sabato 27 ottobre 2018

Io la penso come Daniele Luttazzi



Io la penso come Daniele Luttazzi: «La satira, per definizione, è contro il potere. Contro ogni potere. È una combinazione di ribellione e irriverenza e mancanza di rispetto per l’autorità» (Lepidezze postribolari ovvero Populorum Progressio, Feltrinelli 2007 – pag. 103), perciò mi chiedo cosa sia quella di Makkox, che chiude la puntata di Propaganda live di venerdì 26 ottobre con una striscia davvero invereconda: sulla cover della sigla finale di Goldrake cantata da Alessio Caraturo, un tenero Mattarella con mantello tricolore sfreccia nel cielo, quando ad un tratto – puf! – gli vengono meno i superpoteri (è chiaro debba esserci lo zampino di Vega, cioè di Beppe Grillo) e – zow! – precipita, ma per fortuna, ad impedirgli di spiaccicarsi al suolo, ecco una selva di braccia ad afferrarlo al volo – sfrunf! – riavendone un «Grazie, amici! Sapete, qualcuno pensa che i miei poteri mi rendano troppo “potente”, ma non capisce che quelli, i poteri, senza di voi, non ci fai nulla», che miete tanti adoranti cuoricini.
«Ribellione e irriverenza»? Non ne vedo traccia. Tanto meno vedo traccia di «mancanza di rispetto per lautorità», anzi, direi si tratti di una esemplare prova di sfacciata leccaculaggine.
Se non è satira, allora, cosè? Per trovare una risposta credo si debba riandare alla lettera con la quale, a giugno, il Presidente della Repubblica esprimeva il suo personale apprezzamento per come la trasmissione condotta da Diego Bianchi aveva «seguito, con sguardo scanzonato ma mai banale, la complicata fase delle consultazioni per la formazione del governo».
Uninvestitura, in buona sostanza. È che durante quella «complicata fase delle consultazioni» nasceva l’ennesimo Partito del Presidente, una costante nella vita politica italiana, giacché ogni settennato ha avuto il suo. Partito assai sui generis, ovviamente, cui un canale di comunicazione extra-istituzionale torna estremamente utile. Tacitamente si saldava il patto: voi mi scaldate la platea e io vi faccio la marchetta, poi, vedremo, può darsi che nel 2022 possano scapparci pure due onorificenze da cavalieri del lavoro. 
Ma può darsi che questa sia una lettura eccessivamente dietrologica. In tal caso si potrebbe ripiegare sul banale, che è il miglior rasoio di Occam. Perché in fondo anche ai tempi di Gronchi al Quirinale cera un gran via vai di donnine del mondo dello spettacolo. Nessuna faceva satira, però. Anzi, si mormorava che il satiro fosse Gronchi.




mercoledì 24 ottobre 2018

Paragonarlo a Scalfaro o a Napolitano è vilipendio?


Visto che la Costituzione contempla la possibilità che il Presidente della Repubblica invii messaggi alle Camere, e che sono le Camere a dover dire lultima parola sulla Legge di Bilancio, della quale il Governo annuncia di non essere disposto a cambiare neppure una virgola, non si capisce perché Mattarella abbia scelto l’Assemblea dellAnci per lanciare il suo richiamo al rispetto dellequilibrio di bilancio, con evidente riferimento allart. 81 della Costituzione, che tuttavia non fa cenno a Sindaci o a Comuni neppure di striscio.
Non si capisce a voler far finta di esser stupidi, perché in realtà si capisce, eccome. Non era importante dove e a chi, ma quando, e dunque perché: il suo richiamo voleva cadere a cavallo della prevedibile bocciatura della Manovra di Governo da parte del Consiglio europeo, e dunque intendeva assumere un peso politico, che poi è la tentazione a cui nessun inquilino del Quirinale ha mai saputo resistere. Pessima abitudine, perché lattività di indirizzo politico non spetta a chi è chiamato ad essere garante del dettato costituzionale.
Si potrà obiettare che in effetti Mattarella è intervenuto per richiamare al rispetto di un articolo della Costituzione. Non cè dubbio, ma lo ha fatto sbagliando momento e modo: altra cosa se avesse scelto di affidare il suo richiamo ad un messaggio alle Camere allorquando queste fossero state in procinto di affrontare la discussione sulla Legge di Bilancio. Ma cosa avrebbe potuto dire in quel messaggio? Cosa avrebbe potuto aggiungere o togliere ad un articolo che, pur pretendendo di imporre chissà cosa al legislatore, in realtà non gli impone niente?
«Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», certo, ma quale Legge di Bilancio dichiara esplicito squilibrio tra le due voci? E, certo, deve farlo «tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico», ma a chi spetta riconoscerle come avverse o favorevoli? In quellarticolo, poi, è fatto divieto di ricorrere allindebitamento? Macché, «il ricorso all’indebitamento è consentito», sebbene «solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico», e «al verificarsi di eventi eccezionali». Ma chi è tenuto a considerare questi effetti, a valutare leccezionalità degli eventi che motivano il ricorso all’indebitamento, e quindi ad autorizzarlo? Le Camere, appunto, nelle quali i giallo-verdi hanno una solida maggioranza.
Mattarella sa bene che le Camere sarebbero sorde a un suo messaggio, e dunque sveste i panni del garante della Costituzione che sta al di sopra delle parti per indossare quelli dellattore politico che scende in campo per opporsi alla linea economica del Governo. Illegittimo, certo, ma ampiamente prevedibile: sono passati tre anni e mezzo da quando è stato eletto al Quirinale, di solito un Presidente della Repubblica non resiste più di tanto nel restare super partes. Cosa prometteva che potesse essere meglio di uno Scalfaro o di un Napolitano?

Mi assale un dubbio: paragonarlo a Scalfaro o a Napolitano è vilipendio? 

martedì 23 ottobre 2018

Di quanta residua Monarchia ha bisogno la nostra Repubblica?


