A
dispetto di ciò che ragionevolmente potrebbe indurmi a sentirlo repellente,
Marcello Dell’Utri mi sta misteriosamente simpatico, e da sempre. Voglio dire:
non è la simpatia di cui si fa obolo a chi è caduto in disgrazia. No, Marcello
Dell’Utri mi è sempre stato misteriosamente simpatico, anche quando ragionevolmente
avrei potuto – vedete? faccio fatica a dire dovuto – sentirlo repellente. Quando
dico ragionevolmente, alludo alle ragioni che lo rendono repellente ai più:
sono disposto a considerarle forti, ma qualcosa – misteriosamente, dicevo – non
le rende forti a sufficienza per farmene trarre le dovute conseguenze. Si dà il
caso, tuttavia, ch’io non abbia mai saputo aver troppa riverenza per il
mistero: non ho mai ceduto alla tentazione di ritenerlo uno scrigno entro il
quale fossero racchiuse preziose verità, per esempio, anzi molto spesso mi è
parso l’astuccio destinato a restar vuoto della risposta esatta a una domanda
posta in modo erroneo. Così con la misteriosa simpatia che ho sempre provato
verso Marcello Dell’Utri: mai pensato fosse innocente del reato per cui è stato
condannato in primo grado e in appello, per esempio; mai pensato che fosse in
buona fede nella faccenda dei diari di Mussolini; nessuna corrente empatica
dalla sua fama di bibliofilo (anche perché da cenni raccolti qua e là mi sono
fatto l’idea che nel suo caso, più che di bibliofilia, si possa più
correttamente parlare di bibliomania compulsiva); nemmeno sono riuscito mai ad
individuare in lui un dettaglio –
un tratto fisiognomico, una posa, l’indizio di un’impronta
comportamentale – che, trascendendo il
tutto, possa spiegare il mistero. Sarà una canaglia, non mi azzardo neppure a metterlo in discussione, ma nei suoi confronti devo confessare una schietta cordialità.
martedì 15 aprile 2014
lunedì 14 aprile 2014
Quattro appunti
I. Nel
tentativo di dimostrarci che l’italianità è mero prodotto storiografico, mera invenzione
letteraria, astratto stereotipo che mal si adatta a varietà e complessità di
tipi, e solo per assecondare pregiudizi di comodo, siano essi lusinghieri o malevoli,
che il carattere nazionale è solo costruzione retorica, e assai posteriore a un’idea
di unità geografica, coincidendo con lo sforzo di immaginare in essa la cogenza
di un’unità politica, e che insomma «l’italiano
non esiste» – tentativo che in buona misura ci appare andato a buon fine – Giulio
Bollati (L’italiano – Einaudi, 1983) lascia
inavvertitamente cadere una considerazione che sembra cogliere un tratto
peculiare, tutto naturale, dello specifico identitario che intende dimostrare
come surrettizio e strumentale: l’italiano eccelle nel saper guardare e nel
saper rappresentare ciò che guarda. Sembrerebbe poter essere il gene che
spieghi almeno un aspetto del fenotipo: sarebbe data spiegazione del perché oltre
il 50% del patrimonio artistico universale è italiano (secondo alcuni oltre il
70%). E tuttavia mi pare che come spiegazione non regga: la stragrande
maggioranza (oltre l’80%) del patrimonio artistico italiano è toscano, e per
giunta la sua produzione è concentrata in pochi secoli, sicché dovremmo
ipotizzare che esista un’italianità, ma circostanziata a un solo tratto
caratteriale, per lo più rappresentata in un’area geografica e in un arco
storico relativamente limitati. Saremmo alla sineddoche identitaria.
II. In Perché gli intellettuali non amano il liberalismo
(Rubbettino, 2005), traduzione italiana di Pourquoi
les intellectuels n’aiment pas le liberalism (Odile, 2004), Raymond Boudon
ci offre spiegazioni che appaiono poco convincenti. Sfrondandole del superfluo
sono le seguenti: (1) sotto l’etichetta di liberalismo sono ricompresi molti
significati e autori assai diversi, e questo causerebbe confusione (arriva a
dire «ignoranza»): ammissibile per
chi si serve dell’intelletto come principale strumento di lavoro? (2) la
visione dell’uomo, della società e dello stato propria del liberalismo è
sostanzialmente «razionale» e «culturalista», dunque ha radici assai meno
profonde di quanto le abbiano altri filoni di pensiero: ammissibile che gli
intellettuali si muovano preferibilmente nel solco di quelli più tradizionali? (3)
la natura intrinsecamente utilitaristica del liberalismo tende a privarlo di
una struttura sistematica, rendendolo poco adatto a offrirsi come ideologia: se
è ammissibile che gli intellettuali si muovano preferibilmente in un sistema, l’asistematicità
del pensiero liberale non si offre in definitiva anch’essa come sistema, foss’anche
nel darsi come metodo per la costruzione di principi, regole e criteri? Rozza,
probabilmente, ma assai più appagante la risposta che Robert Nozick dà alla
stessa domanda in Why Do Intellectuals Oppose Capitalism? (Cato Institute, 1998):
gli intellettuali sono ostili al liberalismo perché le società che lo adottano
non remunerano adeguatamente gli anni che essi hanno sacrificato allo studio.
