[A
otto mesi di distanza dalla pubblicazione su queste pagine della
recensione del suo Hanno tutti ragione?, Massimo Adinolfi mi scrive
per contestare la lettura che ne ho dato. Gli ho chiesto il consenso
per rendere pubblico questo scambio epistolare. Lo ha dato.]
Caro
Luigi,
poiché
il fine di questa tua lunga recensione non è - mi pare evidente -
quello di dire cosa c'è dentro il libro, posso permettermi anch'io,
credo, di non prendere in considerazione minutamente tutto quello che
si trova nei tuoi post, e limitarmi all'essenziale.
Su chi
sia filosofo. Gran questione: io non pretendo di esserlo, il primo
che mi ha attribuito pubblicamente la patente è stato Pippo Baudo,
puoi ben capire che non ho una ragione particolare per difenderne la
validità. Molto più banalmente, insegno filosofia e sì, ho letto
libri di filosofia per cui mi vien fatto di citarli. A me basta. Poi,
se qualcuno mi dice che tu, che citi Bentham e Carnap e tutti gli
altri, lo sei più e meglio di me, concedo totum.
Sulla
filosofia. Anche in questo caso, ho pochissime pretese, e anche meno
ne ho in un libro di 96 paginette. A chi me ne chiede la definizione,
io dico solo: è la cosa di cui si sono occupati Platone, Aristotele,
Kant e Hegel. Poi aggiungerei un paio del Novecento, con molta
maggiore flessibilità, e stop (e considero in genere meritevole di
patente chi mi ha insegnato qualcosa sui fantastici quattro). Mi
basta.
Sugli
argomenti ex auctoritate. Se ti è parso argomento ex auctoritate
l'uso di locuzioni del tipo "Hegel avrebbe detto", allora
rileggiti: ne fai uso anche tu, con anche maggiore abbondanza
(Leonard Susskind che dice che secondo lui... è carino, devo
ammetterlo)...
Sull'errore.
Tu sei di una pignoleria assurda, il fatto che ti limiti a segnalare
un refuso solo, e un'imprecisione sola (sulla 'sola religione di
Stato') per me equivale a una medaglia. (Nella sostanza, saresti il
solo a negare che nei rapporti con la Chiesa cattolica qualcosa
cambia col fascismo e i patti lateranensi, e che lo Stato
post-risorgimentale non sempre si era ricordato dell'articolo dello
Statuto).
Sul
relativismo e sulla verità. Qui mi spiace, ma la tua prosa sempre
brillante non mi nasconde il fatto che non hai capito gran che.
Certo, tu in genere carichi come un toro appena leggi la parola
'filosofia', perché vedi sempre sottane in giro, e su questo io
posso poco. Ma scrivi come se la mia difesa della verità equivalga a
una sconfessione pura e semplice del relativismo, il che non è.
Scrivi come se io volessi in nome della verità sbarazzarmi del
relativismo, il che non è. Non brandisco nessuna verità (non ho
nostalgie di sorta), e spero che mi risparmierai i giochetti del tipo
"ma questa a sua volta non è una verità?", giochetti a
cui tu sei ovviamente più esposto di quanto non sia io, visto il tuo
relativismo . Il libro dice una cosa molto diversa, che nessun
lettore dei tuoi post scoprirà, limitandosi alla tua recensione.
Dice che la democrazia si difende sostenendo che le sue istituzioni
(pluralistiche, laiche, liberali) secernono la verità - che è una
verità minuscola, di un formato compatibile con quelle istituzioni e
con le cose che sai tu.
Stessa
cosa sul rappresentare (e no: "rappresentare è meglio che
essere", non "essere rappresentati". Anche qui temo ci
sia scarsa comprensione: rappresentare è il processo, il movimento,
essere rappresentati è la qualifica di un soggetto. Io sto parlando
della prima cosa, non della seconda). Il lettore del tuo blog non
saprà mai che il libro difende le istituzioni rappresentative e in
generale l'architettura liberale dell'ordinamento democratico. Del
binomio 'democrazia liberale' sceglie di occuparsi molto più del
primo (considerandolo in pericolo), che del secondo termine, e del
rappresentare si occupa proprio in quanto l'autore pensa che una
democrazia liberale che rinunci al principio di rappresentanza - oggi
sotto attacco - non può esistere. Ma tu sei troppo occupato a
ricondurmi sotto l'ala protettiva di Ferrara e di qualche altra
tua ossessione per rendertene davvero conto.