Con un referendum che aveva visto vincere la Repubblica sulla Monarchia per meno di due milioni di voti, è comprensibile che i vincitori volessero evitare che la guerra civile tra fascisti e antifascisti si riaccendesse, previo rimpasto delle parti in campo, tra monarchici e repubblicani. Si risolsero, così, col dare al Presidente della Repubblica un profilo assai simile a quello di un monarca, conferendogli molti dei poteri che lo Statuto Albertino aveva conferito al Re, lasciandogli comunque in simulacro quelli che andavano di fatto al Parlamento, al Governo e alla Magistratura, nella classica tripartizione che andava a rompere lunità del potere autocratico, seppur mitigato da un ottriato. Perfino nella scelta del primo Presidente della Repubblica si preferì puntare su chi potesse vantare notoria fede monarchica, per attenuare il trauma di vedere assiso al Quirinale altri che un Re, e si scelse Enrico De Nicola, che, ritenendo sacrilego usurpare il Quirinale, elesse a sua sede Palazzo Giustiniani.
Come il Re dello Statuto Albertino entrato in vigore nel 1848, anche il Presidente della Repubblica della Costituzione entrata in vigore nel 1948 rappresentava lunità nazionale, promulgava le leggi, scioglieva le Camere, era a capo delle Forze Armate, dichiarava lo stato di guerra, aveva potere di grazia. Di tutto il resto conservava un qualche succedaneo: dove poteva sanzionare le leggi, ora poteva rimandarle alle Camere; dove nominava i giudici, ora diventava Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura; dove la sua persona era «sacra e inviolabile», ora il Codice Penale dichiarava «vilipendio» loffesa alla sua persona, al pari di quella alla religione.
La storia non concede controprove, sta di fatto che questi accorgimenti risultarono efficaci a tener buoni i monarchici. Ma oggi – oggi che i nostalgici della Corona sono solo quattro gatti del tutto inoffensivi – ha senso un Presidente della Repubblica che surrogando il potere di nominare un numero illimitato di senatori a vita che lo Statuto Albertino assegnava al Re (art. 33) vede riconosciuta dalla Costituzione la facoltà di nominarne cinque (art. 59)? Ha senso, oggi, che un Presidente della Repubblica possa godere della stessa discrezionalità di veto sulla nomina dei ministri che a Vittorio Emanuele III consentì di far fuori Facta per far posto a Mussolini?
Sull’ipotesi di rafforzare i poteri del Presidente della Repubblica, in un più generale progetto di riforma costituzionale che trasformasse la nostra Repubblica parlamentare in una Repubblica presidenziale, non si è mai gridato allo scandalo, anzi, la questione continua ad essere dibattuta di tanto in tanto, fin dai tempi di Pacciardi. E allora che c’è di blasfemo nell’ipotesi di aprire un dibattito sull’opportunità di ridimensionarli? Beppe Grillo è Beppe Grillo, d’accordo, ma cosa c’è di eversivo nella sua proposta di rivedere le prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato?
Più in generale: di quanta residua Monarchia ha bisogno la nostra Repubblica?

venerdì 19 ottobre 2018

«La fase storica è naturalmente diversa»


Nel 1945, per i tipi della University of Pennsylvania Press, usciva un volume di Arcangelo William Salomone dal titolo Italian Democracy in the Making, che apriva con una lunga Introduzione di Gaetano Salvemini, dalla quale Claudio Cerasa estrae due passaggi (pagg. XV e XXVIII-XXIX) che finiscono nelleditoriale col quale sapre Il Foglio di giovedì 18 ottobre.
Prima di riportare qui il virgolettato, per poi passare a considerare luso strumentale cui viene piegato, occorre precisare che i due brani tratti dallIntroduzione sono riportati fedelmente (fa eccezione linciso «ed era» del primo periodo, racchiuso tra due virgole su Il Foglio e tra due trattini nel testo originale, il che ovviamente è irrilevante) e che il loro accostamento non tradisce il pensiero di Salvemini per quanto viene ad essere eliso nel mezzo. Precisazioni che potrebbero sembrare superflue, ma che qui invece sono necessarie, perché negli ultimi anni Il Foglio non si è fatto scrupolo di servirsi anche di infimi mezzucci per il suo piccolo cabotaggio nella palude della cronaca politica italiana: premettere che stavolta non se n’è fatto uso vuol far da viatico alla speranzuola che il giornale fondato da Giuliano Ferrara possa tornare ai tempi in cui mistificava in modo assai più raffinato, ruminando i paralogismi di Ratzinger invece di sfondarsi coi popcorn di Renzi. Ma veniamo al Salvemini di Cerasa.

«Mentre noi riformatori assalivamo Giolitti dalla sinistra accusandolo di essere, ed era, un corruttore della democrazia in cammino, altri lo assalivano dalla destra, perché era anche troppo democratico per i loro gusti. Le nostre critiche non favorirono una evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia, ma favorirono la vittoria dei gruppi militaristi, nazionalisti e reazionari che trovavano la democrazia di Giolitti anche troppo perfetta... Se mi trovassi nuovamente in Italia fra il 1900 e il 1914 con quel tanto di esperienza che ho potuto mettere insieme nei trent’anni successivi, non tacerei nessuna delle mie critiche al sistema giolittiano, ma guarderei con maggior sospetto a coloro che si compiacevano di quelle critiche, non perché essi volessero condurre l’Italia dove noi avremmo voluto che arrivasse, ma precisamente nella direzione opposta».

