«Con
il taglio del contributo per la trasmissione delle sedute
parlamentari da dieci a cinque milioni di euro –
chiedevo – il
governo vuole la chiusura di Radio Radicale? Si accetti la sfida
– proponevo – e
si rinunci anche agli altri cinque. Di più
– aggiungevo – si
rinunci anche ai quattro milioni e mezzo che le arrivano dai
contributi per l’editoria.
Si apra una sottoscrizione e i duecentoquarantamilaedispari
ascoltatori di Radio Radicale si dichiarino disposti a pagare una
quota annua di sessanta euro (14.500.000/244.000 ≃ 60)».
E qui facevo cenno a mettere mano alla tasca, fidando nei mirror
neurons
dei tanti che, come me, erano precipitati nello sconforto alla
notizia che, senza quei cinque milioni, Radio
Radicale
era destinata a chiudere.
60 euro all’anno,
mi dicevo, sono un’inezia,
e tanti fra gli sconfortati sono tutt’altro
che indigenti, chissà che di milioni non finiremo a metterne insieme
trenta, quaranta e, perché no, cinquanta. E già mi immaginavo il
titolone nel sommario del tg delle 20,00: «Schiaffo
morale di Radio Radicale a Vito Crimi: “Ficcateli nel culo, i soldi
della convenzione: diventiamo società ad azionariato diffuso”»;
neppure un cenno a chi aveva avuto l’idea,
ma, vabbè, fa niente, tanto sono abituato a non veder riconosciuti i
miei meriti.
Quella, peraltro, a me sembrava una proposta che avrebbe avuto il
pregio di inchiodare tutti alla coerenza del ruolo che ciascuna delle
parti aveva imposto all’altra:
i «barbari»
si
sarebbero comportati da veri barbari, dandone prova con la plateale
barbarie di colpire al cuore una radio seguitissima dallo 0,7% dei 34
milioni di radioascoltatori italiani, pochi forse, ma créme
de la créme della
nostra società civile;
e i «liberali
de ’sto
cazzo»
si sarebbero comportati da liberali come Dio comanda, rinunciando a
continuare a fare impresa col denaro pubblico, affidando le proprie
sorti all’apprezzamento
che il prodotto avrebbe riscosso sul mercato.
È che, da incallito
fruitore a gratis del servizio offertomi da Radio
Radicale,
proiettavo il mio sgomento per la decisione presa dall’odiato governo
giallo-verde sullo sgomento che constatavo negli altrettali incalliti
fruitori a gratis che, forti dell’autorevolezza
loro conferita da ruoli di prestigio svolti in campo politico,
culturale, economico, ecc., si erano tosto mobilitati perché la
decisione fosse revocata, così mostrando, però, di fidare, da un
lato, che i «barbari»
non fossero barbari fino in fondo e, dall’altro,
che, almeno per l’Italia,
Dio comanda solo «liberali
de ’sto
cazzo»:
l’idea
di mettere mano alla propria tasca per evitare la tragedia non sfiorò
neppure uno dei tanti eroici paladini scesi in campo, costringendomi
all’amara
constatazione che avevo proiettato male il mio sgomento. Ne ebbi la
prova dal succedersi degli eventi, che portarono alla revoca del
taglio. Solo provvisoria, è vero, ma, in un paese dove il
provvisorio è istantanea del permanente, è come dire: «Cara
Radio Radicale, scusaci tanto, era tanto per dire».
Gli eventi, quelli, sono noti a tutti, e danno ragione del sistema
che Enzo Forcella illustrò magistralmente in Millecinquecento
lettori:
«Un
giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa
millecinquecento lettori: i ministri (tutti), i parlamentari (parte),
i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche
industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche
se il giornale vende trecentomila copia. Prima di tutto non è
accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali,
e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è
organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di
lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la
comprensione dell’aspetto
più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse
dell’intera
politica italiana: è l’atmosfera
delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin
dall’infanzia,
si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche
quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il
proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico
pagante».
E tuttavia queste «recite
in famiglia»
hanno un costo e, visto che sono indispensabili alla «famiglia»,
qualcuno deve pur sostenerlo: nessun problema, c’è
il denaro pubblico, che incidentalmente è nelle disponibilità della
«famiglia».
Nessuno stupore, allora, nel vedere in soccorso di Radio
Radicale
anche chi mai l’ingenuo
avrebbe immaginato – vescovi, leghisti, parlamentari di destra e di
sinistra che fino al giorno prima Pannella aveva definito
«palermitani»
e
«corleonesi», e perfino qualche membro della Corte Costituzionale, quella da sempre definita «cupola della mafiosità partitocratica» – un po’
come sorprendere in trattoria, dopo lo spettacolo, Cesare e Bruto
allo stesso tavolo. Non poteva che andare com’è
andata, e confesso che un po’
mi vergogno di aver temuto che Radio
Radicale potesse
chiudere, e di averlo temuto al punto da metter mano alla tasca
perché non chiudesse. Meno male che ho lasciato adito a pensare che fosse una provocazione, va’.
Non
commetterò lo stesso errore con Il
Foglio,
che ieri apriva con straziante strillo: «Un
tentativo che non riuscirà per colpire il Foglio e cercare di
chiuderlo».
