L’uomo
che l’altrieri
è stato ucciso a Pesaro non godeva delle protezioni che la legge n.
6 dell’11.1.2018
dispone per un
«testimone
di giustizia»,
per la semplice ragione che non lo era. Il «pentito»
era suo fratello, lui sì pienamente rispondente alla definizione di
«testimone
di giustizia»
che la legge integra all’art.
2 con quella di «collaboratore
di giustizia»,
con quanto ne consegue per le misure di massima protezione, previste
dall’art.
5, di cui egli gode già da tempo. L’uomo
che l’altrieri
è stato ucciso a Pesaro, invece, ricadeva nella fattispecie di
quelli che all’art.
1 sono definiti «altri
protetti»,
per i quali la legge dispone solo misure di sostegno economico,
previste dall’art.
6.
Giusta o no che sia la legge, che sia alla Camera che al Senato ha
avuto relatori del Pd, questo è quanto il Parlamento della scorsa
legislatura, in cui Lega e M5S erano minoranza, ha ritenuto fosse
giusto assicurare all’uomo
che l’altrieri
è stato ucciso a Pesaro: nessun cambio di identità, nessuna scorta
armata, solo un assegno di mantenimento e il fitto di una casa
lontana dalla piana di Gioia Tauro. Andava avanti così dal 2008,
senza che nessuno dei ministri dell’Interno
(Amato, Maroni, Cancellieri, Alfano, Minniti) abbia mai ritenuto
fosse necessario qualcosa in più.
Strano che per i killer sia stato
tanto facile ucciderlo? Qui direi che la risposta sia estremamente
semplice: per niente. La domanda più difficile è un’altra:
è in qualche modo rintracciabile nell’accaduto
una responsabilità delle forze dell’ordine
o del Ministero dell’Interno?
Un corsivo su Il
Foglio
di giovedì 27 dicembre parrebbe averla individuata, e non già nella
legge, non già nei ministri dell’Interno
che si sono succeduti dal 2008 ad oggi, ma in Salvini. Vediamo
perché.
«Il
lavoro di protezione dei familiari di collaboratori di giustizia è
fra i più complicati e compete al Ministero dell’Interno».
Giusto.
«Occorre
tenere presente che il parente che accetta di condividere la sorte di
chi decide di collaborare accende anch’egli un credito con lo stato
divenendo un bersaglio dei mafiosi».
Giusto anche questo.
«Viene
spostato nottetempo prima possibile, prima ovviamente che la notizia
sia trapelata».
Anche qui nulla da eccepire: non sappiamo se nel 2008, quando l’uomo
che l’altrieri
è stato ucciso fu spostato a Pesaro, furono impiegate «tre
auto, una con due agenti, un autista e un armato, altre due con
agenti di un corpo speciale muniti di armi corte e lunghe»,
come il corsivo dice sia indispensabile, ma questo attiene a quanto
era indispensabile dieci anni fa, dovremmo chiedere ad Amato se ci ha
pensato.
«Altri
hanno già predisposto un appartamento e documenti con nomi
nuovi...».
Ecco, qui salta la linearità del ragionamento: le misure di
protezione che la legge assicurava al «protetto»,
parente del «collaboratore
di giustizia»,
non prevedevano il cambio di identità, tant’è
che sul citofono di casa l’uomo
che l’altrieri
è stato ucciso a Pesaro aveva nome e cognome suoi. Giusta o no che
sia la legge, per lui non era previsto dargliene di nuovi.
Ma che
altro era indispensabile ed è mancato? «Seguirà
una routine di controlli che coinvolgeranno i presidi di polizia del
posto di arrivo ma qualcuno della Dia, o del Ros o dello Sco, ogni
tanto si affaccerà per verificare che tutto funzioni a dovere».
La legge lo prevede per i «testimoni
di giustizia»,
non per gli «altri
protetti».
D’altronde,
anche nel caso dei «testimoni
di giustizia»,
com’è
possibile impedire che vengano uccisi senza una scorta che li
protegga ventiquattr’ore
al giorno? E quanti sono i casi in cui neppure questo è bastato?
E
dunque dov’è
il problema? È presto detto: «quello
che è successo a Pesaro mostra che da questo punto di vista siamo
nella Nutella fino al collo».
Un modo molto fine di far eco alle accuse strumentali mosse a
Salvini. Al quale, e a ragione, si possono imputare i peggiori
difetti, umani e politici, siglando l’imputazione,
e a ragione, con un bel #salvinimerda, giusto per non essere sfiorati dal sospetto di criptoleghismo, ma in quel che è accaduto l’altrieri
a Pesaro, di grazia, che c’entra?
Neanche varrebbe la pena di fare il nome di chi firma il corsivo de
Il
Foglio
dal quale ho tratto i brani salienti, basterebbe la segnalazione
dell’ennesimo
esempio di come la faziosità distorca i fatti piegandoli a proprio
piacimento. Il fatto è che a firmarlo è Massimo Bordin, di cui su
queste pagine si è spesso avuto modo di lodare l’onestà
intellettuale. Duole constatare che ne abbiamo perso un altro.