Un ripensamento sul giudizio dato nel 1910 con Il ministro della mala vita? Macché, Giolitti rimane il «corruttore della democrazia» che era. Se sul «sistema giolittiano», dunque, non ha cambiato idea, di cosa si cruccia, Salvemini? Del fatto che le sue critiche a Giolitti «non favorirono una evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia». Lo indebolirono, probabilmente, ma più da destra che da sinistra. Non nasconde la sua amarezza al riguardo, Salvemini, ma si sente in colpa per averlo indebolito con quelle accuse? Niente affatto: «Se mi trovassi nuovamente in Italia fra il 1900 e il 1914 [...] non tacerei nessuna delle mie critiche». E allora di cosa si sente colpevole, se in ciò che scrive cè proprio da leggere un rimprovero a se stesso? Del non aver guardato «con maggior sospetto» al compiacimento che «militaristi, nazionalisti e reazionari» traevano da quelle sue critiche.
Io qui azzarderei unipotesi. Salvemini sapeva che «militaristi, nazionalisti e reazionari» non volessero affatto «una evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia»? Non cè da dubitarne. E allora perché afferma che, potesse tornare al 1910, non si farebbe scrupolo di riscrivere Il ministro della mala vita? Le sue critiche hanno indebolito Giolitti aprendo la via al fascismo (ne «favorirono la vittoria», dice), e ciò nonostante pensa che fossero ugualmente necessarie? Lonestà intellettuale, per Salvemini, imponeva costi così gravosi? La sua biografia risponde: sì. Quale cruccio, allora? Quale senso di colpa? Credo che ce lo riveli il seguente passaggio: «guarderei con maggior sospetto a coloro che si compiacevano di quelle critiche». È un termine appropriato, quel «compiacimento»? Non è più probabile che fosse stato lui a compiacersi del fatto che quel suo pamphlet incontrasse un plauso trasversale, a sinistra e a destra? E non è più probabile, dunque, che nel 1945 Salvemini si penta solo di quel suo peccato di orgoglio intellettuale, che dinanzi alla tragedia del ventennio fascista rischia di essere rubricabile a sciocca vanità? Lasciamo perdere, in fondo questa era solo una digressione. Torniamo alleditoriale di Cerasa, per il quale la «lezione di Salvemini» torna buona ai nostri giorni, a biasimo di chi ha criticato i guasti della Prima, della Seconda e della Terza Repubblica, rendendosi con ciò «complice» – sì, dice proprio «complice» – dei barbari che oggi devastano il sancta sanctorum della democrazia italiana: «La fase storica è naturalmente diversa – scrive Cerasa – ma a voler osservare con attenzione il modo in cui chi doveva combattere gli anticasta è finito invece per essere spesso complice degli anticasta, viene naturale ricordare una riflessione fatta da Gaetano Salvemini alla fine della Seconda guerra mondiale relativa al logoramento della democrazia liberale generato dalla battaglia senza quartiere organizzata contro il giolittismo prima dell’avvento del fascismo»; e qui segue la citazione sopra riportata.

«La fase storica è naturalmente diversa» serve a stornare lattenzione dal fatto che, come vedremo, il parallelo è in realtà assai sghembo. Perché, se non lo fosse, significherebbe che Cerasa, come Salvemini in Giolitti, individua in Craxi, in Berlusconi e in Renzi tre «corruttori della democrazia». Verso chi erano rivolte, infatti, le critiche di chi denunciava un deficit di democrazia in Italia? Se il parallelo non è sghembo, perché non avrebbero dovuto rivolgerle ai quei «corruttori della democrazia», visto che neppure il senno del poi fa cambiare idea a Salvemini? Irricevibile, allora, linvito con cui Cerasa chiude il suo editoriale: «Provate a sostituire la parola “Giolitti”con la parola “casta”e avrete forse chiaro perché quella che abbiamo cominciato a chiamare casta in realtà non era altro che qualcosa di più prezioso: il nostro amore per la parola democrazia».
Dovremmo dedurne che Salvemini amasse Giolitti, ma non ne fosse conscio, visto che gli dava del «ministro della malavita» nel 1910 e del «corruttore della democrazia» nel 1945.

Salvemini morirà nel 1957: avrà tempo per dare occasione a Cerasa di poter dire che in fondo, seppur in fondo in fondo, amasse Giolitti? Per dirla alla francese, manco per il cazzo.
Nel 1952, per Il Ponte, una rivista fiorentina, Salvemini firma un lungo articolo dal titolo «Fu lItalia prefascista una democrazia?», nel quale c’è tutto l’impeto antigiolittiano del 1910 e neanche un po’ del senso di colpa – se senso di colpa era – del 1945. Ora, se ciò che viene dopo (1945) è sempre da considerare più ponderato e saggio di ciò che viene prima (1910) – così sembra farci intendere Cerasa – con ciò che viene dopo il dopo (1952) dovremmo essere al culmine della ponderazione e della saggezza. E cosa scrive, Salvemini, in questo articolo?
Giolitti non è più il «corruttore della democrazia», ma il «precursore» di Mussolini. Il sistema giolittiano non anticipò cronologicamente il regime fascista, ma ne fu la premessa. «La differenza fra Mussolini e Giolitti era in quantità e non in qualità. Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada». Proviamo anche qui a «sostituire la parola “Giolitti” con la parola “casta”»?

mercoledì 17 ottobre 2018

Giuro che poi


Un’ultima cosa sui marxisti, e dunque inevitabilmente su Marx, giuro che poi non ci tornerò più sopra, passando ad altro. Si tratta della controbiezione che nel repertorio del marxista militante ha lo stesso rilievo che in quello del prestigiatore ha il numero del coniglio estratto dal cilindro: all’obiezione che Marx non è uno scienzato, perché la sua teoria non supera il vaglio del metodo scientifico per poter essere qualcosa in più di una teoria (e ciò, sia chiaro, al pari di ogni teoria formulata nell’ambito delle cosiddette «scienze sociali»), si controbietta che anche il metodo scientifico è «irrimediabilmente segnato dal processo riproduttivo del capitale» (virgolettato come estratto dal cilindro del prestigiatore capitato a me), come daltronde lo è tutto ciò che oppone resistenza a Marx.
Coniglio gnostico, a ben vedere, perché riproduce lo schema che nega la possibilità di cogliere lineffabilità dello spirito se non uscendo dalla carne degradata dal peccato: in sostanza, Marx è compreso a dovere solo quando gli si dà completamente ragione; se questo non accade, è dato solo il fraintenderlo, poco importa se in buona o in cattiva fede, perché in entrambi i casi cè sempre lo zampino del Maligno – pardon, del capitale.
Poi si incazzano quando dici che la loro è una religione.