Sul
buonsenso. Anche qui devo invitarti a una lettura più attenta delle
cose che scrivo (ma grazie per l'attenzione), non limitandoti
all'omofonia. Il buon senso entra nell'articolo su Ratzinger contro
le pretese assolutistiche della dottrina; il buonsenso di Salvini che
scrive oggi mangio pizza con le cipolle su Twitter è un'altra cosa,
funziona come un richiamo all'ordine contro le sofisticherie dei
radical chic e la loro passione per le distinzioni intellettuali. Non
sono la stessa cosa, e secondo me se deponi il gusto per la polemica
e la malevolenza di volermi prendere per forza in castagna tu puoi
ben ritrovarti con me sia nel primo che nel secondo caso. Se poi mi
consenti un po' di auctoritas: la filosofia ha sempre diffidato del
buon senso, da Platone in poi, e come pensiero critico ha sempre
preso le sue distanze dagli idola fori, theatri, ecc. Io non voglio
mica che rinunci a questa attitudine, ma sono sensibile all'argomento
di gente come Peirce, che al Descartes che dubita di tutto domandava:
e tu, su cosa basi il tuo dubbio? La risposta che c'è implicitamente
nell'articolo su Ratzinger come nel libriccino è: su una forma
di vita, su istituzioni pluralistiche che consentono l'esercizio
della distinzione intellettuale. Col che vedrai, se ti applichi, che
l'articolo su Ratzinger e il libriccino di 96 paginette non si
contraddicono affatto.
Sulle
minoranze. Riesci a far sembrare al lettore del tuo blog che io trovi
inammissibile che la propria verità possa risultare minoritaria. Ma
dire che la democrazia secerne verità non vuol dire affatto che la
verità è sempre dalla parte della maggioranza. Ci vuole molta
malevolenza per dare questa lettura delle 96 paginette, dal momento
che, ancora una volta, la secrezione è affidata essenzialmente al
pluralismo, al confronto delle minoranze, ecc. Se togli le minoranze,
togli il processo di 'secrezione' della verità: dovevi leggerla
così, come una richiesta di tutela del pluralismo democratico,
invece di leggerla come affermazione di conformismo. C'è una
citazione di Mill in proposito: mi rendo conto che, detta così, può
sembrare un argomento ex auctoritate, ma ciononostante non mi
dispiace che anche il lettore del tuo blog sappia che può trovarvela
(tu lo sai già, anche se hai finto di non leggerla).
Sulle
96 paginette. Sono pochine, è vero, eppure sei riuscito a non
occuparti di circa una novantina di esse. Che è un merito, devo
dire, per una recensione così gustosa.
Massimo Adinolfi
* * *
Caro
Massimo,
devo
confessarti che trovo assai deludenti le obiezioni che muovi alla mia
recensione. In sostanza, eludi la gran parte delle questioni che ho
sollevato, limitandoti a respingere quello che ritieni sia stato un
attacco alla tua persona, peraltro – lasciatelo dire – in modo un
po’ disonesto, e cioè insinuando che le ragioni starebbero tutte
in un malanimo nei tuoi confronti, dovuto al vederti «sotto
l’ala protettiva di Ferrara».
Sbagli, e mi stupisco che tu ti sia dato questa spiegazione, anche se
ho una mezza idea al riguardo: questa spiegazione, in realtà, hai
voluto suggerirla a chi leggerà questo scambio epistolare, perché
sai bene che è mio costume rendere pubblici i carteggi relativi a
quanto scrivo sul mio blog. In altri termini, ti sei presentato al
lettore di questa pagina dicendo: «Sapete, io di tanto in tanto
scrivo per Il Foglio, e Castaldi, si sa, nutre un odio cieco verso il
giornale fondato da Ferrara, cecità di cui il mio incolpevole
libricino ha fatto le spese. Tenetene conto, mi raccomando»,
occhiolino.
