Mercoledì
29 gennaio, a Palazzo Chigi, Paola Pisano, Ministro per l’Innovazione
Tecnologica, Alfonso Bonafede, Ministro della Giustizia, e Andrea
Martella, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega
all’Editoria, hanno dato vita, con apposito decreto, a qualcosa tra
una think
tank
e una task
force
che indagherà sull’odio in rete e studierà soluzioni per
contrastarlo: lo apprendo da La
Verità di
venerdì 31 gennaio, cui mi rimanda un post col quale Massimo
Mantellini, uno dei chiamati a farne parte, lamenta che «all’annuncio
di una simile commissione è seguito l’usuale tiro al bersaglio
della stampa di destra (oltre che quello più sotterraneo degli
esclusi dall’ambito circoletto) sui nomi degli esperti scelti,
quelli che Francesco Borgonovo su La Verità ha definito, non senza
una certa fantasia, “psicopoliziotti”, dedicando ad ognuno di noi
un agile commento, per altro utilissimo ad identificarci come
possibili bersagli».
Ora
c’è che l’odio in rete è da qualche tempo oggetto di un
dibattito che a me pare impostato nel peggiore dei modi, destinato a
consumarsi in un vuoto parlar tra sordi, se tenuto al tavolo dove le
opposte opinioni si limitano al confronto, ma pronto a trasformarsi
in rissa, laddove una delle due abbia pretesa di tagliar corto, forte
della possibilità di imporsi, non importa se con un decreto
governativo o con un nodoso randello, soprattutto se in nome di quel
bene comune che è sempre proiezione del bene di qualcuno. Anche
sull’odio
in rete, infatti, si dibatte senza quel preliminare accordo su cosa
esattamente sia l’oggetto
del dibattere che entrambe le parti danno per superfluo, perché
saldamente convinte che non possa essere altro da ciò che ritengono.
Cos’altro
mai può essere, l’odio,
se non quello che io chiamo odio? E
come può essere altra cosa da ciò che anche gli altri chiamano
odio, visto che non sanno dargli un altro nome? Evidente il vizio
logico che segna questa certezza, che segna al contempo l’articolo
di Borgonovo e il post di Mantellini. So bene che mi beccherò
l’accusa di indifferentismo etico e politico per aver messo sullo
stesso piano le ragioni dell’uno
e dell’altro,
ma, prima di passare a prendere in considerazione le une e le altre,
vorrei far presente che la mia opinione sull’odio
in rete non sta nel mezzo, ma semplicemente alla larga da entrambe.
E
dunque. Inizierei con l’esprimere a Mantellini i sensi della mia
piena solidarietà, cui mi muovono la tanta stima e il pizzico di
affetto che nutro per lui da tempo, a dispetto del raro condividerne
gusti e opinioni, ma che qui sarebbe comunque dovuta, e che dunque
esprimo anche agli altri quindici «espertoni»,
come li chiama Borgonovo col manifesto intento di esporli alla canea
dei suoi lettori: non ne conosco neppure uno, ma anche a loro
l’articolo de La
Verità
non risparmia un livoroso malanimo, mosso da evidente tendenziosità,
che c’è da supporre avrebbe avuto a oggetto chiunque altro fosse
entrato a far parte del gruppo di studio voluto dal Governo.
Qui,
però, occorre essere onesti: «il
gruppo di vigilantes del Governo è composto quasi interamente –
come afferma Borgonovo – da
uomini e donne di sinistra, alcuni dei quali dichiaratamente ostili
alla Destra o almeno alla Lega»?
Se sì, mi pare sia evidente che, come è legittimo che un Governo
scelga per consulente chi ritiene possa tornargli più utile a un
certo scopo, è altrettanto legittimo che chi fa opposizione a quel
Governo contesti in quella scelta lo scopo. Giacché lo scopo
dichiarato, qui, è quello di combattere «il
linguaggio d’odio e la tendenza alla sua esibizione e
amplificazione nell’ecosistema digitale»
(Andrea Martella), si può concedere alle opposizioni il dubbio che i
«vigilantes»
possano essere più sensibili a un #boldrinitroia
che a un #salvinimerda?
