lunedì 7 aprile 2014

Parrucconi


Giovanni Casalegno e Guido Goffi sono gli autori di un lemmario che raccoglie gli epiteti ingiuriosi di cui è straordinariamente ricca la lingua italiana fornendo per ogni termine almeno una fonte, fino a un massimo di cinque, poi indicizzate in coda all’opera in un’appendice bibliografica di oltre 60 pagine che da sola, a mio modesto avviso, vale il prezzo del volume (Brutti, fessi e cattivi – Utet, 2005). Deliziosa la prefazione di Giordano Bruno Guerri, ma è su un passaggio dell’introduzione che vorrei soffermare l’attenzione: «Insulti, ingiurie, maldicenze, invettive, improperi, epiteti, contumelie – scrive Giovanni Casalegno – non sono soltanto semplici “parolacce” o strumenti di aggressione verbale, ma lo specchio profondo di una intera civiltà, della sua mentalità, delle sua cultura, del suo sistema di valori, dei suoi codici di giudizio, delle sue paure e delle sue difese». Se è così, a quale «sistema di valori» possiamo riferire l’uso di un termine spregiativo come «parruccone»?
Conviene partire proprio dalla definizione che ci offre questo singolare dizionario, ma prima è doveroso chiarire che questa riflessione prende spunto dalla ricorrenza che il termine trova su Il Foglio di Giuliano Ferrara: «parrucconi», ieri, erano gli inquirenti che indagavano su eventuali reati di Silvio Berlusconi nell’ambito delle «cene eleganti» che questi offriva, fra gli altri, a faccendieri, puttane e trafficanti di cocaina, e «parrucconi», oggi, sono  Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà e Salvatore Settis, perché contrari alla riforma del Senato cui pensa Matteo Renzi. E dunque cos’è, chi è, un «parruccone»?


Per puntare al cuore della questione, che è quella di individuare un «codice di giudizio» nell’uso del termine, stralcerei dalla nostra riflessione due questioni tutto sommato marginali, anche se di stretta attinenza al contesto.
La prima è relativa al fatto che, in quanto a idee retrive, per giunta sostenute sempre con gran sussiego e a petto gonfio, Il Foglio non è secondo ad alcun giornale (basti pensare alle invettive contro l’evoluzionismo  e la psicoanalisi, contro il Concilio Vaticano II e il Sessantotto, contro ogni pratica contraccettiva e il divorzio, fino agli sperticati elogi alla Controriforma e al Sillabo). Questo rilievo, tuttavia, non ci è utile per il fine che ci siamo posti e al più potrebbe essere speso sul piano polemico per rimarcare  l’incoerenza della vacca che dice al mulo: «Ti puzza il culo». Argumentum ad hominem, peraltro, dunque da evitare.
La seconda questione, invece, è relativa all’uso strumentale del termine nel tentativo di dare una continuità di posizione tra lo smettere di leccare il culo a Silvio Berlusconi, che ormai è andato, e il cominciare a leccarlo a Matteo Renzi, come a dire: «Non facciamo differenze, lo lecchiamo a chiunque sia contro i parrucconi, il fatto che si tratti del potente del momento è del tutto occasionale». Anche qui, però, saremmo a un rilievo spendibile solo sul piano polemico (per giunta con un possibile rimpallo di argumentum ad consequentiam), mentre a noi interessa – dicevamo – definire quel particolare «sistema di valori» entro il quale chi sia contrario, non già alla possibilità di revisionare la Costituzione, che d’altronde la stessa Costituzione prevede, ma a una revisione pensata a cazzo di cane, e alla quale per giunta si intende procedere forzando modi e tempi, sia un «parruccone».
Prima di procede oltre, però, è necessario chiarire il perché di tanta attenzione proprio a questo epiteto. È presto detto: ricorre, anche se in forma attenuata, nell’uso del termine «professorone» che nelle ultime settimane abbiamo sentito in più occasioni sulle labbra di Matteo Renzi e dei suoi. Direi che siamo, dunque, in quel «sistema di valori» in cui «professorone» e «parruccone» sono sinonimi di quell’«intellettuale dei miei stivali» col quale Bettino Craxi ritenne di poter liquidare Norberto Bobbio: in buona sostanza, come ho già scritto su queste pagine, siamo dinanzi al disprezzo per la cultura accademica cui il sedicente  «uomo del fare», talvolta cedendo al beffardo, più spesso ostentando fastidio, non può fare a meno di esibire quando scende nella piazza a raccogliere consensi tra gli incolti. Tra i tratti distintivi del demagogo populista, infatti, spicca quello di offrirsi come demiurgo che semplifica e che non perde tempo a cercare di sciogliere i nodi complessi che gli capitano sotto mano, ma li recide di netto.
In questo senso, «parruccone» è insulto che mira più dei suoi sinonimi a ridicolizzare l’avversario che sollevi obiezioni argomentate in punto di diritto: lo si rappresenta con una parrucca in testa, desueto orpello di un sapere e di un potere che sarebbero fuori dal tempo, tanto più detestabili, dunque, quanto più di impiccio a quei cambiamenti che non di rado invocano l’urgenza per meglio dissimulare il colpo di mano. Anche per questo occorre prestare massima attenzione al lessico renziano, perché quando sentiremo Matteo Renzi o uno dei suoi usare il termine «parruccone», e a mio modesto avviso non ci vuole molto, lAllerwertspartei teorizzato da Otto Kirchheimer sarà cosa fatta e allora vorrà dire che berlusconismo e  antiberlusconismo avranno trovato una sintesi, e potremo chiamarla renzismo.   

sabato 5 aprile 2014

Probabilmente gli autisti, i fuochisti, i macchinisti, ecc.