Capirai, allora, quanto sia necessario ch’io ti
rammenti – pubblicamente – che, quando mi mettesti a conoscenza
del fatto che Cerasa da tempo ti chiedeva qualche pezzullo per Il
Foglio, e tu eri indeciso sul da fare, fui proprio io a consigliarti
di accettare, e senza frapporre ulteriore indugio. Perché? Perché,
senza saperlo, tu eri fogliante già da molto prima che la tua firma
comparisse su quel giornale: quello era il pulpito dal quale l’antica
pretesa della filosofia a governare la polis, ormai decaduta a
offerta di consulenza, poteva darti il miglior smalto, altro che star
lì a recitare il Carmide di Platone col povero Barbano.
Questo, però, non te lo dissi. Ricordi cosa ti dissi, invece?
Aspetta, ché da qualche parte dovrei avere ancora il testo del
messaggino: «Accetta, accetta subito. Il Mattino è così
maledettamente provinciale. E poi, medita a dovere, con Il Foglio le
possibilità del salto di qualità nel settore, dico di quello che
costruisce merito per autoimplementazione tra consorterie, sono
enormemente maggiori. Guarda la Chirico, per esempio». Sarà stato
per l’esempio della Chirico, boh, non so, però tu ascoltasti il
mio consiglio. Spiace, perciò, che tu non abbia saputo cogliere a
dovere nella mia recensione la frase che a Ferrara scappò nel 2008 e
che sta miglior sintesi delle tue 96 paginette: «Un’oligarchia ben
organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile». Sgrossando
il tuo libricino dalle molte superflue carinerie e arguzie, infatti,
cosa resta? Che la sola democrazia possibile è quella che «secerne
verità» da ghiandole specializzate allo scopo.
En passant, caro
Massimo, che metafora di merda, quella della secrezione. So bene che
non è tua – suppongo l’avrai rubacchiata a Jean Brun – ma non c’era
di meglio? Sapessi a quante disgraziate immagini va incontro una
verità intesa come secrezione. Faccio un esempio? Faccio un esempio,
via. Quando qualcosa ostruisce il dotto ghiandolare, la ghiandola si
incista, quasi sempre il secreto si fa purulento, ed ecco l’ascesso,
la necessità di inciderlo... E bada bene che, a ostruire il dotto,
non di rado è un eccesso di secrezione o una secrezione
eccessivamente densa. Non so, sarà solo una mia impressione, ma
queste accademie, questi centri di gestione delle infrastrutture
culturali, queste élites che secernono, secernono, secernono, mi
sembrano vadano incontro al rischio che poi sia necessario il
bisturi. Io avrei trovato più elegante una metafora diversa da
quella del secernere, chessò, quella del distillare. In fondo, poi,
è da materie vili come la patata che voi maestri della Wissenschaft
als Beruf sapete trarre puro Spirito. Ma qui sto divagando, torniamo a ciò
che mi scrivi.
Lamenti
che la mia recensione non tenga conto di tutto ciò che «sta dentro
il libro». Consentimi: sei tu che non tieni conto di tutto ciò che
sta nella recensione, in primo luogo della precisazione che il piano
d’opera prevedeva una dozzina di paragrafi e io mi sono limitato a
scriverne meno della metà, e poi eludendo la gran parte dei temi da
me toccati che non mi pare fossero troppo laterali ai contenuti del
tuo libricino (differenza tra filosofia e scienza, rapporto tra
filosofia e politica, concetto di verità, ruolo del filosofo ieri e oggi, ecc.). E
tu di che mi parli?
Non ti sei mai presentato come filosofo, l’hanno sempre fatto gli
altri, primo tra tutti Pippo Baudo. E tu gli hai detto: «No,
guardi, signor Pippo, io non sono filosofo»? Adino’, non ci risulta. Né
ci risulta tu l’abbia
fatto in altre analoghe occasioni. Dovresti sapere che
in queste cose vale il silenzio-assenso. Perché, se, nel fare
retromarcia, il parcheggiatore ti dice: «Indietro, dotto’...
