«Now,
if you think that science is an abstract subject free
of sensationalism and distortions, I
have some sobering news...
Scientists
too are vulnerable to narratives... They
too are human
and get their attention from
sensational matters...»
Nassim
Nicholas Taleb, The
Black Swan,
2007
In
tutt’altro
contesto – era sei o sette mesi fa, recensivo una parodia di Platone alla corte di Dionisio – della scienza dicevo
quanto segue:
Nei
vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un
generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di
pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo
sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni
posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la
condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di
superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile,
verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che
è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo
sia preferibile a quel «falsificabile»
che
di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo alla
Fälschungsmöglichkeit
di
cui ci parla Popper). Un
vaglio assai severo, occorre dire, dal quale tuttavia nessuno
pretende di potersi sottrarre, né in forza dell’autorità
precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua
congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è
indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale
consenso» di
cui si diceva prima, dunque, ha comunque un carattere di
transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia l’uso di
un termine come «verità»
da
appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto
scientificamente comprovato. Difficile dire con quanta consapevolezza
accada, ma sembra quasi che chi si misura con la conoscenza
scientifica abbia una riserva di pudore, di umiltà, di prudenza o di
chissà cos’altro nell’assegnare a un dato scientifico quanto di
assoluto (eterno, immutabile, universale) è intrinseco al concetto
di «verità»,
riserva tanto pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a
«vero»
si
preferisce sempre «attendibile»,
«esatto»,
«credibile»,
che di «vero»
sono
sinonimi, ma non rimandano alla «proprietà
di ciò che esiste in senso assoluto» (Treccani)
vantata dalla «verità».
È
evidente quanto questo statuto sia stato violato negli ultimi mesi:
mai tanto poco pudore, tanta poca umiltà, tanta poca prudenza, da
parte di alcuni uomini di scienza chiamati a spiegarci cosa stesse
accadendo. Sul piano deontologico, possiamo liquidare la questione
col biasimo, ma su quello ontologico siamo chiamati ad essere
indulgenti, concedere che «they
too are human and
get their attention from sensational matters»,
anch’essi
immersi in quella «société
du spectacle»,
in cui «le
spectacle n’est pas un ensemble d’images, mais un rapport social
entre des personnes, médiatisé par des images»,
«une
vision du monde qui s’est objectivée»,
«moment
historique qui nous contient».
In
questa dimensione è del tutto comprensibile che, come tutti,
«scientists
too are vulnerable to narratives»,
e cioè alle trame che innervano il reale cercando di dargli un senso
razionale, perché l’idea
possa dettar legge al mondo intimandogli di obbedire alla logica
(meglio impartigli l’ordine
in tedesco, come si fa coi cani: «Was
vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist
vernünftig»).
Il problema – e problema bello grosso – nasce col dover
constatare che le Reazioni
umane alle catastrofi
(titolo di un libricino tirato giù dagli scaffali in queste ultime
settimane, autori Massimo Cuzzolaro e Luigi Frighi, Quaderni della
Fondazione Adriano Olivetti, 1991) mettono in gioco emozioni:
«Secondo
Slovic, Fischhoff e Lichtenstein gli atteggiamenti sia individuali
che collettivi che spesso si registrano nei confronti della minaccia
ambientale (tecnologica o naturale) sono da una parte la tendenza
alla “sovrastima” cui spesso corrispondono sentimenti di ansia e
di impotenza e per contro la tendenza alla “sottostima” fino agli
estremi della totale “denegazione del pericolo”»
(pag. 49).
«Scientists
too»?
Sì, a sentire Slovic, Fischhoff e Lichtenstein parrebbe che la cosa
non riguardi solo «policy
makers and citizens»,
ma anche «the
entire community of scientists»,
sicché c’è
da chiedersi: «If
public debates and communications from experts do little to allay
fears and, indeed, may exacerbate them, how should we structure
public participation?»
(Perceived
Risk: Psychological Factors and Social Implications,
pag. 22). Questione che ovviamente si pone anche in relazione all’atteggiamento
opposto, quello della «tendenza
alla “sottostima”»,
che tuttavia occorre dire quasi mai arriva agli «estremi
della totale “denegazione del pericolo”»,
se non nelle interpretazioni di comodo.
Di fatto, le interpretazioni
di comodo sembrano privilegiare di gran lunga il discorso pubblico
degli «scientists»
che «do
little to allay fears and, indeed»,
finiscono spesso per «exacerbate
them».
Il peggio, tuttavia, accade, quando lo «scientist»
è
uomo di «spettacolo»
(qui tra virgolette per rimandare a quanto se n’è
detto poc’anzi),
costretto a passare dal sottostimare al sovrastimare, per rispondere
alla fluttuante istanza del mainstream.
Eccolo, dunque, quando in Italia il Sars-coV-2 è almeno da tre
settimane, dire in favore di telecamere che «oggi
in Italia il virus non c’è,
al momento ha più senso preoccuparsi dei meteoriti»
(L’Assedio,
20.2.2020 – Nove),
e allora possiamo sentirci in una botte di ferro, tanto il governo ha
sospeso i voli da e per la Cina, possiamo allegramente pigiarci in
47.000 a tifare per l’Atalanta contro il Valencia, e dopo aver
portato il nonno al Pronto Soccorso: tossiva e aveva un po’
di febbre, ma si trattava senza dubbio di banale influenza (quella
che comunque ne ammazza 8.000 ogni anno), il virologone escludeva
potesse trattarsi di Covid-19.
Lo stesso virologone che, a vedere una
settimana dopo il Sars-coV-2 diffondersi dallo stadio di Bergamo e
dal Pronto Soccorso a un’intera
regione, avallava misure di restrizione del tutto immotivate a fronte
di una possibilità di contagio che, come per ogni virus, è in
relazione alla carica virale infettante: bastava una sola particella virale a
sterminare un condominio. E forse gli si può pure concedere che
l’intenzione
non fosse malvagia, in fondo c’era
da spostare l’ansia
dal meteorite all’epidemia,
e bisognava farlo in fretta, ci voleva troppo tempo a spiegare che un
R0 uguale a un 2,6 o a un 3,4 si ha solo in condizioni di pieno
favore al Sars-coV-2, come quelle – guarda caso – realizzate col
dire che «in
Italia il virus non c’è»,
certo non con l’andare
a fare jogging.
Di fatto, seppure a fatica, si fa largo tra panico e isteria la ragione che spiega perché proprio la Lombardia, e proprio con quei numeri: al virus si è dato un formidabile moltiplicatore, prima, proprio come si è dato un altrettanto formidabile moltiplicatore alla paura, dopo. Qualcuno, certo, avrà pure fatto un pensierino per approfittarne e farsi regista dello «stato d’eccezione», Giorgio Agamben non ha tutti i torti, ma in larga misura abbiamo assistito all’inverecondo blaterare di personaggi in cerca di un autore.
E qui, proprio per aver concesso fin troppa
indulgenza sul piano ontologico a questo genere di «scientist»
che pretende di incarnare la «verità»
sia quando sottostima che quando sovrastima, e sempre per servire le
ragioni dello «spettacolo»,
siamo sbalzati con violenza su quello deontologico, dove lo troviamo
con la sua ineffabile faccia di cazzo a promuovere un Patto
trasversale per la scienza,
che della «verità»
pretende
di essere il vocione autorizzato a zittire chi disturba lo
«spettacolo».
E su questo piano non basta il biasimo.