Maria Elena Boschi ci offre un tratto di analogia tra berlusconismo e renzismo in quel disprezzo per la cultura accademica che i sedicenti uomini del fare menano vanto di esibire, talvolta cedendo al beffardo, più spesso ostentando fastidio, quando scendono nella piazza a raccogliere consensi tra gli incolti, e che è solo l’aspetto più icastico di quell’insofferenza per la cultura in generale, che è tipico di chi non se ne fa carico ritenendola un’inutile zavorra. Esemplare rimane il saggio offertoci da Matteo Renzi con l’idea, fortunatamente rimasta tale per sopraggiunti impegni a Roma, di aggiungere una lancetta dei minuti al trecentesco orologio a lancetta unica della Torre d’Arnolfo in Piazza della Signoria («Così ’un funziona… La gente deve vedere bene l’ora, mica deve essere un orologio filosofico»), d’altronde è lui il modello ed è naturale che a lungo resti insuperabile. Altrettanto naturale che la Boschi non segua troppo da lontano: «In questi trent’anni le continue prese di posizione dei Professori hanno bloccato un processo di riforma oggi non più rinviabile per il Paese» (Agorà – Raitre, 4.4.2014). Chi fosse giusto mettesse lingua sulla Costituzione non è dato sapere: i costituzionalisti, a quanto pare, no. Probabilmente gli autisti, i fuochisti, i macchinisti, ecc.  

venerdì 4 aprile 2014

“Non abbiate paura!”



Cinq jeunes Flamands obtiennent un entretien exclusif avec le pape (deredactie.be) e uno gli chiede di cosa abbia paura. La risposta meriterebbe una lunga riflessione sul punto in cui Bergoglio afferma di aver paura solo di se stesso, ma qui ce la risparmieremo, perché nel video che riprende alcuni momenti dell’incontro manca quello relativo alla domanda e non ci è dato sapere se per paura sia stata usata peur o crainte (nel secondo caso si solleverebbe la questione posta dal fatto che il timor di Dio, la crainte de Dieu, è tra i sette doni dello Spirito Santo e sorprenderebbe trovarne sprovvisto un papa che parla sei lingue, compreso il francese). Sorvoliamo, per considerare il punto in cui Bergoglio afferma che «nel Vangelo Gesù ripete tante volte: “Non abbiate paura!”», e per trasecolare, perché è falso. La frase è riportata solo in Mc 6, 50 e in Mt 14, 27, per giunta in occasione dello stesso evento, narrato con frasi pressoché simili (uno dei casi che confermerebbero la tesi della «priorità marciana», sicché nel rammentare di quale episodio si tratti, e in quale contesto Gesù dica la frase in discussione, qui si preferisce riportare la versione in Mc 6, 45-50): «Subito dopo [il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci] Gesù obbligò i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, verso Betsaida, mentre egli avrebbe congedato la folla. Preso commiato, se ne andò sul monte a pregare. Fattosi sera, la barca era in mezzo al mare [in realtà si tratta di un lago, quello di Tiberiade] ed egli era solo a terra. Vedendo i discepoli che si affannavano a remare perché il vento era loro contrario, verso la quarta vigilia della notte, andò incontro a loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli, ma essi, vedendolo camminare sul mare, pensarono che fosse un fantasma e gridarono, perché tutti lo videro e ne furono sconvolti. Ma subito egli parlò loro e disse: “Coraggio, sono io; non abbiate paura!”». Come è evidente, si tratta di un “non abbiate paura!”» che non ha nulla a che vedere con una sollecitazione a darsi forza  d’animo a fronte di un’inquietudine o uno smarrimento di natura esistenziale, tanto meno a cercarla nella fede in qualcosa o in qualcuno: è una banale esortazione a non essere fifoni e  – occorre ribadire – è frase che Gesù profferisce in una sola occasione. 

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giovedì 3 aprile 2014

[...]

I craxiani, almeno, avevano cultura. E dei berlusconiani potevi dire tutto, poi, non che non fossero spassosi. I renziani, invece, sono ignoranti e deprimenti. Anche l’avventurismo politico col vizietto del decisionismo mostra i segni del degrado che sfianca il paese: dal progetto di società siamo passati al piano d’azienda, per finire al fare per fare. Ce n’è una, stasera da Santoro, che è la sintesi perfetta del renzismo: ugola da piazzista e sorrisetto strafottente, parla e non dice niente. Al confronto, per dire, la Taverna che la contraddice sembra un gigante. Cosa spazzerà via questa immondizia, e quando?
   

Mostruosa, ribadisco

Un lettore contesta il giudizio negativo che ho espresso sulla riforma del Senato dal quale Renzi fa dipendere la sua permanenza a Palazzo Chigi fino al 2018, sebbene non vi sia arrivato con un’investitura elettorale, o l’andarsene a casa, salvo gli ovvi ripensamenti che sono la costante degli sfacciati che si giocano la faccia: mi fa presente che «una seconda camera non elettiva e con le competenze prefigurate dal ddl del governo è legittima sotto il profilo costituzionale e opportuna dal punto di vista politico», sicché avrei «clamorosamente» sbagliato col definirla mostruosa. Non devo essermi spiegato bene e allora torno sulla questione cercando di liberare i miei argomenti dalle ellissi in cui li avevo compressi.
Innanzitutto, io contesto il metodo col quale si intende varare questa riforma costituzionale. Ad approvarla sarebbe la maggioranza semplice di un Parlamento eletto con un sistema elettorale come il Porcellum, di cui la Corte Costituzionale ci ha spiegato le intrinseche storture: un Parlamento di nominati in cui la rappresentatività è pesantemente alterata da un premio di maggioranza spropositato, in nome di una governabilità che ormai è ridotta a mero feticcio per la tutela cui siamo soggetti in sede europea. A mio modesto avviso, le riforme costituzionali toccano il terreno che è comune anche alle più infime minoranze, sicché dovrebbero essere varate da maggioranze quantitativamente e qualitativamente diverse da quella che qui si appresta a modificare una struttura portante della Costituzione com’è il bicameralismo, peraltro sotto l’implicito ricatto di andarsene a casa insieme a chi propone il ddl, nel caso non approvi. Sulle regole comuni a tutti, a mio modesto avviso, dovrebbe esprimersi un organo costituente, espresso con metodo proporzionale. Sarà esagerato, ma su ogni più minuto dettaglio della Carta destinata ad essere di tutti non ritengo eccessiva alcuna garanzia.
In secondo luogo, il Senato a cui si è pensato nello stendere questo ddl non ha niente a che vedere con la Camera delle Autonomie, di cui abbiamo analogo in altri paesi: gli si leva voce in capitolo sulla legislazione ordinaria e sulle norme di bilancio, ma gli si lascia il voto sulle leggi di revisione costituzionale, sull’elezione del Capo dello Stato e su quella dei membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura, senza specifica investitura popolare? Quand’anche, poi, si volesse assumere come implicito che il Sindaco di questa città sì e di quella città no acquisti de facto queste prerogative al varo della riforma del Senato, come si può pensare che l’incongruità rappresentativa, che è la più evidente bizzarria nel modo col quale se ne è immaginata la composizione, possa reggere al vaglio della Consulta?
Infine, senza con ciò dover forzare troppo la fantasia nel leggere il retropensiero che muove a questa follia, c’è la questione del perché sia proprio su questo momento di revisione costituzionale che un pericoloso avventuriero come Renzi si dica disposto a puntare tutto. Qui mi pare che i fatti parlino da soli. Il bipolarismo in Italia è morto e tuttavia non ci si rassegna a prenderne atto. Ci si ostina a tentare di rianimarlo con potenti dosi di maggioritario ad alto tenore premiale, ma il principio che fin qui regge la definizione dei collegi da cui i senatori arrivano a Palazzo Madama rende impossibile avere al Senato la stessa maggioranza dopata che si riesce ad ottenere a Montecitorio. A quale altra soluzione potevano pensare due tizi disinvolti come Renzi e Berlusconi? Aboliamo il Senato. O almeno sterilizziamolo. Basta aggiungerci un Italicum che ribadisca il no alle preferenze e le liste bloccate del Porcellum, e il gioco è fatto: chi vince si piglia tutto, compreso il diritto di dare al Parlamento il solo compito di vidimare i decreti dell’esecutivo, e in culo alla democrazia, vince chi è più figo in favore di telecamera.
Non ogni revisione costituzionale è un tentativo di golpe, figuriamoci, ma questa, senza dubbio, sì.

