1. Ho
un debito di gratitudine nei confronti dell’anonimo
che a commento di ciò che ho scritto in Per
tempo
(Malvino,
2.10.2018) mi ha accusato di essere – forse oltre le mie
intenzioni, ha tenuto a precisare – uno dei tanti mistificatori di
Marx, dove è evidente che «oltre le mie intenzioni» stava a
concedermi l’attenuante di essere più fesso che cattivo, mentre
«forse» m’avvertiva
che questa concessione potrebbe essermi ritirata in caso di recidiva.
Tanto più amabile, questa indulgenza, e tanto più preziosa, perché
mi faceva la gentilezza di chiarirmi dove sia in radice quella che in
me, al momento, resta sospesa tra fessaggine e cattiveria: è che io
rigetto la dialettica di Hegel, come d’altronde
incontestabilmente emerge dal fatto, documentalmente provato, che su
di lui, in passato, ho espresso «un giudizio assai negativo».
Impossibile negarlo: l’ho
fatto. Bene, questa imputazione mi ha sciolto il rovello in cui mi
dibattevo da molti mesi: di qui il debito di gratitudine cui facevo
cenno in apertura, che però mi chiama a dare spiegazione di quale
fosse il rovello, e di come v’ero
finito dentro.
Uno
dei motivi – non il preponderante, ma tra i più rilevanti – che
mi hanno tenuto lontano da queste pagine per quasi un anno è stato
il cominciare a rileggere Marx – L’ideologia
tedesca e Il Capitale – cui non mettevo mano da oltre trent’anni
(di tanto in tanto ero tornato sul 18 Brumaio, il Manifesto e i
Manoscritti del ’44,
ma solo en passant). Bene, come chi sa chi è cascato in quello
teologico o in quello psicoanalitico, ogni riduzionismo ha un suo
fascino. Quello costruito da Marx è irresistibile, cattura, convince
della
sostanziale irrilevanza della penultima, della terzultima, della
quartultima istanza di tutto ciò che strenuamente resiste a
rivelarne l’ultima in un dato di natura economica.
D’un tratto,
tutto mi si è spostato sullo sfondo, sfocato, privo di ogni
interesse che non mi si rivelasse colpevolmente frivolo, fuorviante
rispetto al problema dei problemi, l’unico degno di seria
attenzione, e di studio: i meccanismi con cui il capitalismo si dà
statuto di sfruttamento, le contraddizioni che ne rivelano
l’intrinseca tendenza all’autofagia, la necessità di combatterlo
e annientarlo che nasce dalla stessa analisi della sua natura
opprimente e alienante. In forza del suo stringente argomentare, Marx
mi ha preso per intero, o quasi.
Quasi, perché comunque non riuscivo ad abbandonare una resistenza:
ero costretto a concedere che la pars destruens è ineccepibile, ma
il dopo? Dov’era
il progetto della società finalmente liberata dalla schiavitù
capitalistica?
Parlandone in privato con chi ha ruminato Marx per
decenni, apprendevo che non c’è,
né può darsi in condizioni, quelle presenti, che non consentono
neppure di ipotizzarlo, perché esse stesse d’ostacolo
a farne avere la pur pallida idea.
E le forme di socialismo fin qui storicamente realizzate? Imputare il
loro fallimento a Marx è blasfemia (tutte letture errate,
mistificazioni, traveggole, abissi di vertigine): Purgatorio, forse,
rispetto all’Inferno
del capitalismo, ma il Paradiso si apriva come ipotesi da costruire
solo dopo aver fatto piazza pulita di Inferno e Purgatorio.
Qui
trasalivo, per la singolare analogia con la piena esperienza di Dio,
possibile solo dopo la morte, e solo ad essere riusciti a
guadagnarsene merito in vita. E come sentire Dio, in vita? Come
tensione. In analogia? «Il comunismo per noi non è uno stato di
cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo
stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano
dal presupposto ora esistente».
Impossibile ogni obiezione:
accettando qui l’ineccepibile
scienza e lì l’indefettibile
fede, il no a Marx o a Dio può nascere solo da una ottusa resistenza
ad accettare la scommessa offerta da Pascal (e prima di lui da Agostino), dove, se perdi, non
perdi nulla, ma, se vinci, vinci tutto. D’altronde,
dopo aver capito come e quanto il capitalismo ci mortifica e degrada,
come si può rinunciare a porsi come fine il suo abbattimento e darsi
interamente come mezzo? Solo un fondo di malvagità – il peccato
originario d’essere
borghesi e di essere istintivamente portati a difendere gli interessi
di classe – può impedire di abbracciare la causa comunista dopo
aver dato ragione a Marx. Più ci pensavo, più mi immalinconivo. E
più mi immalinconivo, più cercavo nelle equazioni di Marx l’errore
di passaggio che rivelasse l’infondatezza
delle conclusioni. E non lo trovavo.