domenica 14 ottobre 2018

Fine



Il difetto principale di ogni dialettica, compresa quella del cosiddetto «materialismo dialettico», sta nel considerare ineluttabile che la tesi e lantitesi abbiano culmine in una sintesi che da esse è prefigurabile. Con Marx è accaduto – per dirla come ce la racconta Engels – che «la dialettica hegeliana veniva raddrizzata», ma senza perdere il suo carattere teleologico: lumanità continuava ad avere un fine prestabilito, cui ineluttabilmente tendeva in «un ininterrotto processo di origine e di decadenza, attraverso il quale, malgrado tutte le apparenti casualità e malgrado ogni regresso momentaneo, si realizza, alla fine, un progresso continuo». Una storia umana che ha un fine, e dunque, necessariamente, anche una fine. Con quanto di assiologico viene così a sussumersi nel teleologico.
Se alla storia assegniamo un «senso», cui la teleologia dà laccezione di «direzione» e lassiologia quella di «significato», non ne possiamo fare oggetto di «scienza», la cui natura è congetturale e avalutativa. Ne consegue che, a dispetto di ciò che di sé millanta, quella di Marx non è scienza. La scienza non può assolutamente servirsi della dialettica, che in sostanza è rigetto del principio di non-contraddizione, che è la base di ogni discussione razionale: rigettarlo apre la via ad ogni genere di arbitrarietà, come in realtà accade con Marx, in cui ogni conclusione si piega alla premessa, in forza del fatto che la realtà è contraddittoria e che la contraddizione è lessenza del pensiero.
Quella di Marx non è una scienza, è unideologia a carattere religioso, e dalla dimensione del religioso trae i suoi più distintivi connotati: religiosi sono i suoi tratti profetici e chiliastici; religioso è il culto della sua «verità»; religiosa è la sua postura messianica; religioso è il tenore del suo attivismo; religiosa è la smania proselitaria dei suoi accoliti; di natura religiosa sono i conflitti che sono nati al suo interno, tutti consumatisi sulla corretta esegesi del «verbo», di per sé abbastanza ambiguo e vago da consentire la sporulazione di mille sette, tutte convinte di incarnare lortodossia. Tipicamente religioso è lanelito che impronta la sua dimensione esistenziale. Tipicamente religiosa è la sua incapacità di pensare all’individuo (sia a quello che appartiene a una classe, sia quello che apparterrà ad una società senza classi) altrimenti che a unità-base di una comunità omogenea per portato motivazionale. Tipicamente religioso è il suo rifiuto di saggiare la bontà della sua dottrina sulla effettiva possibilità di metterla in pratica.
Su questultimo aspetto è evidente lipoteca hegeliana che pesa sul marxismo. Alla scoperta di Urano, che smentiva la teoria esposta nel suo De orbitis planetarum, si dice che Hegel abbia obiettato: «Se i fatti non si accordano alla teoria, tanto peggio per i fatti». Non dissimile è l’obiezione dei marxisti al rilievo che non una – non una – delle esperienze storiche ispirate alla dottrina che promette il paradiso in terra è stata poi capace di rivelarsi troppo diversa da un vero e proprio inferno: se era inferno, non era marxismo.
Non è lecito il sospetto che questa religione, al pari di ogni religione, abbia in sé stessa la vocazione totalitaria? Non è lecito credere – come dice Monod – che «il profetismo storicistico fondato sul materialismo dialettico era fin dalla nascita gravido di tutte le minacce che si sono poi effettivamente realizzate»? No, il sospetto suona a insulto al «Grande Vecchio» e a denigrazione del socialismo. Perché, per il marxista comme il faut, socialismo e marxismo coincidono, a dispetto del fatto che il primo si limita a voler porre leconomia sotto il controllo della società, mentre il secondo vuole in sostanza abolire leconomia in quanto tale, realizzando lomnipervasività dello stato. Non è stato proprio questo stato che abbiamo visto all’opera nei paesi del cosiddetto «socialismo reale», quello che di ogni altro socialismo segnalava la pecca di non essere «scientifico»?
C’è stato chi lo aveva previsto: «Nello stato popolare di Marx, ci si dice, non ci saranno classi privilegiate. Tutti saranno uguali, non solo dal punto di vista giuridico e politico, ma anche dal punto di vista economico. […] Secondo Marx, il popolo non solo non deve distruggere lo stato, ma al contrario deve rafforzarlo, renderlo ancora più potente e, sotto questa forma, metterlo a disposizione dei suoi benefattori, dei suoi tutori e dei suoi educatori, i capi del partito comunista: in una parola, a disposizione di Marx e dei suoi amici, che cominceranno subito a liberarlo a modo loro. Prenderanno in mano le redini del governo, perché il popolo è ignorante e ha bisogno di tutela; creeranno la banca di stato unica che concentrerà nella proprie mani il commercio, l’industria, l’agricoltura e perfino la produzione scientifica, mentre la massa del popolo sarà divisa in due armate: l’armata industriale e quella agricola, al cui comando ci saranno gli ingegneri di stato che formeranno una nuova casta privilegiata».
Era Bakunin, che aveva il grave difetto teoretico di essere un ubriacone, certo, ma perché ostinarsi a leggere in altro modo una profezia – quella marxista – che si è sempre realizzata solo in questi termini? Cosa può dar forza a questa ostinazione, se non la fede? Un altro tratto religioso. Che, da un lato, conferma ciò che qui si è detto sulla reale natura del marxismo e, dallaltro, giacché «le idee camminano sulle gambe degli uomini», lascia prevedere forma e sostanza dei commenti che pioveranno su questo post.
Io li leggerò come proteste di credenti che hanno visto frainteso – e perciò insultato – il «verbo»: accetterò con un sorriso la beffa e lo sdegno, la condanna per blasfemia e il pietoso tentativo di soccorrere il peccatore sullorlo dellabisso, la diagnosi di disperata resistenza al Dio di cui ho fatto esperienza e la prognosi di infausta ricaduta nel liberalismo di quei finocchi di Russell e Popper. Tutto con un sorriso, riservandomi di cestinare tutto ciò che mi parrà trolling. In fondo, questo blog – per il momento – è proprietà privata.

martedì 9 ottobre 2018

El infeliz destino del progreso




«... más razonable, más inepto, más haragán...»
Jorge Luis Borges, Ficciones (Prólogo)