III. In coda a una polemica che su queste pagine mi ha già visto fornire a più riprese numerose prove documentali a smentire quanto affermato da chi (or non rammento chi fosse) sosteneva che Luigi Surzo fosse tornato dagli Stati Uniti antiproporzionalista e uninominalista, riproduco qui sotto alcuni passaggi da un suo articolo apparso su Il Quotidiano in data 8 marzo 1947, a parecchi mesi dal suo rientro in Italia, quando il dibattito pubblico verteva su sistema elettorale da adottare per le prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Sturzo scriveva:
«La legge elettorale, quale essa sia, dovrà favorire sia la formazione di partiti nazionali, sia la frequenza e valorizzazione dei contatti programmatici e politici fra gli eletti e gli elettori. A questo scopo si deve preferire quel sistema proporzionale che, senza impedire le formazioni di piccoli partiti di tipo nazionale, metta un freno al pullulare di partiti locali, anzi localistici, che contando sopra una proporzionalità infinitesimale, alterano
l’organicità rappresentativa dei corpi elettivi. [...] A questo punto vengono fuori gli uninominalisti a dirci che, con il loro preferito sistema, i candidati riescono di più vicini agli elettori, perché le circoscrizioni sono ancora più piccole delle provinciali. In realtà, in una provincia da sei a dieci seggi, la selezione dei candidati si fa più o meno per centri locali, sì da ripetere quasi gli antichi collegi con occasionali adattamenti. Ma col sistema del collegio provinciale e a base di partiti, si moltiplica per sei o per dieci
l’interessamento dell’elettorato, ora che questo è universale, abbracciando uomini e donne, e la molteplicità dei partiti e la intensità di vita locale rende più vivace e fattiva la partecipazione del popolo alla politica. Con la combinazione del collegio provinciale e del sistema proporzionale si ha il vantaggio di eliminare i colpi di maggioranza, che per pochi voti sopprimono la rappresentatività delle minoranza. [...] Gli uninominalisti ci ripetono che con il loro sistema vengono fuori deputati ben preparati, nomi degni della rappresentanza nazionale, mentre la proporzionale ci condanna ad avere una camera di mediocri, di intriganti, di demagoghi, di giovincelli sbadati, sol che abbiano voce nei partiti. [...] Il problema, che questi tutelatori della qualità del deputato non si sono messi a esaminare, è ben altro: cion i partiti nazionali e con la proporzionale si favorisce
l’avvento delle classi operaie al governio del paese, secondo i democristiani in cooperazione con le altri classi; secondo i social-comunisti per la dittatura del proletariato. Teniamo alla teoria della democrazia cristiana e favoriamo la cooperazione di tutte le classi, una cooperazione effettiva, a parità di condizioni, senza privilegi per gli uni e per gli altri. Finora la rappresentanza parlamentare politicamente è di tutte le classi, ma individualmente della classe borghese, che è ancora la classe politica, la ruling class del paese. Togliatti, Nenni, Saragat sono individualmente borghesi vestiti da proletari. De gasperi, Gronchi, Aldisio sono dei borghesi che non rinnegano la loro classe, ma adottano anche la classe operaia. Croce, Orlando Paratore, Nitti e Sforza sono dei borghesi che non rinnegano la borghesia professionista, pur interessandosi dei problemi sociali. Non
c’è bisogno del sistema uninominale per creare alla classe borghese un privilegio che non ha bisogno di avere».
IV. Dovrei farlo di continuo, ma il timore che possa apparire una carineria... Insomma, ci tenevo a dire, anche se una tantum, che la lettura quotidiana di Formamentis mi è preziosa.
Dio (o chi per lui)
Quando
leggiamo del tizio cui il chirurgo ha asportato il rene sano invece di quello
malato o della tizia col carcinoma radiosensibile alla mammella destra cui è
stata irradiata quella sinistra – e solitamente si tratta di articoli confinati in cronaca,
rubricati come casi di malasanità – a nessuno salta in mente di sollevare
obiezione sul fatto che quel rene malato dovesse davvero essere asportato
chirurgicamente o che quel carcinoma mammario dovesse davvero essere irradiato,
tanto meno di mettere in discussione tout court la chirurgia o la radioterapia,
men che meno di insinuare che quanto accaduto al malcapitato o alla malcapitata
sia il giusto prezzo da pagare per chi osi sfidare il proprio destino invece di
rassegnarvisi. Sono i casi in cui il senso comune cede volentieri al buonsenso,
ma ce ne sono altri in cui fa una fatica enorme, spesso senza riuscirvi.
È il
caso dei due episodi di malasanità che in questi giorni hanno conquistato le
prime pagine dei quotidiani nazionali: quello della donna accidentalmente morta
dopo un’interruzione di gravidanza espletata con l’impiego di Ru486 e quello
della donna cui per errore sono stati trasferiti in utero due embrioni di un’altra
coppia. In entrambi i casi, i fatti vanno assumendo un quadro diverso da quello
prospettato in prima battuta: nel primo, ad essere chiamata in causa non sembrerebbe
essere più la Ru486, ma i farmaci solitamente usati in associazione ad essa, che
qui pare abbiano avuto effetto letale perché scaduti (trattandosi di farmaci
impiegati anche per combattere l’ulcera gastrica, avrebbero potuto ammazzare
anche in un contesto diverso da quello di un’interruzione di gravidanza), mentre
nel secondo, contrariamente a quanto si è scritto a caldo, l’errore materiale
non avrebbe avuto origine da uno «scambio di provette», ma da uno «scambio di
cartelle cliniche». Tutto questo, tuttavia, poco importa al fine di affrontare
la questione sulla quale qui intendo soffermarmi: in fondo, i farmaci scaduti che
hanno ammazzato la donna non le sono stati somministrati perché fosse affetta
da ulcera gastrica, e a uno «scambio di cartelle cliniche» non può che essere
conseguito uno «scambio di provette». Sono da recepire in pieno, dunque, le
obiezioni di chi voglia affrontare la questione sollevando il problema dell’opportunità o addirittura
della liceità di interrompere una gravidanza con l’impiego di farmaci invece che
col ricorso ad una tecnica chirurgica o di sottoporsi a metodiche di
fecondazione assistita per risolvere una condizione di sterilità o di
infertilità, che poi è proprio quanto è stato fatto in modo platealmente strumentale: possiamo, in buona sostanza, accettare di individuare la questione
in oggetto, che è nell’esito indesiderato di una procedura medica richiesta un paziente, consentendo di dare un peso argomentativo alle ragioni che in questo caso sembrerebbero mettere in
discussione la stessa procedura medica, mentre nel caso dell’asportazione del
menisco destro al posto di quello sinistro solitamente si mette in discussione solo l’operato
dell’ortopedico e nel caso di un’errata diagnosi radiologica si mette sul banco
degli imputati il radiologo, non la radiologia.