mercoledì 2 aprile 2014

«E qui, siore e siori, mi voglio rovinare»

La Costituzione non è legge divina, dunque ci si può metter mano per emendarla, tanto più che fra i suoi articoli ce n’è uno lo consente, indicandone modi e tempi: recita che «le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione» (art. 138).
È per questo che ritengo impensabile una riforma del Senato come quella in discussione in questi giorni. Si pensa, infatti, di farne un organo non elettivo, togliendogli voce in capitolo sulla fiducia al governo e sulle leggi di bilancio, ma lasciandogliela su quelle di revisione costituzionale (giocoforza, direi, sennò dovrebbe essere emendato anche l’art. 138): saremmo, così, all’assurdo di un organo che non potrà più metter lingua sull’operato dell’esecutivo, ma potrà continuare a farlo sulla Costituzione, e con potere decisionale pari a quello della Camera dei Deputati, ma senza aver avuto alcuna investitura dal voto popolare.
Una mostruosità del genere poteva esser partorita solo da un analfabeta. Poteva trovare consensi solo in una di quelle congiunture storiche in cui un analfabeta riesce a costruirsi reputazione di innovatore della grammatica. Reputazione tanto più alta, quanto più volitiva appare l’intenzione di stravolgere la logica che regge la costruzione di una lingua. Si può arrivare, e qui con Renzi ci si arriva, ad apprezzare l’ignoranza come una forza della natura.
Così, ci tocca sentirci dire che i padri costituenti erano barbosi scassacazzi che l’hanno messa giù un po’ troppo pesante solo perché traumatizzati dal fascismo, poverini, mentre il nuovo mago delle televendite ha fegato, e polso, e coglioni, si vede dalla grinta che mette nell’urlare: «E qui, siore e siori, mi voglio rovinare: aggiungo alla riforma costituzionale il taglio di un miliardo alla politica». Sputacchia un poco su quelli in prima fila perché ha una lieve micrognazia, ma mica è detto che l’Uomo della Provvidenza debba per forza essere un mascelluto, basta sappia galvanizzare i fessi e strizzare l’occhio ai furbi. 

C’è da stupirsene? Non direi. In fondo si tratta di quello che, se non veniva fatto Presidente del Consiglio, sarebbe rimasto Sindaco di Firenze e quasi certamente avrebbe sfregiato l’orologio a lancetta unica della Torre d’Arnolfo, aggiungendoci quella dei minuti. «Troveremo uno sponsor  diceva –  la gente deve vedere bene l’ora, mica deve essere un orologio filosofico». E a chi gli faceva presente che quellorologio era del Trecento: «Mica voglio metterci un orologio al quarzo –  rassicurava – è che così ’un funziona». Piaccia o no, l’ometto è questo.  

lunedì 31 marzo 2014

Non so più in quale film


Non so più in quale film in costume ho visto la scena di quell’istitutore di corte che, nell’impartire la lezione di grammatica al piccolo erede al trono, ad ogni strafalcione che scappava al principino mollava un ceffone a un ragazzino che poteva avere più o meno la stessa età di quello, specificamente adibito a quel ruolo, cioè beccarsi i ceffoni che ai quei tempi si reputava fossero pedagogicamente indispensabili, ma si riteneva impensabili sulla guancia di un futuro re, e la scena mi è tornata in mente alla lettura dell’editoriale che oggi Ferrara ha dedicato a Renzi indossando gli abiti in cui è convinto di star meglio, quelli del consigliere del Principe: «devi essere più deciso», e giù uno schiaffone a Craxi, «più spietato, cazzo», e giù un manrovescio a Berlusconi. Analogia imperfetta, so bene, ma stessa amara riflessione sulle miserie della cortigianeria.

[...]


