4. Poco
meno di 5.000 morti, al momento. Poco più della metà di quanti
l’anno
scorso morirono d’influenza.
In cosa è lecito, e in cosa no, comparare, di là dai numeri, i
morti dell’anno
scorso a quelli di quest’anno,
data l’evidente
differenza del modo in cui ce ne fu data notizia allora e ce n’è
data oggi?
In entrambi i casi, c’è
di mezzo un virus. In entrambi i casi, è controverso in che misura
il virus sia assassino di suo e in che misura sia favorito da
vecchiaia e altre malattie, sta di fatto che in entrambi i casi la
percentuale di morti giovani e senza altre malattie è estremamente
basso (sui poco meno di 5.000 di quest’anno
il report dell’Iss
del 20 marzo ne dà solo 6: almeno in questo – solo in questo, se
si vuole – l’influenza
dello scorso anno ha fatto molto
peggio). Questione estremamente interessante, dunque, questa del
«per»
e del «con»,
ma
i morti sono morti, sia che per il 2019 si debba andare a cercarne il
numero sul sito dell’Iss,
sia che per il 2020 ci venga risparmiata la fatica con un martellante
aggiornamento minuto per minuto, agonia e cremazione in diretta. Di
sicuro c’è
che, a voler morire col conforto della generale partecipazione
emotiva, non conveniva farlo l’anno
scorso: rimandare d’una
dozzina di mesi avrebbe assicurato cordoglio istituzionale, milioni e
milioni di prefiche a gratis, funerali in diretta e, soprattutto, il
palpito di Lili Gruber.
Ma oltre a questa differenza, che tuttavia
non è da poco, ce ne sono altre, e sono tante. Del virus influenzale
– l’anno
scorso erano due, l’A(H1N1)pdm09
e l’A(H3N2)
– sappiamo un sacco di cose, mentre del Sars-coV-2 (Covid-19 è
l’affezione che induce)
sappiamo com’è fatto
(struttura, componenti, sequenza genomica), ma troppo poco ancora
relativamente a ciò che, cedendo all’antico
e irrinunciabile vizio
di antropomorfizzare tutto, troviamo giusto chiamare carattere,
comportamento, tattica, ecc.
Un’altra
differenza, e bella grossa, è che per il virus influenzale abbiamo
un vaccino, mentre per questo coronavirus no. A tal riguardo, chi
storce il muso a sentire la Capua o la Gismondo correlare il Covid-19
all’influenza
dovrebbe chiedersi quanti morti farebbe ogni anno il virus
influenzale, se con una copertura vaccinale del 57% ne fa 8.000.
Niente, è domanda che pare non abbia alcuna ragion d’essere.
L’impressione
è che avere a disposizione un vaccino anti-influenzale, che peraltro
pochi sanno non rende immuni al 100%, autorizzi a considerare gli
8.000 morti come problema senza soluzione, la cui causa del decesso,
dunque, sarebbe da accettare come «normale»
causa di morte, routine del morire che non ha niente di particolare
per meritarsi un riflettore. In fondo accade pure per i morti sul
lavoro, che nel 2018 sono stati 1.218 (limitandoci ai casi
ufficialmente dichiarati tali), ma di certo non hanno avuto il quarto
d’attenzione
che i media hanno finora dedicato ai morti «per»
e/o «con»
Covid-19: morti che diremmo «strutturali»,
data l’almeno
apparente intangibilità della «struttura»,
e che in fondo hanno avuto buon gusto e discrezione di non affollare
un mese solo e una sola regione, morivano con la «normalità»
con cui si muore in una guerra a bassa intensità.
Basterebbero
questi elementi a motivare (e diciamo pure giustificare) la
spettacolarizzazione dell’epidemia
in corso, ma, senza comprendere quale funzione abbia – in generale
e nello specifico – lo spettacolo che ce la rappresenta, siamo
ancora lontani dal capire perché, e come, il sasso, rotolando, possa
diventare valanga, travolgendo tutto e tutti, al punto dal non poter
neppure immaginare che dietro la tragedia ci sia un ordito. Sarebbe
stato necessario un piano sofisticatissimo, bastava una comparsa
fuori posto e addio valanga. Perché è chiaro – e nessuno può
negarlo – che da una valanga siamo travolti. Resta solo da capire
se si sia lasciato rotolare il sasso nel modo in cui è rotolato per
ignavia o in obbedienza alla logica che mette l’emergenza
al servizio dello spettacolo, che – è il caso di precisarlo
subito, e dando la parola a Guy Debord, la guida che ci accompagnerà
in questo paragrafo – «non
è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone,
mediato dalle immagini»,
e che «non
può essere compreso come l’abuso
di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva
di immagini [ma]
piuttosto
[come] una
Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta [e
insomma] di
una visione del mondo che si è oggettivata». In tal senso, è del tutto secondario cosa lo spettacolo metta in
scena, perché l’interesse
che lo sostiene risponde ad un’economia
(in senso lato) che ha immutabile ratio intrinseca, in guerra e in
pace, quando il re della finanza è l’orso
e quando è il toro, quando torna conveniente l’accumulo
e quando la redistribuzione.