A me pare evidente che la
differenza stia tutta nel riconoscere o nel negare l’opportunità di un
determinato intervento medico atto a risolvere una condizione clinica che il
paziente ritiene insostenibile (più correttamente, nella capacità di concedere a un proprio simile dei bisogni diversi dai propri): se si riesce a mettersi nei panni dell’interessato,
l’esito negativo riesce ad essere correttamente individuato in un errore dell’operatore,
nel margine di rischio che è intrinseco ad ogni pratica clinica o
nell’imprevedibile fatalità che incombe su ogni agire umano; se non vi si riesce, non v’è altra scelta che
individuarlo nell’inopportunità dell’intervento, posta l’entità del rischio che
esso assume a fronte dell’irrisorietà dell’esigenza che lo dichiara necessario,
sicché – è questo il nostro caso – una donna è morta perché voleva abortire,
per giunta senza neppure volersi prendersi lo scomodo di un raschiamento, e un’altra
si ritrova in utero embrioni altrui come ragion sufficiente del non
essersi saputa rassegnare a non avere figli.
Superfluo sottolineare che la
capacità di mettersi nei panni altrui è qualità eminentemente elastica, come
dimostra il fatto che fino a qualche anno fa, alla notizia della morte di una
donna in seguito a un intervento di mastoplastica additiva o di liposuzione, l’accaduto
era rappresentato come l’apologo della sciagurata incosciente che rincorrendo
un vacuo capriccio si era sottoposta a un’operazione rischiosissima, eseguita da
un medico senza scrupoli. La morale di questo apologo residua, ma in tracce
sempre meno evidenti, pari solo al residuo pregiudizio che grava sulla
chirurgia estetica, su chi la esercita come professione e su chi vi sottopone. Questa
morale e questo pregiudizio, d’altronde, sembra abbiano perso l’arroganza del
giudice naturale: l’embolo che ammazza la malcapitata sottopostasi a liposuzione
o l’epatite C contratta per un piercing hanno già da qualche tempo perso l’imago
fantasmatica della punizione divina.
Cosa è accaduto? Dio (o chi per lui) ha
rinunciato (è stato costretto a rinunciare) a dettare legge in certi ambiti:
non può più pretendere che si partorisca con dolore, non può più stigmatizzare
il vaccino come artificio che ostacola la volontà divina, non può più neppure sbraitare che la vanità femminile è chiara prova che alla donna manchi un’anima o
l’abbia, sì, ma particolarmente vulnerabile alle lusinghe del Maligno, bisogna concedergli si ostini a condannare l’aborto (in subordine a
consentirlo in modo cruento) e la fecondazione assistita (in subordine a pretendere,
come afferma il cardinale Elio Sgreccia, che la donna che porta in utero
embrioni di un’altra coppia non abortisca, in sostanza che presti il suo utero in
affitto, in deroga al divieto posto a questa pratica dalla morale cattolica che trova edificante
esempio nella «difesa
dei nascituri nel caso delle donne stuprate dai serbi»). Diciamo
che, nel ritrarsi, Dio (o chi per lui) ci mostra il culo. E non ci sembra dei più sodi, occorre dire, sebbene sia sostenuto da reggiculo cui il senso comune concede autorevolezza.
venerdì 11 aprile 2014
[...]
Alle
17,40 di martedì 10 settembre 2013, David Carelli, 19 anni, prende un’aspirina:
choc anafilattico, arresto cardiaco, coma, morte cerebrale e otto giorni dopo è
in una bara. Una delle tanti morti che ogni anno si registrano nel mondo per assunzione di aspirina. Non riesco a trovare in rete neanche due righe dedicate da La
Stampa all’accaduto, di certo la notizia non ebbe rilievo in prima pagina, né ne
occupò per intero la seconda e la terza, come accade oggi per la donna morta
dopo assunzione di Ru486. Superfluo aggiungere che tanto spazio non è mai stato dedicato da La Stampa alla notizia di una gravida morta per parto.
Senza dubbio la decisione è del direttore, che
tuttavia dovrebbe avere esperienza diretta di come sia infelice la tentazione di
additare in un sospetto il certo assassino: Lotta Continua trattò Luigi Calabresi come
oggi Mario Calabresi tratta la Ru486, senza porsi alcuno scrupolo sulle
conseguenze di congetture azzardate, e date in pasto al ventre molle di un’opinione pubblica che sentenzia per lo più istintivamente.
mercoledì 9 aprile 2014
[...]
È
la prima pagina de Il Foglio di martedì 14 giugno 2005, quella che festeggiava
il mancato raggiungimento del quorum ai referendum sulla legge 40. Dopo 3221
giorni di stagionatura, e alcune sentenze della Corte Costituzionale, ha finalmente raggiunto la giusta morbidezza per pulircisi il
culo.
[...]
La
deriva renziana trova resistenza nel Pd grazie a uomini la cui tempra si
appalesa già nel nome. Vannino, Corradino e Pippo, mica Pucci, Foffo e Porporino.
martedì 8 aprile 2014
«Proprio un rivoluzionario!»
Quando
diceva: «San Pietro non aveva un conto in banca», dall’emozione vi si sarà drizzato
il pelo sull’avanbraccio, dico bene? «Proprio un rivoluzionario!», avrete pensato.
Qualcuno, un po’ apprensivo, avrà temuto che quelli dello Ior gli avrebbero
messo del cianuro nel mate, vero? State tranquilli, non gli torceranno un
capello: lo Ior rimane dov’era, i quattro del Consiglio di Sovraintendenza che
hanno fatto fuori il cardinale Nicora e Gotti Tedeschi rimangono dov’erano, tutto
è uguale a prima.