Al netto degli annunci di riforma, che anche i soffici eufemismi della Sala Stampa Vaticana non riescono a negare nasca dalla necessità di bonificare una Curia da tempo ridotta a intricata rete di avide lobby (e passi per quella massonica e quella gay, ma corre voce ve ne sia pure una satanista), a un anno dall’elezione di Bergoglio al Soglio Pontificio la merda venuta a galla durante il pontificato del suo predecessore sta ancora tutta lì, ma è assai meno appariscente, come se con gli annunci la riforma fosse già a regime. Si farà pulizia, si annuncia, ma si fa presente che la Chiesa ha il passo lento e meditato, che Bergoglio ci pensa e ci ripensa, al momento ci si accontenti del fatto che si sia preso atto del fatto che se ne senta l’urgenza. Non è affatto poco, in realtà, perché è premura che in qualche modo incrina quella fiducia di poter durare nonostante tutto fino alla fine dei tempi, che in altre epoche storiche ha consentito la più ampia strafottenza. Sarà che negli ultimi tempi gli scandali fanno più rumore o che l’orecchio ovino è diventato più sensibile, va’ a capire. Continuare a costare ogni anno quanto una manovra correttiva di bilancio, allora, sia, ma puzzare come una fogna a cielo aperto impone qualche misura. Si farà pulizia, si annuncia, intanto ci sia accontenti del fatto che il nuovo papa sia simpatico e pare non abbia intenzione di rompere troppo il cazzo come Ratzinger. E rispettosamente lo si lasci condannare la corruzione dei politici.
Tutti in silenzio, i politici a messa in quel di Santa Marta, al fervorino di Bergoglio sulla corruzione, chi a far finta di non esserne toccato, chi a sentirsene bastonato ma a non accennare un lamento per non attirare troppa attenzione. Non uno che si levasse a rammentargli la parabola laica della vacca che dice al mulo: «Ti puzza il culo». E mentre Sua Santità apriva le porte dell’inferno a chi intasca una mazzetta, la Cei licenziava le linee guida sulla pedofilia: non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale – vi poteva leggere – il vescovo non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria notizie riguardanti casi di abuso sessuale nel confronti di un minore da parte di un prete, «salvo il dovere morale di contribuire al bene comune». Contribuirvi come? Comune a chi? Domande impertinenti, soprattutto se rivolte a un papa riformatore. Tutti zitti, dunque, neanche una testa calda di Sel o della Lega a chiedergli: «Santità, ci racconti quella della trave e della pagliuzza».

Un libro più citato che letto


L’assunto che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente conferisce un carattere ieratico al filosofo, allo scienziato e all’artista, sicché il lavoro intellettuale assume gli attributi di un sacro ufficio. È da questo assunto che muove l’accusa di Julien Benda agli intellettuali: da qualche tempo – scrive nel 1927 – «non solo non svolgono più il ruolo che spetta loro, ma ne svolgono uno contrario», «rompono violentemente la loro tradizione», «esaltano l’attaccamento al particolare e alle cose pratiche e stigmatizzano il senso dell’universale e l’amore delle cose spirituali», fino a scendere nell’agone politico in sostegno di una fazione. Chierici che hanno tradito, dunque, perché l’intellettuale, quando è fedele alla propria missione, «non persegue fini pratici, ma, cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”».
Ammesso e non concesso che tale modello di intellettuale sia quello ideale, occorre, in primo luogo, chiarire la natura di una «soddisfazione» che dovrebbe essere aliena da «fini pratici». Se si trattasse dell’intimo appagamento che si raggiunge nel ritenere di aver colto il buono, il vero o il bello a un grado superiore di quello ordinario, saremmo all’egotismo. Nemmeno Julien Benda sembra pensare che un intellettuale debba accontentarsi di questo: ritiene, infatti, che tra i suoi doveri vi sia quello di «invitare i suoi simili a religioni diverse da quella del temporale». Che giocoforza implica una mira su «questo mondo» e configura un «fine pratico». In secondo luogo, c’è un modello di chierico fedele cui l’intellettuale possa ispirarsi? Certo. Sarebbe possibile «rintracciare nel corso della storia una serie ininterrotta di filosofi, religiosi, letterati, artisti, scienziati il cui atteggiamento è di formale opposizione al realismo delle masse», ma gli esempi proposti sono a stento una dozzina, fra i quali troviamo il Leonardo che progettò macchine militari per Ludovico il Moro e il Goethe che fu consigliere ministeriale per gli affari militari e la pubblica amministrazione a Weimar, mentre la passione politica procura a Dante l’inclusione nella lista dei «chierici da comizio».
Ad essere indulgenti, diremmo che gli argomenti prodotti da Julien Benda ci sembrano debolucci. Nessuna obiezione al fatto che usi «chierico» in luogo di «intellettuale», perché a lungo, in occidente, fu il clero a detenere il pressoché esclusivo monopolio della cultura, difendendolo strenuamente finché gli fu possibile, fino alla netta opposizione all’istruzione di massa. E tuttavia, proprio perciò, come si può ignorare che anche quel clero serviva «fini pratici»? Più in generale, come si può ignorare, dopo Marx e dopo Weber, che  l’intellettuale è un prodotto sociale anche quando assume connotati antisociali? Infine, come si può porre il problema di una trahison des clercs come questione che assume rilevanza solo nel Novecento? Sul ruolo dell’intellettuale nella società si è discusso da sempre, perché «il tema – osserva sennatamente Norberto Bobbio – non è altro che un aspetto di uno dei problemi centrali della filosofia, quello del rapporto fra teoria e prassi (o tra pensiero e azione), in termini ancora più generali e filosoficamente ancor più tradizionali, fra ragione e volontà, quando sia trattato dal punto di vista di coloro che a partire da un determinato periodo storico e in determinate circostanze di tempo e di luogo sono considerati i soggetti cui si attribuisce di fatto o di diritto il compito specifico di elaborare e trasmettere conoscenze, teorie, dottrine, ideologie, concezioni del mondo o semplici opinioni, che vanno a costituire le idee o i sistemi di idee di una determinata epoca e di una determinata società […] I vari atteggiamenti che gli intellettuali possono assumere di fronte al compito loro spettante nella vita sociale corrispondono esattamente ai vari modi con cui nei secoli le diverse scuole filosofiche hanno cercato di dare una soluzione al problema del rapporto fra le opere dell’intelletto o della mente o dello spirito e il mondo delle azioni […] In forma più specifica, il problema degli intellettuali è il problema del rapporto fra costoro, con tutto quello che rappresentano di idee, opinioni, visioni del mondo, programmi di vita, opere dell’arte, dell’ingegno, della scienza, e il potere politico».  Un problema che per Julien Benda, nel 1927, va ponendosi solo «da cinquantanni a questa parte».
In forza del titolo che divenne subito un’espressione a effetto, La trahison des clercs è sempre stato un libro più citato che letto. In realtà basta leggerlo per capire che deve la sua fortuna unicamente al titolo. A oltre trent’anni dalla sua prima edizione in italiano (1976), Einaudi l’ha recentemente riproposto nella collana PBE, consentendoci di fare finalmente i conti col tic di un certo pour parler che spesso è un parler sans savoir de quoi nous parlons. Capita spesso, infatti, che a far propria la condanna di Julien Benda ai clercs qui ont trahi sia chi in fondo addebita loro non già l’aver rinunciato a quell’autonomia che dovrebbe esserne virtù peculiare, e che in ogni epoca storica è sempre stata un’eccezione piuttosto che la regola, ma di aver preso partito avverso a quello di chi lancia l’accusa di trahison. In pratica, il chierico tradisce sempre e solo le aspettative di chi lo avrebbe voluto schierato in favore delle proprie idee. Anche per questo, come rileva Davide Cadeddu nella prefazione a questultima edizione in italiano (2012), a Julien Benda «da subito si attribuì il contrario del suo pensiero». Non era solo effetto di un uso strumentale della sua tesi: «paladino della figura di intellettuale storicamente disincarnato e astratto, al di sopra di qualsiasi atteggiamento settario, prese coraggiosamente posizione nelle grandi questioni che divisero il suo tempo» (Fernando Savater, La sconfitta di Julien Benda, Laterza 2000), fin dallaffaire Dreyfus, che non fu dibattuto precisamente in una turris eburnea.
Ma il segno più evidente delle obiezioni che una tale tesi è destinata a sollevare, oggi non meno che nel 1927, è nel fatto che per l’edizione del 1946 l’autore fu costretto ad una prefazione lunga quasi la metà dellopera licenziata un ventennio prima, nella quale riesce ad essere anche meno convincente. È che per rimanere fermo sul punto sostenuto un ventennio prima deve rimodulare la definizione di clerc, che ora non tradisce la sua missione nellastratta fattispecie del farsi «milizia spirituale del potere temporale» (1927), ma in quella assai più concreta, e temporalmente assai più circoscritta, del servaggio alle fazioni in lotta alla caduta dei totalitarismi, alle quali si riesce a dare un nome solo sciogliendo le perifrasi in cui vengono avviluppate. Così, non siamo più dinanzi a una trahison del ruolo, ma solo di alcuni fini cui il ruolo dovrebbe tendere in nome della «libertà della persona», e che sarebbero traditi in nome dell«ordine» («Stato monolitico», «famiglia come organismo globale», «corporativismo»), del «dinamismo» («materialismo dialettico», «ragione elastica», «perpetuo divenire della scienza», «dogma secondo cui le tesi della nuova fisica segnerebbero la fine dei principi razionali», «tesi secondo cui la ragione [...] deve cambiare non di comportamento ma di natura»), dell«impegno» (inteso come «presa di posizione nellattuale in quanto attuale»), dell«amore» (come elemento di opposizione alla giustizia, come nel caso di appelli in favore di amnistie), della negazione di una «morale superiore» (in nome del relativismo etico, potremmo dire): il chierico, insomma, a differenza che nel 1927, non tradisce più col semplice scendere in campo, ma solo quando vi scende in nome di queste aberrazioni, che non si fa fatica ad individuare nelle posizioni, fra gli altri, di Jacques Maritain, e di Henri Bergson. A ragione potremmo dedurne che un clerc ne trahi  pas solo se vi scende per contrastarle. E qui, a esempio del citare il libro di Julien Benda senza averlo letto, sovviene il caso di chi lo cita facendo propria la sua denuncia, ma nel contempo ha Maritain e Bergson nel proprio Pantheon, e una vera e propria fissa per l’amnistia.     