Se il lettore è disposto a rinunciare
al pregiudizio che nello spettacolo vede solo intrattenimento
ricreativo, per coglierlo come ri-creazione della realtà,
vedrà che siamo nello stesso girone in cui tempo fa, su queste
pagine, abbiamo trovato il terrorismo. Lì la guida era Brian
Jenkins, unanimamente considerato massimo esperto del problema, e
anche lui, come farà Guy Debord, ci chiedeva l’enorme
sforzo di mettere da parte le passioni, dicendoci che «terrorism
is theater»
e che «terrorists
want a lot of people watching, not a lot of people dead»,
sicché le passioni finiscono non solo per celare la natura del
problema, ma per esserne parte, e decisiva, se non determinante: qui,
nel caso del sasso, con quel che sta tra abbrivio e valanga.
Ci
chiede troppo, Guy Debord, quando ci invita a considerare che,
«nell’insieme
delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o
consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il
modello presente della vita socialmente dominante»
e che «non
è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione
economico-sociale, del suo impiego del tempo»
al punto da poterlo definire come «il
momento storico che ci contiene»?
Suona un po’
apodittico, è vero, sarà il caso di chiarire. Lo faccio fare a
Mario Perniola, che in due testi (Contro
la comunicazione,
Einaudi 2004; Miracoli
e traumi della comunicazione,
Einaudi 2009) ha descritto in modo magistrale le ragioni che fanno
dello spettacolo, e della comunicazione massmediatica che ne è il
«theater»,
realtà tanto pervasive da riuscire a sostituirsi, dopo averla
distorta e annullata, a quella dei fatti che si è presa cura di
rappresentarci. Citare i passaggi salienti dei due testi imporrebbe
un larghissimo uso del virgolettato, mi limiterò a una sintesi.
Mario Perniola dice che solo in tempi assai recenti l’umanità
s’è
posta la domanda sul senso di ciò che viveva individualmente e
collettivamente: la risposta era data in partenza dalla condizione
sociale, dal sapere tramandato e dai rituali. Il relativo benessere
che ha segnato gli ultimi due secoli e lo sviluppo delle scienze
sociali hanno consentito, per certi versi imposto, che la domanda
fosse formulata e che la risposta, esatta o no, fosse il progresso:
si era al mondo per progredire, il motore della storia era razionale
e progressivo, ogni regressione era solo episodica, se non apparente.
Via via che ci si allontanava dalla seconda guerra mondiale, che col
suo esito ha segnato il trionfo di questa concezione, essa ha cominciato ad
andare in crisi: «traumi»
e «miracoli»
hanno messo in discussione la linearità del processo storico con la
loro inspiegabilità e la loro imprevedibilità (il maggio francese
del 1968, la rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del muro di
Berlino del 1989, l’attentato alle Twin Towers del 2001). Stupore,
eccitazione, sconcerto: stati d’animo che hanno cercato, e trovato
nei media, la soluzione formale della risposta nella postura dello
spettatore che si misura con la suspense e il colpo di scena, il deus
ex machina e l’happy end, il flash back e il déjà vu. In altri
termini, la comunicazione ha dato vita a un simulacro di
partecipazione all’evento che, da un lato, consente di sentirsi
immersi in esso solo a patto di restarne fuori e, dall’altro,
impone che esso si esaurisca nella sua rappresentazione: siamo
l’evento in quanto platea rappresentata in scena. Perciò non ha
nulla di contraddittorio o di paradossale affermare, come fa Mario
Perniola, che «la
comunicazione aspira ad essere contemporaneamente una cosa, il suo
contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. È quindi
totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico
tradizionale, perché comprende anche e soprattutto
l’antitotalitarismo. È globale nel senso che include anche ciò
che nega la globalità».