In
questa miserevole condizione di resistenza a una verità che, dopo
essersi affermata come scienza esatta, esigeva la dignità di fede,
vagolavo nel vuoto della mia vita borghese come un peccatore che
gelosamente cela in petto il marchio a fuoco del suo peccato. Questo
fino alla rivelazione, di cui devo esser grato all’anonimo
commentatore: resistevo a Hegel, non a Marx. In sostanza: non gli
cedevo interamente perché nel suo procedere c’era
il vizio della dialettica. Rigettando la dialettica, non riuscivo a
dare continuità all’analisi
in ciò che essa dava come necessitato. Ribaltamento della
prospettiva: quello che mi consentiva di apprezzare il genio di Marx,
ma non mi permetteva di dargli cogenza, era il sentire come ossimoro
il suo materialismo dialettico.
Sono
tenuto a spiegarmi meglio, ovviamente. Ci provo, ma avverto che
tratto una questione che in me, al momento, è solo approssimativamente delineata.
Per questo parlavo di rivelazione: ho chiara la visione, ma forse non
sono ancora in grado di ridarla con nitidezza. Con tutti i rischi del caso, ci provo.
2. Voglio
partire dallo sgombrare il campo da una possibile fonte di
fraintendimento: giacché la formula «materialismo dialettico» non
è stata coniata da Marx (ci pensò Plechanov, ma quando a Marx non
era più possibile rigettarla, perché già morto da qualche anno),
possiamo ritenerla adeguata a esprimere fedelmente il significato
della dottrina di Marx? Direi di sì. Se è vero, infatti, che il
progetto di Marx ed Engels dichiara di voler operare un rovesciamento
della dialettica hegeliana, questo rovesciamento è da intendere solo
nel tentativo di spostarla dal piano di una realtà idealizzata a
quello della natura e della storia: dialettica rimane, dunque, pur
agendo nella materia. Ed è qui che sorge il problema, credo, perché,
per sua natura, la dialettica è ascendente e progressiva: mira a un
fine.
Ora c’è
da chiedersi: una visione scientifica del mondo può conferire alla
realtà un senso nella sua duplice accezione di significato e
direzione? Per Kant, ad esempio, no. In lui una metafisica che faccia
sintesi tra scienza ed etica è impossibile, come lo è, di
conseguenza, una razionale dimostrazione della razionalità del
mondo. Per Hegel, invece, è il contrario: «Tutto ciò che è
razionale è reale [ciò che è ragionevole si realizza], tutto ciò
che è reale è razionale [ciò che è realizzato ha una sua
ragione]»; e Marx gli va appresso, nella pretesa di fondare una
conoscenza che insieme sia materialistica e dialettica,
sostanzialmente consistente in una scienza dei fini. È per questo
che possiamo considerarlo assolto dagli incubi totalitari che sono
stati costruiti in suo nome: non erano previsti, il comunismo si
sarebbe realizzato «con la fatalità che presiede ai fenomeni della
natura».
Ma
può esistere una scienza dei fini, la cui ratio sia necessariamente
agita da un moto dialettico tendente alla lisi delle contraddizioni
che caratterizzano la condizione umana? Direi non possa esistere. Se
è veramente scienza, ha carattere avalutativo e natura eminentemente
congetturale: procede per ipotesi, rigetta considerazioni di valore,
nega vettori teleologici, dà a ogni verità il tratto di una
conoscenza relativa.
Non per Marx, che spesso sembra voler fare della
sua scienza uno strumento di controllo della realtà per piegarla
alla leggi del pensiero, attribuendo alla storia un connotato che
potremmo definire animistico. Più che a una scienza, tutto ciò non
è più simile a una religione, ancorché senza Dio?
Non
mi aspetto di aver chiarito a dovere perché sia Hegel il vero
problema di Marx, ma probabilmente ci tornerò sopra. Per l’intanto
ancora un grazie a chi mi ha aperto gli occhi sulla natura di un
disagio di cui non sapevo darmi ragione.
[segue]