Notizia appena bisbigliata, neppure si sente, coperta com’è
dalla lunga eco dell’annuncio che Bergoglio forse chiuderà lo Ior, ci sta pensando, propende a chiuderlo, dategli tempo di definire la chiusura nei dettagli. Non lo chiude, però
domani spenderà qualche parolina in favore dei poveracci che rubano nei
supermercati, dirà che il vero ladro è chi li ha costruiti rubando, e i gonzi avranno
di che mettersi l’anima in pace: «Gesù mio, com’è alla mano! Cita Francesco De
Gregori, invece di San Tommaso! Che papa!».
lunedì 7 aprile 2014
Parrucconi
Giovanni
Casalegno e Guido Goffi sono gli autori di un lemmario che raccoglie gli
epiteti ingiuriosi di cui è straordinariamente ricca la lingua italiana
fornendo per ogni termine almeno una fonte, fino a un massimo di cinque, poi
indicizzate in coda all’opera in un’appendice bibliografica di oltre 60 pagine
che da sola, a mio modesto avviso, vale il prezzo del volume (Brutti, fessi e
cattivi – Utet, 2005). Deliziosa la prefazione di Giordano Bruno Guerri, ma è
su un passaggio dell’introduzione che vorrei soffermare l’attenzione: «Insulti,
ingiurie, maldicenze, invettive, improperi, epiteti, contumelie – scrive
Giovanni Casalegno – non sono soltanto semplici “parolacce” o strumenti di
aggressione verbale, ma lo specchio profondo di una intera civiltà, della sua
mentalità, delle sua cultura, del suo sistema di valori, dei suoi codici di
giudizio, delle sue paure e delle sue difese». Se è così, a quale «sistema di
valori» possiamo riferire l’uso di un termine spregiativo come «parruccone»?
Conviene partire proprio dalla definizione che ci offre questo singolare
dizionario, ma prima è doveroso chiarire che questa riflessione prende spunto
dalla ricorrenza che il termine trova su Il Foglio di Giuliano Ferrara:
«parrucconi», ieri, erano gli inquirenti che indagavano su eventuali reati di
Silvio Berlusconi nell’ambito delle «cene eleganti» che questi offriva, fra gli
altri, a faccendieri, puttane e trafficanti di cocaina, e «parrucconi», oggi,
sono Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà
e Salvatore Settis, perché contrari alla riforma del Senato cui pensa Matteo
Renzi. E dunque cos’è, chi è, un «parruccone»?
Per puntare al cuore della
questione, che è quella di individuare un «codice di giudizio» nell’uso del
termine, stralcerei dalla nostra riflessione due questioni tutto sommato
marginali, anche se di stretta attinenza al contesto.
La prima è relativa al fatto che, in
quanto a idee retrive, per giunta sostenute sempre con gran sussiego e a petto gonfio, Il Foglio non è
secondo ad alcun giornale (basti pensare alle invettive contro l’evoluzionismo
e la psicoanalisi, contro il Concilio Vaticano II e il Sessantotto, contro ogni pratica contraccettiva e il divorzio, fino agli sperticati elogi alla Controriforma e al Sillabo). Questo rilievo, tuttavia, non ci è utile per il fine
che ci siamo posti e al più potrebbe essere speso sul piano polemico per
rimarcare l’incoerenza della vacca che
dice al mulo: «Ti puzza il culo». Argumentum ad hominem, peraltro, dunque da
evitare.
La seconda questione, invece, è relativa all’uso strumentale del
termine nel tentativo di dare una continuità di posizione tra lo smettere di
leccare il culo a Silvio Berlusconi, che ormai è andato, e il cominciare a
leccarlo a Matteo Renzi, come a dire: «Non facciamo differenze, lo lecchiamo a
chiunque sia contro i parrucconi, il fatto che si tratti del potente del
momento è del tutto occasionale». Anche qui, però, saremmo a un rilievo
spendibile solo sul piano polemico (per giunta con un possibile rimpallo di
argumentum ad consequentiam), mentre a noi interessa – dicevamo – definire quel
particolare «sistema di valori» entro il quale chi sia contrario, non già alla
possibilità di revisionare la Costituzione, che d’altronde la stessa
Costituzione prevede, ma a una revisione pensata a cazzo di cane, e alla quale
per giunta si intende procedere forzando modi e tempi, sia un «parruccone».
Prima di procede oltre, però, è
necessario chiarire il perché di tanta attenzione proprio a questo epiteto. È presto
detto: ricorre, anche se in forma attenuata, nell’uso del termine
«professorone» che nelle ultime settimane abbiamo sentito in più occasioni
sulle labbra di Matteo Renzi e dei suoi. Direi che siamo, dunque, in quel «sistema di
valori» in cui «professorone» e «parruccone» sono sinonimi di quell’«intellettuale
dei miei stivali» col quale Bettino Craxi ritenne di poter liquidare Norberto Bobbio:
in buona sostanza, come ho già scritto su queste pagine, siamo dinanzi al
disprezzo per la cultura accademica cui il sedicente
«uomo del fare», talvolta cedendo al beffardo, più spesso ostentando fastidio, non può fare a meno di esibire quando scende nella piazza a raccogliere consensi tra gli incolti. Tra i tratti distintivi del demagogo populista, infatti, spicca quello di offrirsi come demiurgo che semplifica e che non perde tempo a cercare di sciogliere i nodi complessi che gli capitano sotto mano, ma li recide di netto.
In questo senso, «parruccone» è insulto che mira più dei suoi sinonimi a ridicolizzare l’avversario che
sollevi obiezioni argomentate in punto di diritto: lo si rappresenta con una
parrucca in testa, desueto orpello di un sapere e di un potere che sarebbero fuori
dal tempo, tanto più detestabili, dunque, quanto più di impiccio a quei
cambiamenti che non di rado invocano l’urgenza per meglio dissimulare il colpo
di mano. Anche per questo occorre prestare massima attenzione al lessico renziano, perché quando sentiremo Matteo Renzi o uno dei suoi usare il termine «parruccone», e a mio modesto avviso non ci vuole molto, l’Allerwertspartei teorizzato da Otto Kirchheimer sarà cosa fatta e allora vorrà dire che berlusconismo e
antiberlusconismo avranno trovato una sintesi, e potremo chiamarla renzismo.
sabato 5 aprile 2014
Probabilmente gli autisti, i fuochisti, i macchinisti, ecc.