Ancora un poco indietro, dotto’...
Basta così, dotto’...»,
e tu «dotto’»
non sei, ma lasci dire, tutto il garage finisce per credere che tu lo
sia davvero, scooter e furgoncini compresi. D’altra parte, per te io ho usato le virgolette – ho
scritto «filosofo» – e ne ho spiegato la ragione, inquadrandoti
in quella categoria dello spettacolo tra divulgazione e
intrattenimento, nella quale peraltro mi pare tu stia comodissimo,
nata per opporre agli
argumenta ad populum i suoi argumenta ab auctoritate, in una
discussione pubblica che ormai vive solo di argumenta ad judicium, e
che da tempo si è ridotta a un Armageddon senza fine tra i «like»
e gli «ipse dixit», a rappresentarci la Gran Resa dei Conti tra élites e moltitudini...
Ce n’era
di che obiettare, volendo, e invece come mi hai rigirato la frittata?
«Se qualcuno mi dice che tu, che citi Bentham e Carnap, sei filosofo
più e meglio di me, concedo totum». Ma
quale «concedo totum», per carità di Dio, a ciascuno il proprio
lavoro e, sopratutto, il relativo 740: a me, nei panni di Alessandro, non passerebbe nemmeno per l’anticamera del cervello di voler essere
Diogene. Ma qui, proprio in relazione al mio citare Bentham e Carnap,
devo segnalarti un’altra
scorrettezza in cui sei incorso. Cito? Ergo anch’io
faccio ricorso ad argumenta
ab auctoritate. Ennò, caro mio, tra citazione e ricorso
all’argumentum
ab auctoritate c’è
una gran bella differenza,
e qui sarei tentato d’illustrartela
con un brano tratto dalla Rhétorique générale del Gruppo μ
(Dubois, Edeline, Klinkeberg e compagnia bella), ma te lo risparmio,
cercherò di spiegartelo a parole mie, anche se la spiegazione
risulterà meno brillante: quando
cito Bentham, Carnap o Susskind, caro Massimo, io non attribuisco
loro alcuna autorità che pretendo sia riconosciuta a loro dal lettore
perché poi essa almeno in parte ricada su di me, ma mi limito a fare
esporre a loro un concetto che mi pare abbiano esposto in modo più
brillante di quanto lì per lì sarei stato in grado di fare io. Oibò, tu
chiederai, che differenza c’è
col mio affermare che «il noto, proprio perché noto, di solito non
è affatto conosciuto» e metterci d’accanto
un «come dice Hegel» (pag. 43)? C’è
una gran bella differenza, perché, quando cito il Susskind che dice
«dovremmo
sbarazzarci della parola “realtà”», gli do voce anche
sull’argomento
che egli porta a sostegno, e chiarendo il contesto in cui
l’affermazione
cade, offrendola così al giudizio del mio lettore solo come mia
opinione, che in un Susskind ignoto ai più ha trovato interprete da
me reputato efficace.
Di grazia, dov’è
nel tuo libricino l’argomento
che fa distinzione tra «noto» e «conosciuto»? Vabbè, tu mi
dirai, lo sanno tutti che sta nella prefazione de Die Phänomenologie
des Geistes. Tutti? Ammesso e non concesso, dobbiamo prenderla per
buona questa distinzione o tirar giù dallo scaffale la più
prestigiosa opera di chi è soliti dire sia stato «l’ultimo
filosofo» (nel senso che, dopo di lui, non c’è
stato più nulla su cui filosofare)? E quand’anche
questa distinzione non ci appaia tutta farlocca, basata su quella
semantica verificazionista di cui gronda la gnoseologia di stampo
idealistico, quale valore intende assumere, calata nella suddetta
pag. 43 del tuo libricino, dove la usi per metterci in guardia dal
«buon senso» di Matteo Salvini?
Non
so se mi sono spiegato a dovere, forse era meglio fartelo spiegare
dal Gruppo μ, comunque spero di averti trasmesso almeno un sentore
della differenza che c’è
nell’uso
che io faccio di Susskind e di quello che tu fai di Hegel. Ma
passiamo al resto.