mercoledì 26 marzo 2014

Cosma Indicopleuste (Topographia christiana, II, 75)



Mario vuole la mamma

Giuseppe Regalzi si è fatto carico di leggere e recensire l’ultimo libro di Mario Adinolfi (Mario vuole la mamma - Bioetiche, 26.3.2014), dandoci ennesima prova del suo acume analitico. È nella risposta al commento di un lettore, però, che ci offre un interessante spunto di riflessione: «Perché il livello intellettuale e culturale degli integralisti è così basso? Uno sarebbe tentato di rispondere “perché se fossero intelligenti non sarebbero integralisti”; eppure ho la sensazione che il livello stia scendendo. Un’ipotesi è che sia la Casa Madre a perdere colpi. Una volta la Chiesa attirava energie intellettuali, specialmente tra le persone dei ceti più poveri, che per studiare dovevano andare in seminario; ma con la democratizzazione dell’istruzione - diciamo dagli anni ’60 - questo serbatoio, almeno nei paesi occidentali, si è venuto esaurendo. Così, se paragoni per esempio il vecchio Monsignor Sgreccia - che aveva una sua dignità intellettuale, pur nell’errore - ai nuovi esperti clericali, noti la differenza; pensa all’invenzione dell’ideologia del gender, che notoriamente non esiste se non nell’immaginazione sovreccitata degli integralisti - una volta questo non sarebbe successo (credo), oggi te la ritrovi nei discorsi papali (del papa emerito, almeno). Se il messaggio di partenza è questo, al ragazzotto che straparla sulla rete cosa può arrivare? Poi c’è anche una certa concorrenza a spararla grossa, credo perché in questo modo, stuzzicando le paure eminentemente piccolo-borghesi di questo strano mondo cattolico, alcuni hanno costruito una lucrosa carriera politica, e altri vorrebbero imitarli. E non dimentichiamo il basso livello delle scuole private cattoliche».
Non si poteva dirlo meglio. Io avrei fatto l’errore di dire che Adinolfi scimmiotta Ferrara, ma nella sintesi non avrei dato ragione del come il tragico scade nel ridicolo.