Contrariamente a quel che era abilmente riuscito a far credere negli anni che precedettero la morte di suo padre, il principe ereditario non era affatto un innovatore.
Col senno di poi qualche sospetto poteva porsi, ma non si pose. Per esempio: perché un conservatore come suo padre – e che conservatore! – aveva designato proprio lui, secondogenito, alla successione? Si pensò che letà, e ancor più la lunga malattia che aveva pesantemente segnato gli ultimi dieci anni della sua vita, avesse temperato il suo giovanile rigore, facendogli capire che la strenua e intransigente difesa della tradizione, che aveva incisivamente contraddistinto il suo lungo regno, fosse vana; che qualche riforma fosse necessaria; che, non avendo le forze necessarie per gestirla in modo adeguato dopo averla avviata, fosse più saggio affidarla a quel ragazzo che fin dalla più tenera infanzia aveva dato prova di una brillante intelligenza, unita a una straordinaria larghezza di vedute, che tuttavia non aveva mai dato spazio a eccessi o, peggio, a bizzarrie. Tutto il contrario del primogenito: vizioso, irresponsabile e, quel che era peggio, incapace perfino di figurarsele, la tradizione e l’innovazione .
Per chi voleva che le cose cambiassero fu un tragico errore il pensarlo, e ancor più lo fu il nutrirne la speranza con lo stringersi attorno al principe offrendogli lanticipo di una piena ed entusiastica adesione allimplicita promessa di grandi trasformazioni che sembrava di poter esplicitamente leggere nelle frasi che gli facevano da tappeto nell’avanzare verso la successione da sovrano illuminato.
Col senno di poi qualche sospetto poteva porsi, ma non si pose. Così, quando lanziano re morì, chi aveva tanto atteso tempi nuovi non seppe tenere a freno lentusiasmo e al principe ereditario soffrì interamente nudo, spoglio dogni cautela, palesando tutte le proprie insofferenze al peso dellopprimente vecchiume, in più dun caso esagerando pure. Senza saperlo si stava scavando la fossa, perché stava salendo al trono chi aveva in mente fin dallinfanzia di soffocare nel sangue, in via definitiva, ogni pur flebile richiesta di ogni pur minima innovazione: la fama di riformatore che il principe ereditario si era cucito addosso era solo unesca per far uscir dallombra i nemici della tradizione, e il piano era stato concordato col padre. È che, sebbene non avessero le forze necessarie a sovvertire lo stato delle cose, era da tempo che costoro avevano preso a corroderlo dal suo interno, spargendo nel regno i veleni del dubbio e del malcontento, sperando che prima o poi avrebbero sollevato la ribellione dei sudditi, né avevano esitato a stringere un segreto patto coi sovrani dei regni confinanti per un aiuto militare, quando sarebbe stato necessario.
Il piano messo in atto dal re e da suo figlio aveva dato ottimi risultati: la speranza che sul trono stesse per salire un innovatore aveva allentato le trame, e tuttavia padre e figlio sentivano la necessità di far piazza pulita di ogni opposizione interna, per sempre. Cera bisogno che ogni nemico della tradizione venisse allo scoperto, e il piano prevedeva che la morte del re dovesse essere la migliore occasione. Così fu, perché la gara a offrirsi come fedeli esecutori del programma di riforme che si riteneva ora fossero prossime, diede modo di stanare anche chi si era abilmente occultato per decenni. Nellelenco di chi doveva pagare il prezzo finì pure qualcuno che era stato un sincero conservatore, quando sul trono sedeva un re conservatore, e che ora era altrettanto sinceramente disposto ad assecondare le riforme di un re riformatore: più che di un conservatore, prima, e di un riformatore, ora, si trattava dellimmancabile conformista che vuol rimanere sempre a galla, quindi era sacrificabile senza scrupoli alla riuscita del piano.
Era venuto il momento di chiudere i conti: il nuovo re annunciò che tutto sarebbe cambiato, e che per il cambiamento aveva bisogno del consiglio e del sostegno dei più convinti sostenitori dellinnovazione, li convocava in unassemblea di saggi che sarebbe stata la fucina di un radioso avvenire di progresso. Intanto disponeva nel dettaglio quello che sarebbe stato un massacro: convenuti nel luogo dove erano stati convocati, avrebbero appreso dalle sue stesse labbra in quale trappola fossero caduti e quale sorte li attendesse – già ne pregustava la sorpresa e la disperazione – per poi dare il segnale a che iniziasse il macello, affidato agli armati accuratamente predisposti al compito.
Aveva intenzione di tenere un discorso che allinizio provvedesse a beffardamente entusiasmare i convenuti, per poi gettarli nello smarrimento, e poi nello sgomento, e infine nel terrore. Dopo aver pensato e ripensato, si risolse a ricorrere a un apologo: si trattava dellapologo contenuto in un antico testo che per i cultori della tradizione era una vera e propria bibbia, e che ormai da tempo nessuno più leggeva. Lapologo narrava di un re che smascherava i suoi nemici grazie a un ingegnoso tranello, per poi consegnarli al boia: era lapologo che aveva ispirato il piano concordato con suo padre. Gli sembrò che coronasse al meglio i lunghi anni in cui aveva dovuto accuratamente celare i suoi reali intendimenti, fingendo di essere quello che non era.
Venne il giorno. Salì sul palco dal quale si preparava a tenere il suo discorso accolto da urla di giubilo e fragorosi scrosci di applauso. E cominciò, tra larghi sorrisi di adorante approvazione. Quando attaccò con l’apologo, accadde l’imprevisto. A fare il nome di quel re, un campanello d’allarme suonò nella testa di uno dei convenuti. In uno solo. Il solo che avesse letto il libro da cui era tratto quell’apologo.
Era tra quanti avevano maggiormente sperato in una stagione di rinnovamento. In un istante capì cosa stesse per accadere, in un attimo trovò il modo per salvarsi: afferrò un candelabro e si lanciò sul palco gridando «morte al rinnegato! morte al traditore della tradizione!». Fu subito immobilizzato dalle guardie del corpo che circondavano il re, che diede l’ordine di portarlo via. Dalla platea che aveva avuto un fremente sussulto di apprensione, prima, e un potente moto di sdegno, dopo, partirono insulti e maledizioni, che il re sedò con un gesto che a tutti sembrò di larga liberalità, quasi a promettere che le riforme a venire avrebbero dato segno della più piena tolleranza verso tutti. E questo fece un grande effetto, riscaldando ulteriormente il cuore dei convenuti. Per poco, perché dopo poco fu gelato, e subito trafitto dal ferro.
Una carneficina: nel giro di mezz’ora vennero eliminate tre generazioni di saggi che avevano sognato il cambiamento. In quanto all’uomo che era stato fermato nel suo tentativo di uccidere un re che minacciava di rinnegare la tradizione, era giusto che venisse premiato con la carica di primo ministro da un re che in realtà intendeva difendere la tradizione dai suoi nemici: chi meglio di lui, pronto ad immolarsi pur di far fuori chi minacciava l’integrità della fede e dei costumi, poteva assicurare la necessaria assoluta fedeltà? E così fu. Dopo essersi goduto il massacro, il re si recò a fargli visita, gli spiegò tutto, lo ricoprì di elogi e lo nominò primo ministro. Nessuno, ora, sarebbe stato più vicino al re: ucciderlo per vendicare tutti quei morti, ma soprattutto per punirlo della sua malvagia astuzia, sarebbe stato un gioco.
Beh, questo non accadde. Il re e il suo primo ministro vissero entrambi a lungo, e la tradizione fu restaurata.