Maria
Elena Boschi ci offre un tratto di analogia tra berlusconismo e renzismo in
quel disprezzo per la cultura accademica che i sedicenti uomini del fare menano
vanto di esibire, talvolta cedendo al beffardo, più spesso ostentando fastidio,
quando scendono nella piazza a raccogliere consensi tra gli incolti, e che è
solo l’aspetto più icastico di quell’insofferenza per la cultura in generale, che
è tipico di chi non se ne fa carico ritenendola un’inutile zavorra. Esemplare
rimane il saggio offertoci da Matteo Renzi con l’idea, fortunatamente rimasta
tale per sopraggiunti impegni a Roma, di aggiungere una lancetta dei minuti al
trecentesco orologio a lancetta unica della Torre d’Arnolfo in Piazza della
Signoria («Così ’un funziona… La gente deve vedere bene l’ora, mica deve essere
un orologio filosofico»), d’altronde è lui il modello ed è naturale che a lungo
resti insuperabile. Altrettanto naturale che la Boschi non segua troppo da
lontano: «In questi trent’anni
le continue prese di posizione dei Professori hanno bloccato un processo di
riforma oggi non più rinviabile per il Paese» (Agorà – Raitre, 4.4.2014). Chi
fosse giusto mettesse lingua sulla Costituzione non è dato sapere: i costituzionalisti,
a quanto pare, no. Probabilmente gli autisti, i fuochisti, i macchinisti, ecc.
venerdì 4 aprile 2014
“Non abbiate paura!”
Cinq jeunes Flamands obtiennent un
entretien exclusif avec le pape
(deredactie.be) e uno gli chiede di
cosa abbia paura. La risposta meriterebbe una lunga riflessione sul punto in
cui Bergoglio afferma di aver paura solo di se stesso, ma qui ce la
risparmieremo, perché nel video che riprende alcuni momenti dell’incontro manca
quello relativo alla domanda e non ci è dato sapere se per paura sia stata usata peur
o crainte (nel secondo caso si solleverebbe
la questione posta dal fatto che il timor di Dio, la crainte de Dieu, è tra
i sette doni dello Spirito Santo e sorprenderebbe trovarne sprovvisto un papa
che parla sei lingue, compreso il francese). Sorvoliamo, per considerare il
punto in cui Bergoglio afferma che «nel Vangelo Gesù ripete tante volte: “Non
abbiate paura!”», e per trasecolare, perché è falso. La frase è riportata solo in
Mc 6, 50 e in Mt 14, 27, per giunta in occasione dello stesso evento, narrato
con frasi pressoché simili (uno dei casi che confermerebbero la tesi della
«priorità marciana», sicché nel rammentare di quale episodio si tratti, e in
quale contesto Gesù dica la frase in discussione, qui si preferisce riportare
la versione in Mc 6, 45-50): «Subito dopo
[il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci] Gesù obbligò i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra
riva, verso Betsaida, mentre egli avrebbe congedato la folla. Preso commiato, se
ne andò sul monte a pregare. Fattosi sera, la barca era in mezzo al mare [in
realtà si tratta di un lago, quello di Tiberiade] ed
egli era solo a terra. Vedendo i discepoli che si affannavano a remare perché
il vento era loro contrario, verso la quarta vigilia della notte, andò incontro
a loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli, ma essi, vedendolo
camminare sul mare, pensarono che fosse un fantasma e gridarono, perché tutti
lo videro e ne furono sconvolti. Ma subito egli parlò loro e disse: “Coraggio,
sono io; non abbiate paura!”». Come è evidente, si tratta di un “non
abbiate paura!”» che non ha nulla a che vedere con
una sollecitazione a darsi forza
d’animo a fronte di
un’inquietudine o uno smarrimento di natura esistenziale, tanto meno a cercarla nella fede in qualcosa o in qualcuno: è una banale esortazione a non essere fifoni e
– occorre
ribadire – è frase che Gesù profferisce in una sola occasione.
giovedì 3 aprile 2014
[...]
I
craxiani, almeno, avevano cultura. E dei berlusconiani potevi dire tutto, poi, non
che non fossero spassosi. I renziani, invece, sono ignoranti e deprimenti. Anche l’avventurismo politico col vizietto del decisionismo mostra i segni del degrado che sfianca il paese: dal progetto di società siamo passati al piano d’azienda, per finire al fare per fare.
Ce n’è una, stasera da Santoro, che è la sintesi perfetta del renzismo: ugola da piazzista e sorrisetto strafottente, parla e non dice niente. Al confronto, per dire, la Taverna che la contraddice sembra un gigante. Cosa spazzerà via questa immondizia, e quando?
Mostruosa, ribadisco
Un
lettore contesta il giudizio negativo che ho espresso sulla riforma del Senato dal
quale Renzi fa dipendere la sua permanenza a Palazzo Chigi fino al 2018,
sebbene non vi sia arrivato con un’investitura elettorale, o l’andarsene a
casa, salvo gli ovvi ripensamenti che sono la costante degli sfacciati che si
giocano la faccia: mi fa presente che «una seconda camera non elettiva e con le
competenze prefigurate dal ddl del governo è legittima sotto il profilo
costituzionale e opportuna dal punto di vista politico», sicché avrei
«clamorosamente» sbagliato col definirla mostruosa. Non devo essermi spiegato
bene e allora torno sulla questione cercando di liberare i miei argomenti dalle
ellissi in cui li avevo compressi.