martedì 25 marzo 2014

Questo ha di bello, il cattolicesimo

Si snelliscono le pratiche per ottenere dalla Sacra Rota un riconoscimento di nullità matrimoniale e i costi della procedura scendono a prezzi stracciati. Naturalmente parliamo dei matrimoni celebrati con rito religioso, perché per quelli celebrati con rito civile c’è il divorzio, che impone tempi lunghi e spese quasi sempre assai onerose. La vera differenza, però, è un’altra: il divorzio è un cancro che mina la famiglia, perciò disgrega la società fin dalle sue fondamenta e in più fa piangere i bambini, non a caso è previsto da un ordinamento che non contempla più il cattolicesimo come religione di Stato; tutt’altra cosa è il riconoscimento di nullità, che non è annullamento, perché il matrimonio, inteso come sacramento, è indissolubile, e dunque non lo può annullare manco il Padreterno, ma in pratica è la piana constatazione che, al momento in cui i due si sposavano, le premesse a un matrimonio come Dio comanda – simpliciter – non c’erano, ergo non si trattava di matrimonio vero e – simpliciter – i due non sono più sposati, anzi, mai stati.
Ennesima dimostrazione, questa, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la Chiesa è istituzione seria, e seriamente tratta le serissime questioni relative ai sacramenti. Non così lo Stato, che degrada il matrimonio a mero contratto tra due parti, perciò soggetto alla possibilità di scioglimento degli impegni solennemente sottoscritti. La Chiesa, no. La Chiesa lo considera un sacro vincolo, indissolubile perché così disse Gesù. Trattandosi di cosa sacra, però, non ammette che ci si scherzi sopra. Hai detto sì al prete, ma non realizzavi esattamente cosa ti chiedeva? Il matrimonio è nullo. Realizzavi cosa ti chiedeva, non ritenevi possibile assumertene l’onere, ma hai detto sì lo stesso. Il matrimonio è nullo. Anche dopo quarant’anni dal sì? Anche. Come? Ti sei deciso a sposarti in chiesa solo perché la tua vecchia ci teneva tanto? Disgraziato che non sei altro, ma non lo sai che in questo modo hai arrecato offesa a Dio? Scegliti un avvocato esperto di sacre pratiche, sgancia le sacre spese e torni zitello in pochi mesi, per giunta senza dover neppure passare gli alimenti a quella che tutti credevano tua moglie, ma in realtà non era che una concubina.
Ah, dimenticavo. Se il matrimonio è nullo, non sei mica divorziato, dunque puoi risposarti subito, eventualmente in chiesa, stavolta presumibilmente sarà un matrimonio vero. Si darà per scontato che stavolta realizzi esattamente cosa ti chiede e che sei in perfetta buona fede nel ritenere che potrai mantenere la parola, praticamente come è stato la prima volta. Non ci riesci neanche stavolta? Spiacente, anche questo matrimonio è nullo, passa per la cancelleria e versa altri 1.500 euro, così evitiamo di considerare sacro ciò che sacro non era. Certo è, figliuolo caro, che hai una gran testa di cazzo e forse questa tua incorreggibile leggerezza ti costerà parecchi secoli di Purgatorio.


Questo ha di bello, il cattolicesimo: più sei stronzo, più ti viene incontro. Stronzo in tutte le accezioni, stai tranquillo, l’importante è che tu sia in grado di far finta d’esserlo nel modo che merita un occhio di riguardo. Ed è per questo che, a conti fatti, converrebbe ridichiararlo religione di Stato, fanculo alla laicità. Ne conseguirebbe che la legge sul divorzio andrebbe subito abrogata. Senza troppe conseguenze, tuttavia, anzi. Ti sta sul cazzo quella cessa buona solo a perder tempo in shopping e depilazioni? Vai davanti al giudice della Sacra Rota e dici: «Eccellenza, ho giurato di esserle legato in eterno, è vero, ma avevo le dita incrociate sotto una coda del frac, e poi pensavo che “carne della stessa carne” significasse alternarci equamente al barbecue». E quello, allora: «Gesù mio, cosa mi dice mai? Allora il matrimonio non è valido, lo sa? Via, si tolga subito quella vera dall’anulare, sennò m’insulta il sacramento». Oplà, altro che rotture di coglioni, udienze su udienze e assegno mensile a quella insulsa parassita.

«Scusa, hai mica visto una ragazza?»

Orfeo 9 (Tito Schipa jr., 1969) è la prima opera rock italiana. Nacque per il teatro (la prima fu data al Sistina nel gennaio del 1970) e due anni dopo era un doppio Lp, mentre nel 1973 divenne un videoclip (il primo videoclip di tutti i tempi), 82 minuti che dopo oltre 40 anni conservano intatte le qualità che allora a molti parvero strabilianti. Qui sotto un assaggio, con la raccomandazione di non perdervene l’uscita in dvd, annunciata tra alcune settimane.
     