Nel
tuo libricino hai scritto che coi Patti Lateranensi la religione
cattolica diveniva «la sola religione dello Stato» (pag. 11), e ci
hai messo delle virgolette. Messa così, dove vuoi che il lettore abbia a
intendere debba trovarsi quella locuzione, se non nel testo dei Patti
Lateranensi? Bene, io ti ho fatto notare che la religione cattolica
era «la sola religione dello Stato» già nello Statuto Albertino
del 1845 (art. 1), che nel 1861 diventerà Costituzione del neonato
Regno d’Italia.
E tu? Dopo aver fatto cenno a quella che sarebbe la mia «pignoleria
assurda», mi fai: «[Vorrai]
negare che nei rapporti con la Chiesa cattolica qualcosa cambia col
fascismo e i Patti lateranensi, e che lo Stato post-risorgimentale
non sempre si era ricordato dell’articolo
dello Statuto[?]». No, volevo solo dire che hai scritto una cazzata,
così dalla seconda alla ventiseiesima ristampa del tuo libricino
puoi correggerla. Bastava dire: «Ah, sì, è vero, grazie per
avermelo fatto notare». E invece ti cavi dall’impaccio attribuendomi cose che non ho mai detto. E questo non è bello, sai? Non fosse
che mi sei sempre stato simpatico – credo sia per quella
tua aria
furbetta da ex-dalemiano – sarei venuto a Baronissi ad incendiarti
casa. Ma anche qui divago, torniamo a ciò che scrivi.
Non avrei
«capito gran che» del tuo libricino, perché ritengo che la tua
«difesa
della verità equivalga a una sconfessione pura e semplice del
relativismo, il che non è; scrivi come se io volessi, in nome della
verità, sbarazzarmi del relativismo, il che non è». Mah, qui
onestamente resto confuso, sarà che, almeno nella mia asfittica
sfera logica, verità e relativismo fanno a pugni. Non credere ch’io
non mi sia sforzato di vedere come, secondo te, possano andare a
braccetto, ma, niente, non ci son riuscito. Non che sia un problema,
sia chiaro, però, nel caso, prova a cambiare le definizioni di
«verità» e di «relativismo», eventualmente pure a consigliare la Treccani a far proprie quelle nuove (sei di casa, potresti avere ascolto), chissà che in questo modo... Ti suggerirei il trucchetto col quale si dimostra che due più
due può pure fare cinque. Se approssimi gli addendi e la somma al
più vicino numero intero: 2,4 + 2,4 = 4,8 (e dunque, sì, 2 + 2 =
5). Non so il relativismo, ma credo che con la verità avrai fatica
ad approssimare. Però tentar non nuoce, chissà non possa venirne
fuori un’altra
teoria della relatività ristretta (eventualmente della verità
condiscendente).
Qui
mi fermo, anche se ci sarebbero altri due o tre punti da affrontare.
È che mi ero ripromesso una risposta che non
eccedesse in lunghezza la tua lettera, e qui m’accorgo
che è già lunga quasi il doppio. D’altronde,
via sms ci siamo dati appuntamento per uno di questi venerdì a
pranzo, avrai modo certamente di spiegarmi tutto ciò che non ho
capito del tuo libricino.
Da subito, per evitare sgradevoli baruffe
al momento del conto, sia chiaro che pago io, sennò trova una scusa
e non venire. Chessò, dichiarati offeso da questa mia.
Con tanta cordialità,
Luigi Castaldi
P.S. Francamente non ho capito il rimprovero che mi recapiti via Mill. La citazione cui fai riferimento è la seguente: «È quasi impossibile sopravalutare l’importanza, nell’attuale fase del progresso umano, di porre gli esseri umani in contatto con persone da loro diverse e con modi di pensare e di agire diversi da quelli coi quali essi sono familiari». Quale ulteriore malanimo nei tuoi confronti si anniderebbe nel non averne fatto cenno nella mia recensione? Giuro che non sapevo nulla di Pippo Baudo.