domenica 7 ottobre 2018

Una scienza dei fini? / 2


3. Il marxismo si dà statuto di superiore conoscenza – insieme, scientifica e normativa – traendone ragione dall’impiego del metodo dialettico. Se dunque è la dialettica ad essere il fondamento del marxismo, metterla in discussione significa avanzare dubbi sulla teoria e sulla prassi del «socialismo scientifico» – quello di Marx ed Engels, appunto – senza che peraltro questo implichi necessariamente una critica radicale al socialismo, che d’altronde nasce assai prima di Marx ed Engels, e che dopo Marx ed Engels vede multiformi sviluppi di teoria e prassi, non di rado anche distanti da quelle del «socialismo scientifico», col quale sono in aspra polemica.
Un primo dubbio è sulla stessa possibilità di una «scienza» che si dichiara fondata su un metodo, quello dialettico, che è proprio della filosofia, e, nello specifico del «materialismo dialettico» che informa il «socialismo scientifico», della dialettica di Hegel.
Ora, è vero che Marx riesce a presentarsi a noi come post-hegeliano che più incisivamente sia stato in grado di criticare e superare l’idealismo hegeliano. Resta di fatto, tuttavia, che della filosofia hegeliana ha fatto suoi, senza abbandonarli mai, i principi epistemologico-ontologici che le stanno a fondamento.
La prima a cogliere questa continuità, peraltro inserendola in una linea di pensiero che a Marx arriverebbe, tramite Hegel, addirittura da Aristotele, è la stessa Arendt per la quale «chiunque tocchi Marx tocca la tradizione occidentale», e che, mettendosi al riparo dai possibili strali delle allora folte ed agguerrite schiere di marxisti accampate in ogni angolo del mondo, ne difende il lascito dicendo che «accusare Marx di totalitarismo equivale ad accusare la tradizione occidentale stessa di terminare necessariamente nella mostruosità di questa nuova forma di governo» (Karl Marx and the Tradition of Western Political Thought, 1953).
Al di sopra di ogni sospetto di nequizioso intento mirante a scalfire l’autorevolezza di Marx, la Arendt segnala che in lui persistono i principi dell’idealismo hegeliano, e cioè che: (1) la realtà non si esaurisce nei suoi elementi materiali, essendo mossa dall’interno da quelle che per Marx sono «determinazioni formali non percepibili che strutturano e unificano la realtà empirica»; (2) tra determinazione materiale e determinazione formale vi è eterogeneità, perché la prima riguarda l’ambito delle cose particolari e finite, mentre la seconda inerisce a ciò che ad esse dà connessione e sintesi; (3) la Forma (qui con la maiuscola come ricorre nei testi di Hegel) è operatrice dialettica dei limiti di ciò che è materiale (in ciò è del tutto simile alla Form della Formbestimmung che così spesso ricorre nei Grundisse); di conseguenza, (4) la conoscenza scientifica è possibile solo come realizzazione (non già come scoperta) di un principio.
A me tutto questo basta e avanza per veder gravare una pesante ipoteca di idealismo sulla «scienza» che si pregia di essere informata dal «materialismo dialettico», almeno per come la scienza è concepita da Popper in poi: ipoteca che diventa pesantissima a constatare che il «socialismo scientifico» si compiace di dare sacralità di dogma alle sue verità e assetto di chiesa militante ai suoi accoliti, riproducendo in modo assai inquietante le posture e le dinamiche che sono proprie delle religioni a impronta profetica e messianica.

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Intermezzo allegorico


a Luca

Chi può negare che i calcoli coi quali lastrologo costruisce un tema natale siano aritmetici? Chi può negare che le effemeridi dalle quali ricava le posizioni dei pianeti nei segni siano tabelle che ne descrivono fedelmente le ellittiche? E chi può negare che, quando parla di trigoni, quadrature e quinconci, si riferisca a misure reali, che hanno piena rispondenza a dati di natura geometrica? Certo, si può credere o non credere in ciò che lastrologo pretende di poter desumere dalla posizione di Venere, Luna e Giove per ciò che attiene al carattere o al destino di una persona, ma è fuor di dubbio che gli strumenti di cui si serve per costruire il suo tema natale siano scientifici. Ci dice, per esempio, che alle 4:30 del 25 giugno del 1957, a una latitudine di 40,73°N e a una longitudine di 13,90°E, Marte fosse in Leone, Mercurio in Gemelli, e i due pianeti in sestile, cioè a 60° di distanza sullorizzonte astronomico: una verifica assistita dal metodo scientifico ce ne darà puntuale convalida, ma questo darà solidità di prova al fatto che tale aspetto natale conferisca al soggetto – copio-incollo da uno dei tanti siti web dedicati allastrologia – «una mente forte e una comunicazione grintosa», rendendolo «persona affascinante», ma eccessivamente incline a «osservazioni taglienti»?
Cazzate, via! Cè bisogno di uno straordinario acume per capire che lastrologia è superstizione? Certamente no, però il solo acume non basta, come dimostra il fatto che tanta gente, non necessariamente incolta, spesso nientaffatto credulona rispetto a ogni altro genere di fola, mostra interesse per lastrologia: interesse che mostra unampia gamma di intensità, dalla pigra condiscendenza agli assunti coi quali essa si spaccia come scienza, o comunque come antica forma di sapere, e perciò degna per lo meno del rispetto che si deve agli antichi, fino alla maniacale e ossessiva reductio ad astra che condiziona ogni pensiero ed ogni azione alla consultazione delloroscopo. È possibile contestare la pretesa di essere scienza che lastrologia vanta? Certo, ma, al pari di ogni attacco a una fede, è estremamente faticoso e non dà grossi risultati, perché ogni fede è refrattaria anche alla sola ipotesi che essa sia in errore, che poi è ciò che maggiormente la distingue dalla scienza, che per statuto si dà inficiabile, pronta a rinunciare agli assunti cui la prova sperimentale sottragga fondamento.
Non così, lastrologia. Quando fai presente che quel Cancro non è così mammone come dovrebbessere, esce sempre un pianeta leso in IV Casa che rende stupida e superficiale la tua osservazione: studia, cretino, ché la tua ignoranza mistifica lastrologia. Fai presente, allora, che ti rifiuti di accettare senza prove certe che un corpo celeste abbia influsso sul carattere e sulle azioni degli esseri umani? Ti si risponde che la Luna regola il ciclo delle maree, e poi sei Vergine, ascendente Vergine, dunque cronicamente scettico: la tua riserva non è degna di attenzione. Con quella che a te pare delicata astuzia tattica, concedi che lastrologia sia una geniale metafora che trae simboli di archetipi caratteriali dalla sapienza di grandi tradizioni, e dunque, sì, valga come metafora, ma la scienza è tuttunaltra cosa? Già, ma chi è il padre della scienza moderna? Galileo Galilei, è ovvio. Bene, il «Grande Vecchio» faceva oroscopi, lo sapevi? Non lo sapevi, eh? E allora taci, cretino, e giù le mani dal «Grande Vecchio» . Anzi, già che ci siamo, dimmi data, ora e luogo di nascita: vediamo perché sei tanto cretino. Ah, ecco, vedi? Hai Mercurio in quadrato a Giove: scarsa apertura mentale.
Come quando ti consenti di avanzare una critica a Marx: è perché sei un borghese.