Nel passare a Guy Debord, comunque, è importante chiarire che
«comunicazione»
e «spettacolo»
non
sono coincidenti, perché l’una è forma e l’altro è contenuto,
come ci illustra il § 24 de La
Société du Spectacle:
«Se
lo spettacolo, esaminato sotto l’aspetto ristretto dei “mezzi di
comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione
superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società
come una semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla
di neutro, ma la strumentazione stessa è funzionale al suo
auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell’epoca, in cui si
sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non
tramite la loro mediazione, se l’amministrazione di questa società
e ogni contatto fra gli uomini non possono più esercitarsi se non
mediante questa potenza di comunicazione istantanea, è perché
questa “comunicazione” è essenzialmente unilaterale; di modo che
la sua concentrazione consente di accumulare nelle mani
dell’amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli
permettono di continuare questa amministrazione determinata».
Altrettanto importante è aver chiara la sostanziale univocità degli
elementi che in tale contesto sembrano diversificarsi e perfino
contrapporsi nell’offrirsi come ventaglio di opzioni: «La
falsa scelta nel campo dell’abbondanza spettacolare, scelta che
risiede nella giustapposizione di spettacoli concorrenziali e
solidali, come nella sovrapposizione dei ruoli (principalmente
significati e veicolati da oggetti), che sono contemporaneamente
esclusivi e ramificati, si sviluppa in lotte di qualità
fantomatiche, destinate ad appassionare l’adesione alla trivialità
quantitativa. Così rinascono le false opposizioni arcaiche dei
regionalismi o dei razzismi incaricati di trasfigurare in superiorità
ontologica fantastica la volgarità delle posizioni gerarchiche nel
consumo. Così si ricompone l’interminabile serie dei contrasti
derisori, che mobilitano un interesse sottoludico, dallo sport alle
elezioni. Laddove ha preso possesso il consumo abbondante, emerge
un’opposizione spettacolare principale fra la gioventù e gli
adulti; perché non esiste da nessuna parte l’adulto, padrone della
propria vita, e la gioventù, la trasformazione di ciò che esiste,
non è affatto appannaggio degli uomini che oggi sono giovani, ma del
sistema economico, del dinamismo del capitalismo. Queste sono le cose
che dominano e che son giovani: che sostituiscono se stesse»
(§ 62).
Ancor meglio nei Commentaires
sur la Société di Spectacle:
«Il
potere dello spettacolo, così essenzialmente unitario,
centralizzatore per forza di cose, e completamente dispotico nello
spirito, si indigna assai spesso vedendo formarsi sotto il suo regno
una politica-spettacolo, una giustizia-spettacolo, una
medicina-spettacolo o tanti altri “eccessi mediali” così
sorprendenti. […] Con una certa frequenza, i padroni della società
affermano di essere serviti male dai loro dipendenti mediali; più
spesso rimproverano alla plebe degli spettatori la tendenza ad
abbandonarsi senza ritegno, in modo quasi bestiale, ai piaceri dei
mass media. In questo modo si nasconderà, dietro una moltitudine
virtualmente infinita di presunte divergenze mediali, quello che è
al contrario il risultato di una convergenza spettacolare voluta con
notevole tenacia»
(III).
Ma per il prossimo paragrafo, dove vedremo come tutto questo
si fa esemplare nella gestione mediatica dell’epidemia di Covid-19, torna utile anche un altro punto:
«Si
sente dire che ormai la scienza è subordinata a imperativi di
redditività economica; ciò è vero da sempre. Il fatto nuovo è che
l’economia ha cominciato a fare apertamente guerra agli umani. […]
Prima di arrivare a questo punto la scienza godeva di una relativa
autonomia. Perciò sapeva pensare il suo briciolo di realtà; e in
tal modo aveva potuto contribuire immensamente ad aumentare i mezzi
dell’economia. Quando l’economia onnipotente è diventata folle, e
i tempi spettacolari non sono altro che questo, ha soppresso le
ultime tracce dell’autonomia scientifica, inscindibilmente sul
piano metodologico e su quello delle condizioni pratiche
dell’attività dei “ricercatori”. Non si chiede più alla
scienza di capire il mondo o di migliorare qualcosa. Le si chiede di
giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa»
(XIV). In questo frangente, come la monaca di Monza, «la sventurata rispose».