Una
delle scorrettezze cui si fa più spesso ricorso quando si polemizza
è quella dell’argomento
fantoccio,
col quale si offre al foro una rappresentazione tanto distorta della
posizione avversa da renderla obiettivamente insostenibile. Non è un
caso, dunque, che a questa scorrettezza spesso se ne accompagni
un’altra, quella dell’argumentum
ad hominem,
che mira a screditare una tesi screditando chi la sostiene.
Accompagnandosi, esse si potenziano a vicenda. Distorcendo la
posizione avversa fino a renderla obiettivamente insostenibile,
infatti, l’avversario diventa persona inaffidabile, e questa sua
inaffidabilità va a costituire ulteriore elemento che ne scredita la
tesi.
È
proprio a queste due scorrettezze, e quasi esclusivamente a queste
due, che ormai Il
Foglio
ricorre quando polemizza, e questo è un vero peccato, perché in
passato era solito offrire un ventaglio assai più ampio e variegato
di vizi d’argomentazione, con esemplari saggi di appello
all’autorità e di richiamo alla tradizione, di inversione
dell’onere di prova e di confusione tra causa ed effetto, di falsa
nitidezza e di pendio scivoloso, ecc.
Dapprima
ho pensato dipendesse dal fatto che a dirigerlo non fosse più
Giuliano Ferrara, ma Claudio Cerasa: «hanno
mise ’a fessa mmano a ’e ccriature»,
mi son detto ricorrendo a un’immagine in uso dalle mie parti, ma
sbagliavo, perché quella certa qual cura che in passato Il
Foglio
non aveva mai fatto mancare alla mistificazione, alla manipolazione,
all’avvelenamento
dei pozzi, spariva via via anche dai pezzi siglati con l’elefantino
rosso, per lasciar posto solo a fallacie grossolane come il ricorso
all’emozione, la petizione di principio, il falso dilemma e,
appunto, l’argumentum
ad hominem,
quasi sempre dopo aver ridotto l’homo
a fantoccio.
Ho
concluso che il problema non è Cerasa. È che, più banalmente, anche Il
Foglio
risente, e pesantemente, da almeno cinque o sei anni a questa parte,
del degrado che da tempo affligge la discussione pubblica, in
generale, e la polemica, in particolare: ovviamente vige ancora,
com’è da sempre, lì e ovunque, la regola che nel foro non bisogna
farsi troppi scrupoli – persuadere rimane questione di vita o di
morte – ma pare che un po’ tutti ormai ritengano superfluo quel
tocco di eleganza che un tempo si considerava velo indispensabile
alla frode, e che, volendo, poteva essere considerato perfino come
una sorta di ultimo rispetto dovuto ai frodati. Il giornale fondato da Ferrara e diretto da Cerasa, semplicemente, non fa eccezione.
Chi
di tutto ciò volesse aver prova con un esempio non ha che da
considerare il modo con cui Il
Foglio
ha avversato la posizione che, riguardo alle misure adottate per
fronteggiare l’epidemia da Covid-19, Giorgio Agamben ha espresso
dapprima ne Lo
stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, apparso
su il
manifesto
di mercoledì 26 febbraio, e poi in altri testi (li trovate tutti
alla pagina quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben),
che, senza smentirla, né mitigarla, la precisavano, per lo più in
risposta alle obiezioni che gli erano state mosse.
Non
si poteva certo pretendere che per contestare quella posizione Il
Foglio
si facesse scrupolo nel far ricorso a vizi d’argomentazione, ma chi
si aspettava che ci risparmiasse almeno quelli più volgari ha avuto
la delusione che meritava: «Un
filosofo da cabaret ha scritto sul manifesto che ’o virùs è tutta
una messinscena per affermare lo stato di eccezione, capite?»
(Giuliano
Ferrara); «Agamben
è l’intellò di maggior pedigree a predicare, da mesi, che il
coronavirus non esiste, è una diceria dell’untore. Non è di
quelli che pensano che sia un complotto cinese. No, lui è proprio
convinto che non esista […] e nel sillogismo con cui ce la mena da
mesi ritiene che, non essendoci il virus, la nostra reclusione sia il
vero complotto, contro la libertà: “Sta nascendo un dispotismo e
sarà peggiore di quelli del passato”. Ma sticazzi, roba da darsela
Agamben»
(Maurizio Crippa); «Nel
2004 Agamben annullò un corso alla New York University perché le
condizioni per l’ingresso negli Stati Uniti – la schedatura e il
rilascio delle impronte digitali – gli parevano figlie di un nuovo
paradigma biopolitico totalitario»
(Guido Vitiello).
«Un
filosofo da cabaret»
invitato a tenere «un
corso alla New York University»?