Il lessico – sconnesso ad arte, c’è
da scommetterci – mira a trasmettermi panico, ma non ci casco: Il
Foglio
è troppo simile a Radio
Radicale
per temere che gli si possano negare quegli ottocentomilaedispari
euro all’anno,
da pazzi pretendere che sotto la testata, come fa Il
Fatto Quotidiano,
metta un «non
riceve alcun finanziamento pubblico»,
alzando il prezzo per copia: perché i suoi lettori dovrebbero
accollarsi l’onere
personale di dimostrare quanto sia indispensabile il giornale quando
tanti di loro hanno modo di convincere chi di dovere che l’onere
spetta a tutti? Stavolta, dunque, assisterò alla recita senza
patemi: dietro l’ennesima
tragedia che vede opposte civiltà e barbarie saprò godermi la
solita commedia all’italiana
coi suoi più divertenti caratteri, i «barbari»
di buon cuore e i «liberali
de ’sto
cazzo».
E comincerò col godermi proprio il coro che apre la prima scena del
primo atto: «Un
tentativo che non riuscirà per colpire il Foglio e cercare di
chiuderlo».
«Che
non riuscirà» sta
messo lì un po’
a cazzo, fa confusione, forse ci andavano una virgola prima e una
dopo, e «tentativo...
per cercare»
è senza dubbio pleonasmo che stride, ma si diceva: non è ignoranza,
è tecnica per indurre all’ansia,
e sono certo che otterrà l’effetto.
Se
il titolo tende a mettere il lettore della postura giusta perché il
pugno nello stomaco sia massimamente efficace, il testo lo sferra con
tutta la forza necessaria: «La
decisione è di escludere il Foglio dai contributi all’editoria per
il 2018 [e]
la
motivazione non è chiara [ma]
qualche
tempo fa, nell’era Salvini-Di Maio, il portavoce di Palazzo Chigi,
Rocco Casalino, aveva sarcasticamente domandato al nostro Salvatore
Merlo perché mai si desse tanto da fare visto che il Foglio sarebbe
stato chiuso».
Motivazione, dunque, chiarissima: per sua natura, lo zoticume ha in
odio la signorilità, e signore, Il
Foglio,
lo nacque, basti pensare al fatto che per anni a preparare le mesate per i redattori era lo stesso Spinelli che preparava le buste per le olgettine, a compenso per la partecipazione a cene altrettanto signorili. In buona sostanza, siamo chiamati a scegliere, a
schierarci: stiamo con un avanzo della più trucida tv di fine secolo
o col giornale caro alla créme
della créme
della società civile?
Ma, di là dai contendenti in campo, dove sta
il quid
del
contendere? Primo: all’epoca
in cui il turpe Casalino mozzava la testa a un cavallo e la ficcava
sotto le coperte di Cerasa, «la
Guardia di Finanza aveva rispolverato una vecchia inchiesta di
accertamento giacente da sette anni nei cassetti sui contributi per
gli anni 2009-2010 [in
base alla quale emergeva che] il
Foglio non aveva diritto in quel biennio ai contributi di legge
perché non aveva raggiunto la percentuale del 25% delle vendite
calcolate sull’intera tiratura»,
e questo non è vero, perché la percentuale sarà stata almeno del
26%, forse addirittura del 27%, che forse sarà sempre poco, ma solo
per chi sguazza nella Nutella
e neanche ha idea di cosa sia la créme
de la créme.
Secondo: per la Guardia di Finanza, «il
Foglio era organo di un movimento inesistente, la Convenzione per la
giustizia, il che era gravemente falso, visto che il movimento
esisteva, aveva tenuto un suo congresso di fondazione a Firenze […]
e dunque il suo giornale tribuna, che non ha mai risparmiato parole
di commento e fatti raccontati in materia di giustizia e garantismo
giuridico, aveva il collegamento di legge necessario, per non parlare
della legittimazione politica civile e culturale, con una struttura
effettivamente costituita».
E anche questo è sacrosanto, basta digitare «Convenzione
per la giustizia» nella
finestrella di
Google:
la prima voce non c’entra
un cazzo con Il
Foglio,
ma la seconda rimanda proprio alla scheda audio dell’archivio
di Radio Radicale che dà registrazione integrale di quel «congresso
di fondazione»,
nel 1998; a seguire, solo voci malevole che la danno come «trucchetto
per prendere i contributi pubblici»,
ma si sa che il mondo è cattivo, la cosa, quindi, non fa testo.
Terzo: «La
cooperativa per la Finanza non era una vera cooperativa in quanto le
forze che avevano dato origine al Foglio come Srl vi erano
rappresentate e la sostenevano in relazione alla valorizzazione della
testata, che il Foglio aveva da loro in affitto».
E qui Il
Foglio
commenta: «È
l’ultima falsificazione di una serie»,
ma senza spiegare perché.
Fa niente, in fondo anche se fosse vero, e
anche se la Convenzione
per la giustizia
fosse solo un trucchetto per prendere i contributi pubblici, anche se
negli anni 2009-2010 Il
Foglio
avesse venduto solo l’1%
dell’intera
tiratura, il «sistema»
è inattaccabile e i soldi per la «recita
in famiglia»
di cui Il
Foglio
è prestigioso teatrino, vedrete, si troveranno. Fingiamoci in ansia,
dunque, ma nessuna paura: le leggi del mercato sono valide per gli
operai dell’Ilva
e della Whirpool, mica per i giornalisti de Il
Foglio.