Su
Mantellini io non ho dubbi: riterrebbe inaccettabili entrambi gli
hashtag, li segnalerebbe entrambi come inquinanti dell’ecosistema
digitale. Ma gli è così difficile capire che, per il solo fatto di
essere stato scelto da una fazione in campo, l’altra lo avverta
come avversario e, alla ricerca di qualcosa che gliene dia conferma,
possa esser certo di averla trovata in un «Salvini
fa schifo»
che ha twittato meno di un mese fa? Non era l’odio
a farglielo twittare, mi giocherei un
testicolo, ma perché fa tanta fatica a comprendere che, in mancanza
di un preliminare accordo su cosa esattamente l’odio
sia, Borgonovo è autorizzato a credere che fra i membri della
commissione chiamata a bonificare l’ecosistema digitale dall’hate
speech sieda
pure chi ne fa uso e che dunque lo sia scelto per quel compito, più
che per le sue preclare competenze su tutto ciò che è web, per
l’essere politicamente fedele a una delle due fazioni in campo?
Ma
è probabile che anche altro abbia concorso a dare questa certezza a
Borgonovo, lo colgo nel suo tenere a sottolinear il fatto che gli
«espertoni»
presteranno le loro competenze a gratis. Superfluo dire che questo è
molto bello, soprattutto tenuto conto che oggi nessuno fa niente per
niente. E tuttavia l’incidentale «e
ci mancherebbe altro»,
che nell’articolo de La
Verità
vi cade a commento, solleva un problema: se i sedici consulenti non
sono organici all’area culturale e politica che trova espressione
nelle linee programmatiche del Governo, perché non farsi pagare per
quella che in fondo è una prestazione professionale che è
sacrosanto abbia un compenso al pari di ogni lavoro? Probabilmente si
trattava di una clausola che il decreto governativo poneva a
condizione dell’entrare a far parte della commissione: bene, perché
accettarla? Non ne sono certo, ma il suddetto «e
ci mancherebbe altro» e
il cenno che Mantellini fa alle invidie di cui hanno dato segno gli
«esclusi
dall’ambito circoletto» mi
fanno pensare che queste consulenze, ancorché gratuite, o forse
proprio perché gratuite, facciano punteggio nel far maturare credito
di fedeltà a chi di consulenze vive o di poterne vivere spera: per
il ruolo che i partiti continuano ad avere in Italia, anche se solo
residuale rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli anni della
Prima Repubblica, probabilmente l’apprendistato non retribuito
serve ancora a guadagnare il posto fisso alla corte del principe.
Nessun rilievo di carattere morale su questo stato di cose, Il
lavoro intellettuale come professione
di Max Weber ci ha convinto che non può essere diversamente, e noi,
che intellettuali di professione non siamo, non abbiamo alcun diritto
di metterci il becco: anche nel caso muovessimo una critica a questo
stato di cose dalla fiorente rosticceria che ci fa guadagnare il
quadruplo di quanto guadagna un intellettuale di primo livello con
contratto a tempo indeterminato sotto l’ala
di un mecenate governativo, ci ricaveremmo comunque il sospetto di
essere parvenu
che ambiscono a intrufolarsi nel circoletto, mercanti che aspirano al
titolo nobiliare, e non sia mai. Ma perché stupirsi – perché
Mantellini ci tiene a mostrarsi stupito – se qualcuno degli
intellettuali schierati in campo avverso osa mettere in discussione
la sua imparzialità, insinuando che non sia in missione per conto di
Dio, ma per servire un interesse di parte? Ciò che non è lecito a
noi, a Borgonovo sì. E allora rissa sia, a noi non resta altro che
stare a guardare e, a tempo perso, vergare qualche qualche ozioso
pensierino su cosa sia l’odio,
in generale, e quello in rete, in particolare, sulla carta che
abitualmente usiamo per incartare panzarotti e arancini.
Bisogna
andarci cauti, col denigrare l’odio, che innanzitutto è cosa
umana, e con umana intendo dire cosa di tutti: tutti odiamo e chi lo
nega mente, anche se gli si può concedere di farlo in buona fede:
odia, ma non avverte che sia odio, mentre invece è sensibilissimo
nel coglierlo negli altri, anzi, potremmo dire che solitamente,
quanto meno è capace di coglierlo in sé, tanto più è capace di
coglierlo negli altri. L’odio, infatti, è espressione di quella
aggressività comune a tutto il mondo animale, ma che nell’uomo
assume forma di sentimento, ambiguo e multiforme come tutti i
sentimenti, sicché è davvero complicato ritagliare un perimetro in
cui collocarlo, per tenercelo rinchiuso, evitando torni ad essere
rintracciabile anche dove non ci aspetteremmo mai di trovarlo, e cioè
dovunque l’aggressività è in gioco nel quotidiano compito di
sopravvivere e di procurarci piacere.