lunedì 24 marzo 2014

Checché



Checché se ne dica, Giuliano Ferrara non è un pensatore, ma solo uno che scrive, peraltro senza neanche pensar troppo, per dar voce a un disagio personale che si inscrive a buon diritto nel più generale malessere di una società che ha perso i cardini sui quali ha retto forse pure troppo o, per meglio dire, che ha perso i vecchi e fa fatica a trovarne di nuovi. Ogni periodo storico contraddistinto da questo tipo di inquietudine ha avuto pensatori che l’hanno fatto, in ciò assumendo l’onere di bilanciare, col freno del richiamo alle certezze del passato, gli strappi di accelerazione impressi da quanti nel futuro solitamente vedono solo progresso, e non di rado, per essi, le certezze del passato hanno trovato radice del deposito di fede e di cultura fin lì residuato, sennò perfino in ciò che ne era andato perso, con ciò opponendo restaurazione a rivoluzione. E però si trattava di veri pensatori, cioè di uomini ai quali genio e studio consentivano di trovare nella tradizione una ratio di autorità irriducibile alla mera tautologia che vuole autorevole oggi ciò che lo è stato fino a ieri, e per il solo fatto di esserlo stato.
Non così Giuliano Ferrara, al quale occorre riconoscere, però, l’indubbio merito di saper dare un peso alla sua voce, che infatti è un bel vocione, e anche di saperla renderla incisiva col ricorso a desueti strumenti letterari e a logori espedienti retorici che proprio perciò hanno ottima presa sul lettore che voglia recepirli come cifra del solido buonsenso andato a farsi benedire per l’andazzo dei tempi in cui si senta disgraziatamente immerso. Questi suoi talenti, tuttavia, non s’assommano nel colmare la distanza che c’è tra un pensatore della conservazione o della restaurazione, anche se di basso profilo, e l’anziana signora che in metrò strepita contro la barbarie dei tempi moderni, anche se talvolta si è costretti ad ammettere che quegli strepiti possano avere una dignità letteraria, e perfino un commovente tratto lirico. Questo possiamo e dobbiamo concedere all’ultima fatica di Giuliano Ferrara, sennò saremmo delle infami carogne.
La troviamo in apertura di un volume edito da Piemme, e in libreria da poco, dal titolo Questo papa piace troppo, che chi è lettore abituale de Il Foglio può risparmiarsi di acquistare, perché è una semplice raccolta degli articoli che Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno scritto per quel giornale negli ultimi quattro o cinque mesi e, in appendice, dei commenti che lo stesso Giuliano Ferrara ha siglato con l’elefantino per lo più a margine di quelli: la fatica è in una trentina di pagine, anch’esse già pubblicate su Il Foglio, la scorsa settimana, lì però in inglese, come se la solita anziana signora stavolta fosse capitata in un vagone pieno di turisti, lo stesso intenzionata a strepitare, però against the barbarism of the modern times. Niente di nuovo, in sostanza, ma l’incipit merita due soldi di attenzione.
«A me questo papa piace. Mi mette in allarme». Trovatemi qualcosa che vi metta in allarme, ma allo stesso tempo vi piaccia. Difficile, vero? Se per allarme intendete stato di ansia o di apprensione, senza dubbio. Se però avete indole guerriera e per allarme intendete segnale che allerta alla difesa o all’attacco, suppongo sia più facile. In tale contesto, da cosa è dato questo allarme che procura piacere? Pongo la domanda in altri termini: è questo papa a dare il segnale che allerta o è egli stesso a esserne causa? Vediamo se il seguito ci aiuta a chiarire: «Qualche volta penso che l’avventura andrà a finire male. Ma a mio modo spero». Non dovrebbero esserci dubbi: è lo stesso Bergoglio a esserne causa, perché la linea che ha dato al suo pontificato comporta un serio rischio, e tuttavia (o proprio perciò) il rischio va accettato con fiducia. Non è la speranza di chi si affida alle mani della Provvidenza, perché «non ho fede, ma considero perduta un’umanità senza fede»: a guidarla in questo modo temo si possa andare a picco, ma è l’unica barca che c’è, e io ci sono sopra.
Devo rimandare a ciò che ho scritto alcuni giorni fa: il senso di come si sia messi male sta nel trovare l’argomento più forte in favore di chi è al timone della barca sulla quale si attraversa la tempesta in quell’anticipo di fiducia che si ritiene necessario concedergli, e che si spera sia tanto più efficace quanto più cieca. Concludevo che è la tentazione cui gli irresponsabili cedono con slancio.

Un lapsus di Mentana


Si è vociferato di un passaggio di Mentana alla conduzione di Servizio pubblico, al posto di Santoro (il Giornale, 23.3.2014),


ma Mentana ha smentito seccamente (https://www.facebook.com/pages/Enrico-Mentana-pagina-ufficiale-bis),


dunque direi si possa mettere una pietra sopra alla faccenda. E tuttavia occorre far presente che in coda all’edizione del TgLa7 delle 20.00 di giovedì 20 marzo, nell’annunciare l’intervista che aveva fatto a Grillo quello stesso giorno e che sarebbe andata in onda l’indomani per Bersaglio mobile, Mentana è incorso in un lapsus che dà da pensare. 

  

Wow!

 
Teologia della perfezione cristiana di Antonio Royo Marín (Edizioni Paoline, 1960) è un libro singolare. Ne ho trovato una prima edizione in ottimo stato su una bancarella (7 euro, forse nemmeno sfogliato, un affarone), ma ho saputo che qualche anno fa è stato ristampato e dunque non avrete alcuna difficoltà a procurarvelo, cosa che consiglio soprattutto a quanti mi hanno scritto in passato perché compilassi liste di volumi per l’approfondimento dei temi salienti della teologia cattolica e della storia della Chiesa: libro da mettere sulla pila di quelli che ho già segnalato loro, ma lettura interessante per chiunque.
Libro singolare, dicevo. Per la sua struttura, innanzitutto, che gli dà l’aspetto di due volumi incastrati l’uno nell’altro. È  che «la nostra prima intenzione – si legge nella Prefazione fu di scrivere un breve manuale di ascetica e mistica [...] Poi, voci amiche, con affettuosa insistenza, ci fecero pressione perché presentassimo uno studio più ampio, che abbracciasse tutto il panorama della vita cristiana» (pag. 5). Evidente il segno lasciato dalla saldatura, perché il risultato è un libro che alterna stili affatto diversi: da un lato, infatti, vè il vademecum di dottrina scritto da un domenicano dalla sensibilità comune a gran parte del clero prima del Vaticano II, robetta senza interesse che ingombra più della metà delle 1216 pagine del volume; dall’altro, invece, vè il «manuale di ascetica e mistica», che ha un taglio – sia consentito il paradosso – scientifico; sicché basta saltare l’Introduzione generale, tutta la Parte I, i primi tre capitoli del Libro I e i primi due del Libro II della Parte II, e la Conclusione, per avere a disposizione quanto era nella «prima intenzione», che è davvero notevole.
Tutto sui fenomeni di ordine conoscitivo (visioni, locuzioni, rivelazioni, discrezione di spiriti, ierognosi, scienza infusa, ecc.) e quelli di ordine affettivo (stimmate, sudorazioni e lacrimazioni ematiche, bilocazione, levitazione, cambio di cuori, ecc.), ma anche sulle tappe ascetiche e su quelle mistiche, sulla lotta attiva contro il peccato, contro il mondo, contro il demonio e contro la propria carne. Un universo psicopatologico più affascinante di quello del caso Schreber. Anche se del cattolicesimo non vi interessa una beneamata cippa, insommasi fa leggere come un libro di avventure psichedeliche. Ogni pagina è un «wow!». 

domenica 23 marzo 2014

Il Berlinguer di Veltroni


Detesto ripetermi, ma ancor più rimandare a ciò che ho scritto con un link. Tuttavia talvolta sento necessario ribadire ciò che ho scritto con troppo anticipo. In questo caso si tratta del Berlinguer di Veltroni, che tra poco farà scendere i lacrimoni anche ai cuori di pietra. Due anni fa era Civati ad accendergli una candela votiva, e anche lui parlava di un Berlinguer che non è mai esistito. Le cose scritte allora valgono anche oggi, e le riporto qui sotto, così mi risparmio una recensione a un film. 