Innanzitutto,
io contesto il metodo col quale si intende varare questa riforma
costituzionale. Ad approvarla sarebbe la maggioranza semplice di un Parlamento
eletto con un sistema elettorale come il Porcellum, di cui la Corte Costituzionale ci ha spiegato le intrinseche storture: un Parlamento di nominati
in cui la rappresentatività è pesantemente alterata da un premio di maggioranza spropositato, in nome di una governabilità che ormai è ridotta a mero feticcio per la tutela cui siamo soggetti in sede europea. A mio modesto avviso, le riforme costituzionali
toccano il terreno che è comune anche alle più infime minoranze, sicché dovrebbero
essere varate da maggioranze quantitativamente e qualitativamente diverse da
quella che qui si appresta a modificare una struttura portante della
Costituzione com’è il bicameralismo, peraltro sotto l’implicito ricatto di
andarsene a casa insieme a chi propone il ddl, nel caso non approvi. Sulle
regole comuni a tutti, a mio modesto avviso, dovrebbe esprimersi un organo
costituente, espresso con metodo proporzionale. Sarà esagerato, ma su ogni più
minuto dettaglio della Carta destinata ad essere di tutti non ritengo eccessiva
alcuna garanzia.
In
secondo luogo, il Senato a cui si è pensato nello stendere questo ddl non
ha niente a che vedere con la Camera delle Autonomie, di cui abbiamo analogo in
altri paesi: gli si leva voce in capitolo sulla legislazione ordinaria e sulle
norme di bilancio, ma gli si lascia il voto sulle leggi di revisione
costituzionale, sull’elezione del Capo dello Stato e su quella dei membri laici
del Consiglio Superiore della Magistratura, senza specifica investitura popolare?
Quand’anche, poi, si volesse assumere come implicito che il Sindaco di questa
città sì e di quella città no acquisti de facto queste prerogative al varo
della riforma del Senato, come si può pensare che l’incongruità
rappresentativa, che è la più evidente bizzarria nel modo col quale se ne è
immaginata la composizione, possa reggere al vaglio della Consulta?
Infine,
senza con ciò dover forzare troppo la fantasia nel leggere il retropensiero che
muove a questa follia, c’è la questione del perché sia proprio su questo
momento di revisione costituzionale che un pericoloso avventuriero come Renzi
si dica disposto a puntare tutto. Qui mi pare che i fatti parlino da soli. Il
bipolarismo in Italia è morto e tuttavia non ci si rassegna a prenderne atto.
Ci si ostina a tentare di rianimarlo con potenti dosi di maggioritario ad alto
tenore premiale, ma il principio che fin qui regge la definizione dei collegi
da cui i senatori arrivano a Palazzo Madama rende impossibile avere al Senato
la stessa maggioranza dopata che si riesce ad ottenere a Montecitorio. A quale
altra soluzione potevano pensare due tizi disinvolti come Renzi e Berlusconi?
Aboliamo il Senato. O almeno sterilizziamolo. Basta aggiungerci un Italicum che
ribadisca il no alle preferenze e le liste bloccate del Porcellum, e il gioco è
fatto: chi vince si piglia tutto, compreso il diritto di dare al Parlamento il
solo compito di vidimare i decreti dell’esecutivo, e in culo alla democrazia,
vince chi è più figo in favore di telecamera.
Non ogni revisione
costituzionale è un tentativo di golpe, figuriamoci, ma questa, senza dubbio,
sì.
mercoledì 2 aprile 2014
«E qui, siore e siori, mi voglio rovinare»
La
Costituzione non è legge divina, dunque ci si può metter mano per emendarla,
tanto più che fra i suoi articoli ce n’è uno lo consente, indicandone modi e
tempi: recita che «le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi
costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive
deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione»
(art. 138).
È per questo che ritengo impensabile una riforma del Senato come quella
in discussione in questi giorni. Si pensa, infatti, di farne un organo non
elettivo, togliendogli voce in capitolo sulla fiducia al governo e sulle leggi
di bilancio, ma lasciandogliela su quelle di revisione costituzionale (giocoforza,
direi, sennò dovrebbe essere emendato anche l’art. 138): saremmo, così, all’assurdo
di un organo che non potrà più metter lingua sull’operato dell’esecutivo, ma
potrà continuare a farlo sulla Costituzione, e con potere decisionale pari a
quello della Camera dei Deputati, ma senza aver avuto alcuna investitura dal
voto popolare.
Una mostruosità del genere poteva esser partorita solo da un
analfabeta. Poteva trovare consensi solo in una di quelle congiunture storiche in
cui un analfabeta riesce a costruirsi reputazione di innovatore della
grammatica. Reputazione tanto più alta, quanto più volitiva appare l’intenzione
di stravolgere la logica che regge la costruzione di una lingua. Si può
arrivare, e qui con Renzi ci si arriva, ad apprezzare l’ignoranza come una forza
della natura.
Così, ci tocca sentirci dire che i padri costituenti erano barbosi
scassacazzi che l’hanno messa giù un po’ troppo pesante solo perché traumatizzati
dal fascismo, poverini, mentre il nuovo mago delle televendite ha fegato, e polso, e coglioni, si
vede dalla grinta che mette nell’urlare: «E qui, siore e siori, mi voglio
rovinare: aggiungo alla riforma costituzionale il taglio di un miliardo alla
politica». Sputacchia un poco su quelli in prima fila perché ha una lieve micrognazia, ma mica è detto che
l’Uomo della Provvidenza debba per forza essere un mascelluto, basta sappia galvanizzare i fessi e strizzare
l’occhio ai furbi.