Scrive
Joan Riviere: «Tutti noi sappiamo, o dovremmo sapere, che in noi
stessi e negli altri esistono istinti aggressivi; nondimeno,
quest’idea, tutto sommato, non ci piace molto, e così
inconsciamente minimizziamo e sottovalutiamo la loro importanza. Non
li osserviamo direttamente, ma li teniamo al margine del nostro campo
visivo, e non permettiamo che entrino a far parte della nostra
concezione globale della vita; mantenendoli un po’ confusi, essi
non appaiono più così vividi, così reali, e vitali, e quindi così
allarmanti come sarebbero se li vedessimo chiaramente. Naturalmente
questo è un metodo molto primitivo di affrontare la nostra paura;
difatti in questo modo possiamo solo rassicurare noi stessi, e non
ottenere un reale progresso».
E poco
oltre: «Vi è una spiegazione evidente, almeno in molti casi, per
le emozioni di ostilità: esse si sviluppano in persone scontente,
insoddisfatte del proprio destino e delle proprie condizioni. Se c’è
qualcosa che non riescono ad ottenere, sia esso un bene di prima
necessità o semplicemente qualcosa di piacevole, provano un senso di
perdita. È evidente che qualsiasi persona (come quasi tutti gli
animali) che si veda attaccata, minacciata di un furto o di un danno,
sì da subire una perdita, svilupperà una certa dose di
aggressività».
Dal
piano individuale a quello sociale: «È noto che una mancanza di
mezzi di sussistenza nelle persone e nelle classi risveglia
aggressività, a meno che non siano in una condizione di irimediabile
apatia, di disperazione o di inerzia. In queste circostanze
l’aggressività è un segno di vita; non dico che sia
una reazione utile o efficace, ma come manifestazione psicologica è
un po’ più vicina alla soddisfazione del bisogno di
quanto non lo sia una vuota disperazione».
Orbene,
come si può pensare che una condanna morale dell’odio
e una censura delle sue manifestazioni possano risolvere i problemi
che lo hanno messo in gioco? È domanda che su queste pagine ho posto
anche un anno fa, quando, in relazione a qualcosa assai affine
all’odio,
Mantellini lamentava
che «l’Italia
è oggi una Repubblica fondata sul risentimento».
Dopo aver tentato un preliminare accordo su cosa debba intendersi per
risentimento, proponendo di dargli la definizione del Sabatini
Coletti («sentimento dato
da un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo,
che si prova come conseguenza di un torto o frustazione subìta,
sia essa reale o immaginaria»),
chiedevo: «Siamo
davanti a un desiderio di rivalsa che ha una qualche legittimità o a
quanto fa sintomo di un’estesa patologia di massa, eventualmente ad
un connaturato vizio morale che segna il grosso della nazione? Nel
primo caso, siamo costretti a fare i conti con l’ingiustizia che ha
dato moventi al risentimento, considerare se abbia natura contingente
o di sistema, individuarne i responsabili, ipotizzare soluzioni
alternative alla violenza per rimuoverla».
Che peraltro a me parrebbe pure – tanto per dirla alla carlona –
roba di sinistra. Cioè, per meglio dire, roba della sinistra di un
tempo. Perché quella che oggi di sinistra continua a conservare il
nome, ma sembra essere sempre meno sensibile alla ragioni di chi è
risentito per l’attacco,
il furto, il danno, la perdita, schiera i suoi intellettuali a difesa
dello status
quo armati
della loro potente condanna morale: il
risentimento è invidia sociale, poi ci si stupisce che gli operai
votino Lega e che l’impoverito ceto medio che fino a venti o
trent’anni fa era ancora «società
signorile di massa»,
come ha scritto Luca Ricolfi, oggi sogni l’uomo forte.
Così con l’odio:
poco importa da cosa muova, l’odio
è brutto, è cattivo, puzza di piscio e vomito: va rimosso. Presto,
si chiamino i clercs!
Forti del loro potere spirituale, il loro compito inquisitoriale
sembrerà santo, il loro engagement
non sembrerà trahison.
Fuor
d’ogni
sospetto da malpensante, non si capisce che senso abbia la
commissione anti-odio voluta dal Governo, né quali innovative
soluzioni essa possa partorire per arricchire la già fornita
utensileria del nostro codice penale dedicata ai reati che sono
concretizzazione dell’odio
in forma di insulto, minaccia, calunnia, e perfino di malaugurio.
Anche laddove essa fosse immaginata come embrione di un’authority
che stabilmente vigili sul web, si fa fatica a immaginare possa
bypassare la magistratura con funzione di censura. Staremo a vedere,
ma l’impressione
è che nasca come deterrente, e in quanto tale sarà assai poco
efficace. Resta che il peggio non sta nell’averla
istituita, ma nell’averla
ritenuta necessaria, senza riuscire a prevedere che quasi certamente, più che utile, si rivelerà
controproducente.