sabato 6 ottobre 2018

Una scienza dei fini?


1. Ho un debito di gratitudine nei confronti dellanonimo che a commento di ciò che ho scritto in Per tempo (Malvino, 2.10.2018) mi ha accusato di essere – forse oltre le mie intenzioni, ha tenuto a precisare – uno dei tanti mistificatori di Marx, dove è evidente che «oltre le mie intenzioni» stava a concedermi l’attenuante di essere più fesso che cattivo, mentre «forse» mavvertiva che questa concessione potrebbe essermi ritirata in caso di recidiva. Tanto più amabile, questa indulgenza, e tanto più preziosa, perché mi faceva la gentilezza di chiarirmi dove sia in radice quella che in me, al momento, resta sospesa tra fessaggine e cattiveria: è che io rigetto la dialettica di Hegel, come daltronde incontestabilmente emerge dal fatto, documentalmente provato, che su di lui, in passato, ho espresso «un giudizio assai negativo». Impossibile negarlo: lho fatto. Bene, questa imputazione mi ha sciolto il rovello in cui mi dibattevo da molti mesi: di qui il debito di gratitudine cui facevo cenno in apertura, che però mi chiama a dare spiegazione di quale fosse il rovello, e di come vero finito dentro.
Uno dei motivi – non il preponderante, ma tra i più rilevanti – che mi hanno tenuto lontano da queste pagine per quasi un anno è stato il cominciare a rileggere Marx – Lideologia tedesca e Il Capitale – cui non mettevo mano da oltre trentanni (di tanto in tanto ero tornato sul 18 Brumaio, il Manifesto e i Manoscritti del 44, ma solo en passant). Bene, come chi sa chi è cascato in quello teologico o in quello psicoanalitico, ogni riduzionismo ha un suo fascino. Quello costruito da Marx è irresistibile, cattura, convince della sostanziale irrilevanza della penultima, della terzultima, della quartultima istanza di tutto ciò che strenuamente resiste a rivelarne l’ultima in un dato di natura economica.
D’un tratto, tutto mi si è spostato sullo sfondo, sfocato, privo di ogni interesse che non mi si rivelasse colpevolmente frivolo, fuorviante rispetto al problema dei problemi, l’unico degno di seria attenzione, e di studio: i meccanismi con cui il capitalismo si dà statuto di sfruttamento, le contraddizioni che ne rivelano l’intrinseca tendenza all’autofagia, la necessità di combatterlo e annientarlo che nasce dalla stessa analisi della sua natura opprimente e alienante. In forza del suo stringente argomentare, Marx mi ha preso per intero, o quasi. Quasi, perché comunque non riuscivo ad abbandonare una resistenza: ero costretto a concedere che la pars destruens è ineccepibile, ma il dopo? Dovera il progetto della società finalmente liberata dalla schiavitù capitalistica?
Parlandone in privato con chi ha ruminato Marx per decenni, apprendevo che non cè, né può darsi in condizioni, quelle presenti, che non consentono neppure di ipotizzarlo, perché esse stesse d’ostacolo a farne avere la pur pallida idea. E le forme di socialismo fin qui storicamente realizzate? Imputare il loro fallimento a Marx è blasfemia (tutte letture errate, mistificazioni, traveggole, abissi di vertigine): Purgatorio, forse, rispetto allInferno del capitalismo, ma il Paradiso si apriva come ipotesi da costruire solo dopo aver fatto piazza pulita di Inferno e Purgatorio.
Qui trasalivo, per la singolare analogia con la piena esperienza di Dio, possibile solo dopo la morte, e solo ad essere riusciti a guadagnarsene merito in vita. E come sentire Dio, in vita? Come tensione. In analogia? «Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente».
Impossibile ogni obiezione: accettando qui lineccepibile scienza e lì lindefettibile fede, il no a Marx o a Dio può nascere solo da una ottusa resistenza ad accettare la scommessa offerta da Pascal (e prima di lui da Agostino), dove, se perdi, non perdi nulla, ma, se vinci, vinci tutto. Daltronde, dopo aver capito come e quanto il capitalismo ci mortifica e degrada, come si può rinunciare a porsi come fine il suo abbattimento e darsi interamente come mezzo? Solo un fondo di malvagità – il peccato originario dessere borghesi e di essere istintivamente portati a difendere gli interessi di classe – può impedire di abbracciare la causa comunista dopo aver dato ragione a Marx. Più ci pensavo, più mi immalinconivo. E più mi immalinconivo, più cercavo nelle equazioni di Marx lerrore di passaggio che rivelasse linfondatezza delle conclusioni. E non lo trovavo.
In questa miserevole condizione di resistenza a una verità che, dopo essersi affermata come scienza esatta, esigeva la dignità di fede, vagolavo nel vuoto della mia vita borghese come un peccatore che gelosamente cela in petto il marchio a fuoco del suo peccato. Questo fino alla rivelazione, di cui devo esser grato allanonimo commentatore: resistevo a Hegel, non a Marx. In sostanza: non gli cedevo interamente perché nel suo procedere cera il vizio della dialettica. Rigettando la dialettica, non riuscivo a dare continuità allanalisi in ciò che essa dava come necessitato. Ribaltamento della prospettiva: quello che mi consentiva di apprezzare il genio di Marx, ma non mi permetteva di dargli cogenza, era il sentire come ossimoro il suo materialismo dialettico.
Sono tenuto a spiegarmi meglio, ovviamente. Ci provo, ma avverto che tratto una questione che in me, al momento, è solo approssimativamente delineata. Per questo parlavo di rivelazione: ho chiara la visione, ma forse non sono ancora in grado di ridarla con nitidezza. Con tutti i rischi del caso, ci provo.