C’è da stupirsene? Non direi. In fondo si tratta di quello che, se
non veniva fatto Presidente del Consiglio, sarebbe rimasto Sindaco di Firenze e quasi certamente avrebbe sfregiato l’orologio a lancetta unica della
Torre d’Arnolfo, aggiungendoci quella dei minuti. «Troveremo
uno sponsor
–
diceva –
la gente deve vedere bene l’ora, mica deve essere un orologio
filosofico». E a chi gli faceva presente che quell’orologio era del Trecento: «Mica voglio metterci un orologio al quarzo –
rassicurava –
è che così ’un
funziona». Piaccia o no,
l’ometto è questo.
lunedì 31 marzo 2014
Non so più in quale film
Non so
più in quale film in costume ho visto la scena di quell’istitutore di corte che,
nell’impartire la lezione di grammatica al piccolo erede al trono, ad ogni strafalcione che
scappava al principino mollava un ceffone a un ragazzino che poteva avere più o
meno la stessa età di quello, specificamente adibito a quel ruolo, cioè beccarsi i
ceffoni che ai quei tempi si reputava fossero pedagogicamente indispensabili, ma si riteneva impensabili sulla
guancia di un futuro re, e la scena mi è tornata in mente alla lettura dell’editoriale
che oggi Ferrara ha dedicato a Renzi indossando gli abiti in cui è convinto di star meglio, quelli del consigliere del Principe: «devi essere più deciso», e giù uno schiaffone
a Craxi, «più spietato, cazzo», e giù un manrovescio a Berlusconi. Analogia
imperfetta, so bene, ma stessa amara riflessione sulle miserie della cortigianeria.
[...]
Al
netto degli annunci di riforma, che anche i soffici eufemismi della Sala Stampa
Vaticana non riescono a negare nasca dalla necessità di bonificare una Curia da
tempo ridotta a intricata rete di avide lobby (e passi per quella massonica e
quella gay, ma corre voce ve ne sia pure una satanista), a un anno dall’elezione
di Bergoglio al Soglio Pontificio la merda venuta a galla durante il
pontificato del suo predecessore sta ancora tutta lì, ma è assai meno
appariscente, come se con gli annunci la riforma fosse già a regime. Si farà
pulizia, si annuncia, ma si fa presente che la Chiesa ha il passo lento e
meditato, che Bergoglio ci pensa e ci ripensa, al momento ci si accontenti del
fatto che si sia preso atto del fatto che se ne senta l’urgenza. Non è affatto poco, in realtà, perché è premura
che in qualche modo incrina quella fiducia di poter durare nonostante tutto fino
alla fine dei tempi, che in altre epoche storiche ha consentito la più ampia strafottenza.
Sarà che negli ultimi tempi gli scandali fanno più rumore o che l’orecchio ovino è
diventato più sensibile, va’ a capire. Continuare a costare ogni anno quanto
una manovra correttiva di bilancio, allora, sia, ma puzzare come una fogna a
cielo aperto impone qualche misura. Si farà pulizia, si annuncia, intanto ci
sia accontenti del fatto che il nuovo papa sia simpatico e pare non abbia intenzione
di rompere troppo il cazzo come Ratzinger. E rispettosamente lo si lasci
condannare la corruzione dei politici.
Tutti
in silenzio, i politici a messa in quel di Santa Marta, al fervorino di
Bergoglio sulla corruzione, chi a far finta di non esserne toccato, chi a
sentirsene bastonato ma a non accennare un lamento per non attirare troppa attenzione. Non uno che si levasse a rammentargli la parabola laica
della vacca che dice al mulo: «Ti puzza il culo». E mentre Sua Santità apriva
le porte dell’inferno a chi intasca una mazzetta, la Cei licenziava le linee
guida sulla pedofilia: non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale – vi poteva
leggere – il vescovo non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità
giudiziaria notizie riguardanti casi di abuso sessuale nel confronti di un
minore da parte di un prete, «salvo il dovere morale di contribuire al bene
comune». Contribuirvi come? Comune a chi? Domande impertinenti, soprattutto se
rivolte a un papa riformatore. Tutti zitti, dunque, neanche una testa calda di
Sel o della Lega a chiedergli: «Santità, ci racconti quella della trave e della
pagliuzza».
Un libro più citato che letto
L’assunto
che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente conferisce un
carattere ieratico al filosofo, allo scienziato e all’artista, sicché il lavoro
intellettuale assume gli attributi di un sacro ufficio. È da questo assunto che
muove l’accusa di Julien Benda agli intellettuali: da qualche tempo – scrive
nel 1927 – «non solo non svolgono più il
ruolo che spetta loro, ma ne svolgono uno contrario», «rompono violentemente la loro tradizione», «esaltano l’attaccamento al particolare e alle cose pratiche e
stigmatizzano il senso dell’universale e l’amore delle cose spirituali»,
fino a scendere nell’agone politico in sostegno di una fazione. Chierici che
hanno tradito, dunque, perché l’intellettuale, quando è fedele alla propria
missione, «non persegue fini pratici, ma,
cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della
speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice
in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”».
Ammesso
e non concesso che tale modello di intellettuale sia quello ideale, occorre, in
primo luogo, chiarire la natura di una «soddisfazione»
che dovrebbe essere aliena da «fini
pratici». Se si trattasse dell’intimo appagamento che si raggiunge nel
ritenere di aver colto il buono, il vero o il bello a un grado superiore di
quello ordinario, saremmo all’egotismo. Nemmeno Julien Benda sembra pensare che
un intellettuale debba accontentarsi di questo: ritiene, infatti, che tra i
suoi doveri vi sia quello di «invitare i
suoi simili a religioni diverse da quella del temporale». Che giocoforza implica una mira su «questo mondo» e configura un «fine pratico». In secondo luogo, c’è
un modello di chierico fedele cui l’intellettuale possa ispirarsi? Certo. Sarebbe
possibile «rintracciare nel corso della
storia una serie ininterrotta di filosofi, religiosi, letterati, artisti,
scienziati il cui atteggiamento è di formale opposizione al realismo delle
masse», ma gli esempi proposti sono a stento una dozzina, fra i quali
troviamo il Leonardo che progettò macchine militari per Ludovico il Moro e il
Goethe che fu consigliere ministeriale per gli affari militari e la pubblica
amministrazione a Weimar, mentre la passione politica procura a Dante l’inclusione nella lista dei «chierici
da comizio».
