giovedì 12 giugno 2014
mercoledì 11 giugno 2014
Conviene ripeterci
A
negare che esista un diritto di far figli, e dunque a storcere il muso per la
sentenza della Corte Costituzionale che lo afferma e lo dichiara incoercibile, è
chi sostiene che sia un dovere. Il paradosso segnala un’incongruenza logica che
è a fondamento della morale cattolica: se infatti il far figli è un dovere imposto
da un Dio che è provvidenza, farli aggirando le regole prefissate nell’ordine
creaturale è altrettanto colpevole che evitare di farne contravvenendo ad esse.
D’altronde, il diritto di far figli è sentito tale da chi ritiene che sia
lecito decidere di farne o no, aggirando le eventuali difficoltà che si
frappongono all’averne, se aggirabili. Non così per chi ritiene che farne sia
un dovere dal quale ci si può sentire sollevati solo nell’impossibilità di
averne secondo la regola che vuole inscindibili il momento unitivo e quello
procreativo oppure per onorare la scelta della castità.
Ecco, dunque, che il
paradosso si scioglie: devi far figli, e devi volerli fare, perché così Dio
vuole, ma se non puoi averne nell’unico modo che ti concede per averne, pur
potendo averne in altro modo, devi rinunciarci, perché così Dio vuole nel tuo
caso, e non ti è dato chiederti il perché. Si adattasse tale logica a qualsiasi
altro apparato umano come si pretende sia cogente per quello riproduttivo,
sarebbe immorale l’uso degli occhiali da vista, qualsiasi terapia endocrina, l’impianto
di protesi cardiache, ortopediche e dentarie, ecc. È evidente che il divieto di
ricorrere a tecniche di fecondazione assistita per superare gli ostacoli che si
frappongono alla possibilità di avere figli debba rispondere a un’altra
esigenza e che il dettato morale sia solo strumento per darle una risposta.
Così, d’altronde, è per gran parte degli imperativi etici che i cattolici non
si accontentano di contemplare, peraltro riuscendoci in modo assai imperfetto,
ma cercano di tradurre in leggi che debbano valere per tutti. L’esigenza di
fondo è il tentativo di perpetuare un ordine sociale nel quale Dio sia
necessario, tanto più necessario in un ambito strategico come quello riproduttivo:
se far figli è un dovere, Dio diventa il motore demografico di una società. In
modo opposto, ma con la stessa placida risolutezza, contraccezione e fecondazione
assistita spodestano Dio.
Il diritto di far figli o di non farne ha questo di
terribile ora che nell’aldilà neppure più cattolici credono più tanto: sovverte
il fondamento che dichiara insovvertibile l’ordine creaturale, quello per il
quale poter far figli è un dono di Dio che non si può rifiutare, e il non
poterne fare è un suo veto che non è tollerabile sia messo in discussione.
martedì 10 giugno 2014
Fiumi di parole
Dopodomani
fanno tre mesi esatti dalla conferenza stampa nella quale Matteo Renzi annunciò
cosa avrebbe fatto il suo governo nei primi tre mesi e poi entro la fine di
giugno e quella di luglio. Presto ancora, per chi gli ha creduto, cagarsi in
mano e prendersi a schiaffi, però io comincerei a prepararmi: mancano ancora due giorni,
infatti, perché il Parlamento vari la nuova legge elettorale, due giorni perché
passi la riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, una ventina di
giorni per avere un altro fisco, un’altra giustizia e un’altra pubblica
amministrazione, sei o sette settimane ancora perché lo Stato paghi i 68
miliardi di euro che deve ai suoi creditori, perché altri 10 vengano messi a
disposizione per l’accesso al credito delle aziende in difficoltà e altri 3,5 stanziati
per il piano di edilizia scolastica. Il già fatto? L’abolizione del Cnel, le 100
auto blu messe all’asta, gli 80 euro che gli sono valsi il 40,8% alle Europee. L’annunciato
taglio dell’Irap? Doveva essere del 10%, è stato rimodulato al 5%. Cos’altro?
lunedì 9 giugno 2014
Non ci resta che attendere
Sarà
davvero interessante sentire dal professor Giovanni Agosti e dalla neodottoressa Cristina Moro,
venerdì 13 giugno, all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, quali siano le
prove che consentirebbero per le due tele conservate nella Villa San
Remigio, a Verbania, la certa l’attribuzione alla mano del Veronese. Si tratta
di due figure allegoriche raffiguranti la Scultura e la Geografia, finora
attribuite alla scuola del grande pittore del Cinquecento, che era solito
firmare le sue opere: queste due non lo sono e, almeno dalle indiscrezioni che
trapelano, parrebbe che la nuova attribuzione trarrebbe forza dalle concordanze
che esse mostrerebbero con altre due tele, in questo caso sicuramente dipinte
dal Veronese, conservate al Los Angeles County Museum of Art, però raffiguranti
Averroè e Tolomeo.