«Ero piccolo, e non capivo granché di politica». Come se oggi, invece… Civati commemora Berlinguer nel 28° della morte e nel leggerlo trovo conferma che peggio dei rottamandi ci sono solo i rottamatori. Almeno i primi hanno capito, anche se troppo tardi e a fatica, che proprio Berlinguer è il peccato originario che li ha portati regolarmente fuori strada ad ogni svolta, per tornare ogni volta più malconci in carreggiata, ma accumulando sempre più ritardo e perdendo sempre più consensi.
Civati, no. «Ci manca, Berlinguer… Sapete, ci manca davvero». Vorrei vederlo nel Pci di allora, quando il dolce Enrico, in culo a ingraiani, amendoliani e cossuttiani, prima cambiava linea del partito dalla sera alla mattina e poi esigeva che la direzione ratificasse e il congresso applaudisse. Macché, Civati è convinto che «Berlinguer diceva, quando esprimeva un pensiero, “i comunisti pensano” o “sostengono” o “intendono”, che si capiva che voleva dire “noi comunisti”, mentre a noi manca il noi». Neanche la Mafai avrà letto, è evidente, e sì che il libricino era smilzo, poteva trovare due ore tra un film e una partita di calcetto, avrebbe capito che noi significava Berlinguer, Rodano e Tatò.
Il Berlinguer di Civati è un poster, un brivido lungo la schiena, un’emozione: non ha mai letto una sua relazione congressuale o un suo paginone su Rinascita, è evidente. Civati è rimasto al «qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona», senza neppure riuscire a leggerci l’ironia che ci metteva Gaber. Come dire, «Berlinguer, ti voglio bene», facevi tanta tenerezza il braccio a Benigni, sei morto in modo così emozionante, ti ho visto su Youtube, non ho capito cosa dicevi, ma suonava così bene.
Dicevi che eravamo «diversi», e lo dicevi così bene che ci abbiamo creduto. Pensavamo che la macchina del partito girasse grazie alle sottoscrizioni che si raccoglievano alle Feste de l’Unità e che quei tuoi strappetti dalla Casa Madre fossero delicati per non lacerarci il cuoricino. Siamo stati costretti a ricrederci, avremmo tanto bisogno di uno come te che riuscisse a farcelo credere ancora, se solo avessimo l’anima bella di allora e il centralismo democratico.
«Quel volto, quella cultura, quella dimensione, non sono più tornate», piagnucola Civati, faccia da Postalmarket, lirismo alla Veltroni. E vaglielo a spiegare che quel volto, quella cultura, quella dimensione erano quelli di un Togliatti in sedicesimo.

Rassegnarsi al peggio

Ci si concentra, vedo, sulla faccenda dell’invito all’ambasciata inglese, per sottolineare, e comunque non a torto, il vizio paranoico che porta Grillo a interpretare l’episodio come il capitolo di un complotto. Ora, è vero, la dimensione in cui si muove Grillo ha senza dubbio il segno della distorsione percettiva della realtà, com’è d’altronde per buona parte dei leader che danno voce a pulsioni prepolitiche per rappresentarla come trama in cui essi entrerebbero da sovvertitori delle regole che la rendono mostruosa, e tuttavia nell’intervista concessa a Mentana vi è qualcosa di assai più agghiacciante che mi pare sia sfuggita a gran parte dei commentatori: Grillo presume che le regole si possano sovvertire semplicemente rivelandone il fine, cioè condannando in esse la ratio che le predispone a motore di ingiustizia. Può sembrare ingenuità, dunque elemento di debolezza nell’analisi da cui dovrebbe muovere l’alternativa del M5S, ma in realtà si tratta dell’elemento di forza che è nelle mani di chi recluta l’altrui ingenuità al proprio fine, che spesso non è neppure la costruzione di un potentato ma solo un’avventura, per fame di avventura: poco importa se Grillo creda davvero o meno in ciò che dice, di fatto intende dar corpo proprio all’ingenuità che conta sulla possibilità di alternativa nella mera semplificazione della realtà all’ordito che le darebbe un significato inequivoco. In tal senso, dirsi «portavoce» del M5S non è un vezzo: Grillo sarà senza dubbio il proprietario della baracca, ma in sostanza si offre davvero e per intero a quell’enorme massa di irresponsabili che s’illudono di trovare giustizia semplicemente nell’abbattimento di un sistema ingiusto, se possibile.
In altri termini, direi, che la mancanza di un organico disegno di società spesso rinfacciato a Grillo sia la vera forza del suo movimento, oltre a costituirne il vero pericolo. D’altro canto, fatta eccezione per qualche colto rintanato nella sua turris eburnea, che guarda e dispera, di organici disegni di società non se parla, al più di riformucce, toppe, dispositivi dilatori. La cosiddetta «morte delle ideologie» ci avrà pure liberato dal rischio di filtri monocromi e almeno tendenzialmente totalitari, ma ci ha privato della chiave per dare articolazione in un sistema a soluzioni isolate, perfino sagge se avulse dal contesto che le rende irrilevanti o velleitarie. Perciò direi che l’elusione di ogni domanda di Mentana relativa al «dopo» la conquista della maggioranza assoluta da parte del M5S sia cifra più significativa di ciò che ormai anche Grillo non rifiuta più di chiamare grillismo: c’è voglia di distruggere, a fronte di chi si illude che basti rappezzare, ma non c’è un cane che abbia un progetto o, se ce l’ha, esita perfino a dargli un nome, perché dovrebbe giocoforza dirlo sussidiario (socialdemocrazia, dottrina sociale cattolica o liberalismo temperato). Mancano le idee, perciò vincono le urla. E senza dubbio Grillo urla bene, anche quando, com’è stato nell’intervista concessa a Mentana, usa toni morbidi e a tratti suadenti. Allo stato, è il punto più avanzato del post-ideologismo, dunque può permetterselo. E se dall’affogare in questo mare di merda ci si può salvare solo ingurgitandone il tanto che basta a farne scendere un po’ il livello, si potrebbe perfino fare un pensierino a dargli il voto, almeno alle Europee. In fondo, alla crisi dello stato liberale non c’era altro sbocco che il fascismo o, se c’era, non si riuscì a trovarlo. Penso che rassegnarsi al peggio sia infruttuoso, tanto vale assecondarlo per affrettare i tempi.