
partita.
È il caso che si ebbe con le Amministrative del 2000:
nessuno obbligava Massimo D’Alema
a lasciare Palazzo Chigi dopo la batosta presa dal suo partito, ma
prima del voto aveva ripetutamente legato la sopravvivenza del
governo da lui presieduto al risultato di quelle elezioni,
personalizzandone il significato. Forse non ne aveva neppure voglia, ma accadde che un giornalista gli gettò il guanto e lo sventurato raccolse la sfida. È probabile che, dopo quella
batosta, le opposizioni avrebbero comunque chiesto le sue dimissioni,
ma, se non le avesse messe nel piatto, chi avrebbe potuto pretenderle
come atto dovuto?
Se è vero, d’altronde,
che Matteo Renzi è legittimamente alla guida del governo – non ha
mai avuto tale investitura dall’esito
di elezioni politiche, ma la Costituzione non la rende necessaria per
andare a Palazzo Chigi – non è altrettanto vero che ha più volte
preteso che tale investitura gli sarebbe stata conferita dal
risultato delle Europee del 2014? È errato affermare che ci troviamo
di fronte a un tizio per il quale la Costituzione a volte è tutta
letterale e a volte è tutta materiale? Nega, oggi, di aver voluto,
fino a ieri, fare del referendum di ottobre un plebiscito sulla sua
persona, ma è evidente che questo sia dovuto solo al timore di aver
caricato la sfida di un peso che non è più sicuro di poter reggere.
Nel voler legare il risultato del referendum di ottobre alla sua
permanenza al governo vi era la convinzione che le urne gli
assicurassero l’approvazione
della sua riforma costituzionale per scongiurare una crisi dagli
sviluppi incerti e dalle conseguenze potenzialmente gravissime, prima fra tutte la tremendissima ingovernabilità, che oggi fa più paura dell’anarchia: era un
modo per dire che a lui non c’erano
alternative credibili, ma adesso, con i guai giudiziari in cui
annaspa il suo partito, sente di non poterlo più dire. E dunque, sì,
non ha mai detto testualmente «dopo
di me, il diluvio»,
ma l’ha
abbondantemente dato a credere, in ciò sostenuto anche da chi non
gli ha risparmiato critiche: meno peggio di Berlusconi, meno peggio
di Grillo, meno peggio di Salvini – così, più o meno, si
argomentava – e altri in giro non ce n’è,
dunque teniamocelo. Ma comincia a farsi strada, seppur molto
lentamente, troppo lentamente, che in realtà, peggio di lui,
nessuno. Matteo Renzi lo ha capito:
«Personalizzare
lo scontro non è il mio obiettivo...»,
dice; con una faccia tosta che ormai non ci stupisce più, aggiunge:
«...
ma quello del fronte del No».
Quale buon senso, quale logica, quale mente sgombra da sovrastrutture
teoriche può tollerare questa patente menzogna?
Manderei a cagare
chiunque provasse a dimostrarmi che Matteo Renzi non avesse
intenzione di personalizzare il referendum di ottobre, ma qui,
forzandomi a quella signorilità tutta eufemismo ed ironia che è la
sua cifra inconfondibile, a Massimo Bordin mi limito a dire:
direttore, ma sa che non mi ha convinto?