Ad
essere indulgenti, diremmo che gli argomenti prodotti da Julien Benda ci sembrano debolucci. Nessuna obiezione al fatto che usi «chierico» in luogo di «intellettuale», perché a lungo, in
occidente, fu il clero a detenere il pressoché esclusivo monopolio della
cultura, difendendolo strenuamente finché gli fu possibile, fino alla netta
opposizione all’istruzione di massa. E tuttavia, proprio perciò, come si può ignorare che anche quel clero serviva «fini
pratici»?
Più in generale, come si può ignorare, dopo Marx e dopo Weber, che
l’intellettuale è un prodotto sociale anche quando assume connotati antisociali? Infine, come si può porre il problema di una trahison des clercs come questione che assume rilevanza solo nel Novecento?
Sul
ruolo dell’intellettuale nella società si è discusso da sempre, perché «il tema – osserva sennatamente Norberto Bobbio – non è altro che un aspetto di uno dei problemi
centrali della filosofia, quello del rapporto fra teoria e prassi (o tra
pensiero e azione), in termini ancora più generali e filosoficamente ancor
più tradizionali, fra ragione e volontà, quando sia trattato dal punto di vista
di coloro che a partire da un determinato periodo storico e in determinate
circostanze di tempo e di luogo sono considerati i soggetti cui si attribuisce
di fatto o di diritto il compito specifico di elaborare e trasmettere
conoscenze, teorie, dottrine, ideologie, concezioni del mondo o semplici
opinioni, che vanno a costituire le idee o i sistemi di idee di una determinata
epoca e di una determinata società […] I vari atteggiamenti che gli
intellettuali possono assumere di fronte al compito loro spettante nella vita
sociale corrispondono esattamente ai vari modi con cui nei secoli le diverse
scuole filosofiche hanno cercato di dare una soluzione al problema del rapporto
fra le opere dell’intelletto o della mente o dello spirito e il mondo delle
azioni […] In forma più specifica, il problema degli intellettuali è il problema
del rapporto fra costoro, con tutto quello che rappresentano di idee, opinioni,
visioni del mondo, programmi di vita, opere dell’arte, dell’ingegno, della
scienza, e il potere politico». Un problema che per Julien Benda, nel 1927, va ponendosi solo «da cinquant’anni a questa parte».
In
forza del titolo che divenne subito un’espressione a effetto, La trahison des clercs è sempre stato un
libro più citato che letto. In realtà basta leggerlo per capire che deve la sua
fortuna unicamente al titolo. A oltre trent’anni dalla sua prima edizione in
italiano (1976), Einaudi l’ha recentemente riproposto nella collana PBE,
consentendoci di fare finalmente i conti col tic di un certo pour parler che spesso è un parler sans savoir de quoi nous parlons.
Capita spesso, infatti, che a far propria la condanna di Julien Benda ai clercs qui ont trahi sia chi in fondo addebita
loro non già l’aver rinunciato a quell’autonomia che dovrebbe esserne virtù
peculiare, e che in ogni epoca storica è sempre stata un’eccezione piuttosto
che la regola, ma di aver preso partito avverso a quello di chi lancia l’accusa
di trahison. In pratica, il chierico
tradisce sempre e solo le aspettative di chi lo avrebbe voluto schierato in favore
delle proprie idee. Anche per questo, come rileva Davide Cadeddu nella prefazione a quest’ultima edizione in italiano (2012), a Julien Benda
«da subito si attribuì il contrario del suo pensiero». Non era solo effetto di un uso strumentale della sua tesi:
«paladino della figura di intellettuale storicamente disincarnato e astratto, al di sopra di qualsiasi atteggiamento settario, prese coraggiosamente posizione nelle grandi questioni che divisero il suo tempo» (Fernando Savater, La sconfitta di Julien Benda, Laterza 2000), fin dall’affaire Dreyfus, che non fu dibattuto precisamente in una turris eburnea.
Ma il segno più evidente delle obiezioni che una tale tesi è destinata a sollevare, oggi non meno che nel 1927, è nel fatto che per l’edizione del 1946 l’autore fu costretto ad una prefazione lunga quasi la metà dell’opera licenziata un ventennio prima, nella quale riesce ad essere anche meno convincente. È che per rimanere fermo sul punto sostenuto un ventennio prima deve rimodulare la definizione di clerc, che ora non tradisce la sua missione nell’astratta fattispecie del farsi «milizia spirituale del potere temporale» (1927), ma in quella assai più concreta, e temporalmente assai più circoscritta, del servaggio alle fazioni in lotta alla caduta dei totalitarismi, alle quali si riesce a dare un nome solo sciogliendo le perifrasi in cui vengono avviluppate. Così, non siamo più dinanzi a una trahison del ruolo, ma solo di alcuni fini cui il ruolo dovrebbe tendere in nome della «libertà della persona», e che sarebbero traditi in nome dell’«ordine» («Stato monolitico», «famiglia come organismo globale», «corporativismo»),
del «dinamismo»
(«materialismo dialettico», «ragione elastica», «perpetuo divenire della scienza»,
«dogma secondo cui le tesi della nuova fisica segnerebbero la fine dei principi razionali», «tesi secondo cui la ragione [...] deve cambiare non di comportamento ma di natura»), dell’«impegno» (inteso come
«presa di posizione nell’attuale in quanto attuale»),
dell’«amore» (come elemento di opposizione alla giustizia, come nel caso di appelli in favore di amnistie), della negazione di una «morale superiore» (in nome del relativismo etico, potremmo dire): il chierico, insomma, a differenza che nel 1927, non tradisce più col semplice scendere in campo, ma solo quando vi scende in nome di queste aberrazioni, che non si fa fatica ad individuare nelle posizioni, fra gli altri, di Jacques Maritain, e di Henri Bergson. A ragione potremmo dedurne che un clerc ne trahi pas solo se vi scende per contrastarle. E qui, a esempio del citare il libro di Julien Benda senza averlo letto, sovviene il caso di chi lo cita facendo propria la sua denuncia, ma nel contempo ha Maritain e Bergson nel proprio Pantheon, e
una vera e propria fissa per l’amnistia.
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