Eccheccazzo, quando ci si mette in tre o quattro a gettare merda
addosso a qualcuno, mettersi d’accordo
prima non guasterebbe, servirebbe almeno ad evitare il fuoco amico. E poi, ok, passi l’uso
del cognome di chi ti sta sul cazzo per confezionare una battutina da
ginnasiale scemo («darsela
Agamben»),
che quando lo fa Dagospia
(«non
c’è
Crippa per gatti»)
tutto schifato alzi sopracciglio come a dire «mon dieu, quelle vulgarité!», ma dimmi: «l’intellò
di maggior pedigree» ha
scritto veramente che «il
coronavirus non esiste»? No, eh? E se a chi ti legge viene il prurito di culo di andare a controllare,
che figura ci rimedi?
E
sì che un concetto come quello di «stato
d’eccezione»
si
prestava all’impiego
di fallacie assai più sofisticate.
Si poteva addirittura metterne in discussione la solidità, perché
già nella formulazione datane da Carl Schmitt (Politische
Teologie,
1922) ci è offerto come il momento che oppone la legittimità alla
legalità: glissando sul sottotesto, che in realtà oppone l’arbitrio
al diritto, in più attribuendo al primo la piena sovranità che al
secondo è concessa solo in simulacro, si poteva liquidare il
concetto stesso come uno specioso paradosso, accusando Agamben di
aver appiccicato la nazicazzabubbola schmittiana a una situazione in
cui, al contrario, la legittimità e la legalità trovano perfetta
coincidenza nella sospensione del diritto di libera circolazione
che la Costituzione
contempla in forza di superiori «motivi
di sanità e di sicurezza» (art.
16). Certo, c’era
da sforzarsi un pochino per far rientrare nella fattispecie di
«limitazioni
che la legge stabilisce in via generale»
lo scacazzo di un decreto governativo ogni settimana e di
un’ordinanza
regionale ogni tre giorni, ma con un po’
di faccia tosta, via, non era sforzo da farsi scendere le emorroidi.
Oppure
si poteva lasciare in pace Schmitt per contestare la lettura fattane
da Agamben (Stato
di eccezione,
2003). Certo, c’era
da leggere un centinaio di pagine, comprenderle o almeno far finta, e
poi aggrapparsi a un aggettivo o a un verbo, tirando a più non
posso, nella speranza di far venire giù tutta la costruzione. Ma
pure questo si è ritenuto troppo faticoso e, in ultima analisi, non
necessario, come rivela quanto segue: «“Fermi
tutti, è un’epidemia
inventata”, spiega invece il filosofo Agamben. Prendiamo i fatti
per quello che sono, poi mandiamoli all’aria, rovesciamoli,
laviamoli con un po’ di “biopolitica” e guardiamoli meglio.
Eccoci piombati nello “Stato di eccezione”. Si entra e esce dallo
“Stato di eccezione” come se niente fosse, peggio che con le
“emergenze democratiche”»
(Andrea Minuz).
Non può trattarsi di un refuso tipografico, perché
per ben due volte a Stato
si mette la maiuscola, come quando al termine si dà accezione di «comunità
politica costituita da un popolo stanziato in un determinato
territorio e organizzato unitariamente come persona giuridica
collettiva» (Treccani),
«organizzazione
politica e giuridica della società civile»
(Devoto-Oli),
«istituzione
che rappresenta tutti i cittadini governati da uno stesso governo»
(Palazzi).
Nulla a che vedere, dunque, con lo stato
che nello stato
d’eccezione
sta per situazione,
condizione,
modo
d’essere,
e perciò vuole la s
minuscola.
D’altronde
occorre essere indulgenti con Minuz: insegna Storia del Cinema, non è
tenuto ad aver letto Schmitt e Agamben, ma – siamo onesti –
perché questo dovrebbe fargli impedimento a parlarne? Non sia mai,
verrebbe meno il tratto distintivo del giornale fondato da Ferrara e diretto da Cerasa, che Edmondo Berselli definì «pattuglia
di gente tecnicamente squinternata» (Venerati
maestri,
2006).
Vabbè
– mi chiederà il lettore – ma Agamben? Agamben ha ragione, dico
io. Ha detto che le misure di emergenza messe in atto per
fronteggiare il Covid-19 sono state «frenetiche,
irrazionali e del tutto immotivate»?
C’è
chi in buona fede può dire siano state sagge ed equilibrate? C’è
chi se la sente di sostenere che abbiamo sempre avuto motivazioni
razionali? Certo, ha scritto che «non
c’è un’epidemia
di SARS-CoV2 in Italia»,
ma l’ha
scritto solo quattro giorni dopo che Burioni aveva detto alla
Bignardi che «in
Italia il virus non c’è, ha più senso preoccuparsi di meteoriti»
(L’Assedio
– Nove, 20.2.2020), e
comunque limitandosi a farlo riportando in virgolettato quanto affermato dal Cnr, che in quei
giorni negava fosse in corso un’epidemia
(en passant, va detto che, contrariamente a quanto gli ha attribuito
Il Foglio, già dal 5 marzo in poi Agamben non ha avuto alcuna difficoltà
nel riconoscere che quella in corso fosse un’epidemia). Erano i giorni in cui, per il Cnr, l’infezione
«causa[va]
sintomi
lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel
10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però
benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei
pazienti richieda ricovero in terapia intensiva» (anche
in questo caso Agamben si limitava a prendere di peso un virgolettato del Cnr per riportarlo nel corpo del suo
articolo).