2. Voglio partire dallo sgombrare il campo da una possibile fonte di fraintendimento: giacché la formula «materialismo dialettico» non è stata coniata da Marx (ci pensò Plechanov, ma quando a Marx non era più possibile rigettarla, perché già morto da qualche anno), possiamo ritenerla adeguata a esprimere fedelmente il significato della dottrina di Marx? Direi di sì. Se è vero, infatti, che il progetto di Marx ed Engels dichiara di voler operare un rovesciamento della dialettica hegeliana, questo rovesciamento è da intendere solo nel tentativo di spostarla dal piano di una realtà idealizzata a quello della natura e della storia: dialettica rimane, dunque, pur agendo nella materia. Ed è qui che sorge il problema, credo, perché, per sua natura, la dialettica è ascendente e progressiva: mira a un fine.
Ora cè da chiedersi: una visione scientifica del mondo può conferire alla realtà un senso nella sua duplice accezione di significato e direzione? Per Kant, ad esempio, no. In lui una metafisica che faccia sintesi tra scienza ed etica è impossibile, come lo è, di conseguenza, una razionale dimostrazione della razionalità del mondo. Per Hegel, invece, è il contrario: «Tutto ciò che è razionale è reale [ciò che è ragionevole si realizza], tutto ciò che è reale è razionale [ciò che è realizzato ha una sua ragione]»; e Marx gli va appresso, nella pretesa di fondare una conoscenza che insieme sia materialistica e dialettica, sostanzialmente consistente in una scienza dei fini. È per questo che possiamo considerarlo assolto dagli incubi totalitari che sono stati costruiti in suo nome: non erano previsti, il comunismo si sarebbe realizzato «con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura».
Ma può esistere una scienza dei fini, la cui ratio sia necessariamente agita da un moto dialettico tendente alla lisi delle contraddizioni che caratterizzano la condizione umana? Direi non possa esistere. Se è veramente scienza, ha carattere avalutativo e natura eminentemente congetturale: procede per ipotesi, rigetta considerazioni di valore, nega vettori teleologici, dà a ogni verità il tratto di una conoscenza relativa.
Non per Marx, che spesso sembra voler fare della sua scienza uno strumento di controllo della realtà per piegarla alla leggi del pensiero, attribuendo alla storia un connotato che potremmo definire animistico. Più che a una scienza, tutto ciò non è più simile a una religione, ancorché senza Dio?

Non mi aspetto di aver chiarito a dovere perché sia Hegel il vero problema di Marx, ma probabilmente ci tornerò sopra. Per lintanto ancora un grazie a chi mi ha aperto gli occhi sulla natura di un disagio di cui non sapevo darmi ragione.

[segue]

giovedì 4 ottobre 2018

Pesciolini rossi

Col ritenere che avessero una memoria labilissima – 8" per alcuni, 30" per altri – si è sempre stati ingiusti coi pesciolini rossi, così ci redarguì uno studio della MacEwan University di Edmonton, in Canada, che del 2014 diede prova inconfutabile del fatto che queste deliziose bestioline riescono a ricordare pure ciò che è accaduto fino a 12 giorni prima. Tenuto conto che alcune varietà (il Chromobotia macracanthus, per esempio) possono vivere anche 15 anni, non è affatto poco: fatta proporzione con gli 83,3 anni della vita media di un italiano (Eurostat, 2015), significa riuscire ad andare addietro con la memoria ad oltre 2 mesi, il che non riesce sempre agli italiani, come l’esperienza ci insegna. Non fossero così miti e così poco inclini a darsi arie – i pesciolini rossi, dico – li vedremmo sbellicarsi a branchie spalancate per la smemorataggine di cui le assai poco deliziose bestioline – gli italiani, dico – danno prova di continuo.
Berlusconi, ricordate? Quello che per lustri fu fatto bersaglio di critiche feroci, insulti micidiali e statuine del Duomo di Milano, avete presente? Non scherzate, via, è impossibile che l’abbiate dimenticato: il nano, il caimano, il mafioso, il puttaniere... Afferrato, il ragguaglio? Sì, lui – Berlusconi, dico – avete presente? Perfetto, ero sicuro che col ragguaglio... Bene, dite: servì a niente quel poderoso esercito di giullari armati di geniale sberleffo, di battutisti professionali o d’accatto, di sciantose frementi in accorate indignazioni, di solerti archivisti delle gaffes, degli spropositi, delle mattane e perfino delle analisi delle urine del Gran Cafone? A niente, tutt’al più a far trascorrere gli anni incanalando frustrazione e rabbia in una consolatoria forma di intrattenimento, che ebbe i suoi fasti nei salottini di un Santoro, di una Dandini, coi rispettivi epigoni, più o meno mal riusciti. Tutto di qualche utilità, sia chiaro, soprattutto a chi in quel filone seppe scavarsi la sua nicchietta o il suo nicchione, ricavandoci la marchetta o il contrattone, ma il fine dichiarato restò sempre lontano. Meglio la magistratura, senza alcun dubbio. Meglio ancora lo stesso Berlusconi, che finì per carbonizzarsi da solo, anche se solo – onestà vuole gli sia dato merito – dopo lunghissima combustione, che offrì il calduccio a frotte di papponi e di ruffiani.
Ecco, che cosa resta nella memoria del paese? Praticamente niente. Monta un’altr’onda minacciosa, stavolta giallo-verde, e cosa le fa diga? Il Foglio al posto di Repubblica, la Gruber al posto di Santoro, Zoro al posto della Dandini, e appresso, come i sorci dietro il piffero, gli arguti e meno arguti girotondini stavolta a far centocinquanta-la-gallina-canta su Twitter, un Marco Taradash che sbraita come un Pietro Ricca. Tutto legittimo, sia chiaro, il negoziante è giusto si rifornisca della merce più richiesta, gli ambulanti è giusto battano i marciapiedi dove le loro cianfrusaglie vanno via meglio, i clienti è giusto possano portare a casa l’articolo che più s’adatti a gusto e tasca. Ma illudersi che anche stavolta sia Resistenza, e che a sbattersi come ossessi si ottenga la Liberazione – più che da pesciolini rossi è da cozze.