Dati cui gli
sviluppi della vicenda sanitaria hanno dato sostanziale smentita?
Ha scritto, poi, che le misure del Governo, scavalcando il Parlamento, implicavano di fatto la sospensione di un buon numero di
diritti costituzionalmente garantiti a mezzo di «una
vera e propria militarizzazione»,
e l’ha scritto il 26 febbraio, diverse settimane prima che ci
toccasse assistere a blitz delle forze dell’ordine impiegate a
interrompere messe cui partecipavano una decina di fedeli seduti a
più di due metri di distanza l’uno dall’altro, a droni librati
in volo a intercettare rider sorpresi a consegnare pizze, a quad
lanciati in manovre a tenaglia per braccare un tizio che, solo
soletto, prendeva il sole in spiaggia: il termine «militarizzazione»
calza male a episodi del genere?
L’articolo del 26 febbraio, poi, chiudeva segnalando «lo
stato di paura che in questi anni si è diffuso nelle coscienze degli
individui»
e che li porta ad accettare «la
limitazione della libertà imposta dai governi»,
«in
nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi
governi che ora intervengono per soddisfarlo».
Esagerato? A me non pare. Di fatto, in cambio di una sicurezza che
non si è rivelata poi tanto sicura, il Paese ha supinamente
accettato obblighi e divieti che in più di un caso sono parsi privi
di ogni altro senso che quello di saggiare la sua supinità.
Un
discorso a parte, in verità, meriterebbe la ratio che informava l’offerta
di questa sicurezza. Si prenda a esempio l’ineffabile Di Maio che,
commentando qualche episodio di disobbedienza, prospettava che questo
avrebbe posto la necessità di restrizioni più severe per tutti.
Ricordate il sergente maggiore Hartman in Full
metal jacket,
vero? Cosa dice quando scopre che, contravvenendo alla regola che in
camerata non si porta cibo, Palla-di-lardo ha inguattato una
ciambella nella sua trousse da campo? «Il
soldato Palla-di-lardo ha disonorato se stesso e ha disonorato il suo
plotone. Io ho cercato di aiutarlo, ma ho fallito. Io ho fallito perché
voi non avete aiutato me. Nessuno di voi ha dato al soldato
Palla-di-lardo le dovute e giuste motivazioni. Qui, da adesso in poi,
quando Palla-di-lardo farà una cazzata, io non punirò il suddetto:
io punirò tutti quanti voi».
Convengo che il paragone possa apparirvi azzardato, ma credo che
molto dipenda dal fatto che quello di Hartman era un latrato e quello di Di Maio un cinguettio.
Ma
torniamo ad Agamben. Che altro ha detto?
11 marzo: «Le
recenti disposizioni trasformano di fatto ogni individuo in un
potenziale untore, esattamente come quelle sul terrorismo
consideravano di fatto e di diritto ogni cittadino come un terrorista
in potenza».
Lasciamo perdere se sia giusto o meno, anzi, concediamo che sia più
che giusto, ma chiediamoci: è vero o no?
17
marzo: «L’ondata
di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la
nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. [Qui
sarebbe utile dare qualche ragguaglio sul concetto di «nuda
vita»
che ha un ruolo centrale nell’opera di Agamben, ma questo ci
costringerebbe a divagare troppo. Possiamo tagliar corto prendendo a
corrispettivo quel che è la «nuda
proprietà» di una casa: è mia, ma non posso abitarvi.] È
evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente
tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro,
perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e
politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di
perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e
separa».
Qui, mi rendo conto, è un po’ più arduo pronunciarsi. Ritengo che
tutto dipenda dalla tutta personale idea che si ha della vita, che
poi altro non è l’idea che ci si è fatti della propria vita: come
c’è chi alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza, c’è
chi alla sicurezza è disposto a sacrificare ogni libertà. Anche qui
possiamo sospendere ogni giudizio di merito, basta chiedersi: è vero
o no?
27
marzo, forse il punto più intenso della sua riflessione: «Mai
come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei
momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori,
che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da
scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al
discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge
spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come
sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad
assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute
religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i
propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue
misure».
Quanto lontano dal vero?
E ancora: «Si
direbbe che gli uomini non credono più a nulla, tranne che alla nuda
esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla
paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il
mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata».
È considerazione balzana?
6
aprile, sul cosiddetto «distanziamento
sociale»:
«È
importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul
distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe
ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso:
essa sarebbe, proprio al contrario, come quella che vediamo oggi
intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma,
proprio per questo, particolarmente compatta e passiva».
Non so a voi, ma a me pare osservazione tutt’altro che banale.
Anzi, rinunciando all’eufemismo, direi sia osservazione
estremamente acuta.
14
aprile: «Com’è
potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente
e politicamente crollato di fronte a una malattia? [...] Come abbiamo
potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era
possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri
umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che i loro
cadaveri fossero bruciati senza un funerale? [...] So che ci sarà
immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio
è stato fatto in nome di principi morali. A costoro vorrei ricordare
che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si stancava di
ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza,
per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale
kantiana. Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per
salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella
che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà».
E
ancora, 20 aprile, sulla patente incostituzionalità di misure
ventilate in ordine alla cosiddetta «fase
2»:
«Due
punti fra quelli che si preparano sono particolarmente odiosi e in
palese violazione dei principi della costituzione: la possibilità di
muoversi limitata per fasce di età, cioè con l’obbligo per gli
ultrasettantenni di restare chiusi in casa e la mappatura sierologica
obbligatoria per tutta la popolazione. […] [Anticostituzionale,
la prima],
in quanto crea una fascia di cittadini di serie B, mentre tutti i
cittadini devono essere uguali davanti alla legge, e li priva di
fatto della loro libertà con una imposizione dall’alto del tutto
ingiustificata, che rischia di nuocere alla salute delle persone in
questione e non di proteggerla. […] Altrettanto illegittimo è
l’obbligo di una mappatura sierologica, dal momento che l’art. 32
della costituzione stabilisce che nessuno può esser sottoposto a
visita medica se non per disposizione di legge, mentre ancora una
volta, com’è avvenuto finora, le misure verrebbero stabilite per
decreto del governo».
Anche qui: trovate traccia di vizio logico?
Non
vorrei che il mio lettore pensasse che aver preso le difese di
Agamben voglia dire ch’io ne condivida il pensiero. Molto nella sua
riflessione filosofica mi pare discutibile, e anche la sua posizione
sui temi sollevati dall’emergenza Covid-19 non mi pare affatto
sottoscrivibile in toto, come sarà evidente da quanto dirò riguardo
all’intervista che chiude questa rapida galleria dei suoi testi sulla questione. La
cosa che, però, mi diverte da morire è che quanto mi trova in
totale disaccordo con lui in questa intervista ha una singolare sintonia con molte passate
annate de Il
Foglio,
sia per il contenuto, sia per la forma. Agamben, infatti, dice a chi
lo intervista che «gli
scienziati, a torto o a ragione, perseguono in buona fede le loro
ragioni, che si identificano con l’interesse della scienza e in
nome delle quali – la Storia lo dimostra ampiamente – sono
disposti a sacrificare qualunque scrupolo di ordine morale. Non ho
bisogno di ricordare che sotto il nazismo scienziati molto stimati
hanno guidato la politica eugenetica e non hanno esitato a
approfittare dei lager per eseguire esperimenti letali che ritenevano
utili per il progresso della scienza e per la cura dei soldati
tedeschi».
Non puzza di Meotti?
E ancora: «La
scienza è diventata la religione del nostro tempo. L’analogia con
la religione va presa alla lettera: i teologi dichiaravano di non
potere definire con chiarezza che cos’è Dio, ma in suo nome
dettavano agli uomini delle regole di condotta e non esitavano a
bruciare gli eretici; i virologi ammettono di non sapere esattamente
che cos’è un virus, ma in suo nome pretendono di decidere come
devono vivere gli esseri umani».
Certo, Langone avrebbe messo a inciso che Dio non può e non deve
esser chiaro, e soprattutto che bruciare gli eretici era cosa buona e
giusta per preservare la fede dalle insidie del dubbio, tipo
zampirone che fuga le zanzare, ma per il resto, via, siamo lì.
E
infine: «La
specie umana è caratterizzata da una progressiva inibizione dei
processi vitali naturali di adattamento all’ambiente, che vengono
sostituti da una crescita ipertrofica di dispositivi tecnologici per
adattare l’ambiente all’uomo. Quando questo processo sorpassa un
certo limite, esso raggiunge un punto in cui diventa controproducente
e si trasforma in autodistruzione della specie. Fenomeni come quello
che stiamo vivendo mi sembrano mostrare che quel punto è stato
raggiunto e che la medicina che doveva curare i nostri mali rischia
di produrre un male ancora più grande. Contro questo rischio
dobbiamo resistere con ogni mezzo».
Manca del caratteristico flamboyant
ferrariano, è vero, ma sfigurerebbe a premessa di una tirata contro
la pillola anticoncezionale?