Concordanze, dunque, che non sarebbero strettamente relative
al tema, ma naturalmente questo è irrilevante. Rilevante, invece, è il fatto
che queste concordanze siano inafferrabili al raffronto degli elementi formali. Anzi, è proprio dall’accostamento dei pochi analoghi che nelle tele di Verbania si evidenziano numerosi momenti di impaccio nello sviluppo dei panneggi e nella resa degli incarnati, del tutto assenti in quelle di Los Angeles. Più ancora del tratto, poi, risulta evidente un notevole scarto di qualità, tra le une e le altre, nell’uso del pigmento per dare profondità e rilievo alle masse, sicché parrebbe essere stata del tutto trascurata la lezione di Marco Boschini (1613-1704), che del Veronese ci dice:
A fronte di tali perplessità rimane la curiosità, dunque converrà aspettare l’appuntamento di venerdì. D’intanto, non ci resta che prendere per buone le dichiarazioni dell’Agosti: «In
questa storia non c’è alcun gusto dello scoop per lo scoop, non c’è voglia di
sensazionalismo. C’è il frutto di un gran lavoro, di ricerche condotte seriamente
da una studentessa attenta alla storia della cultura» (Corriere della Sera, 8.6.2014). Sì, perché il «gran lavoro» della Moro è una tesi di laurea e le «ricerche condotte seriamente» prendono le mosse, come si è detto, dalle analogie colte tra le tele di Los Angeles e quelle di Verbania. Ma non è tutto, perché «poi – aggiunge Agosti – c’è una convergenza di istituzioni pubbliche che hanno
concorso per ottenere un unico scopo: accertare la verità intorno a quelle due
opere». Qui, sul fatto che la «verità» possa chiamare a garanti le «istituzioni pubbliche», le perplessità aumentano, perché non è la prima volta che l’attribuzione di una crosta a un grande nome viene avallata per ragioni che oltrepassano la ricerca del vero.
Poi, passa il tempo, e del Veronese non sembrano più essere né Il ragazzo con levriere, né la Deposizione. Considerazioni oziose, probabilmente, ma rammentiamo che Villa San Remigio era fino a poco fa nella lista dei beni pubblici alienabili e sul Corriere di Novara dello scorso 10 marzo il
presidente del Consiglio Regionale, Valerio Cattaneo, commentava: «Questa
scoperta rilancia Villa San Remigio, che, in modi e tempi da definire una
volta individuate le fonti di finanziamento, potrebbe diventare meta
privilegiata di turismo culturale e d’arte».
Non ci resta che attendere.
domenica 8 giugno 2014
sabato 7 giugno 2014
L’irresistibile gorgo
«Il noto effetto
bandwagon, che ai piani alti della politica trova analogo nell’osceno assalto
al carro del vincitore cui assistiamo in questi giorni» (Replica – Malvino,
31.5.2014), ai suoi piani bassi, quelli dell’agorà televisiva, dà segno negli
ammicchi a un renzismo che giocoforza è parodia di se stesso. Giocoforza,
perché un renzismo come dottrina ancora non esiste, e chissà se mai esisterà: in Matteo Renzi e nei renziani (parlo del staff, non degli avventizi e degli stagionali) la vacuità di contenuti culturali (cultura politica e cultura in generale) è stipata dai suoi surrogati (la lingua si dà in gergo, l’argomento cerca persuasione nella fallacia, il significato resta opaco nel significante), sicché il renzismo è al più uno stile, ma forse pure stile è parola grossa, direi sia un format, e la tv comincia ad adottarlo. Il passaggio da Anno Zero ad Anno Uno credo sia un indicatore: il ventaglio delle posizioni su un tema trovano soluzione in «ragazzi» che «ci mettono la faccia» e «rottamano» il vecchio talk show per sostituirlo col chiacchiericcio degli Amici di Maria De Filippi, in cui anche i più sgangherati luoghi comuni cercano dignità di opinione. Basti l’esempio di quanto il cosiddetto garantismo trovi degrado nelle frasi fatte sparate a sproposito da una delle maschere:
C’è una compiaciuta pretesa di liquidare le ragioni del cosiddetto forcaiolo a un fastidioso moralismo, a un problema psicologico o addirittura a una rendita di comodo. Tanto più disgraziato è l’esito, e perciò a suo modo efficace, quanto più sbilanciato è il confronto: il cosiddetto forcaiolo è lì in antonomasia e il cosiddetto garantista ha tutto l’agio di polemizzare ad hominem, trovando il più pesante capo di imputazione a suo carico nel «disfattismo». Si riesce perfino a chiudere un occhio sul fatto che la «presunzione di non colpevolezza» sia promossa a «presunzione di innocenza».
Siamo davvero nell’irresistibile gorgo dello scarico del cesso. Masse ignoranti fin qui coccolate da spregiudicati demagoghi si scontrano e generano violente trombe d’aria che radono al suolo ogni possibilità di logica. Tra poco converrà sottrarsi ad ogni occasione di confronto pubblico, da attore e da astante.
giovedì 5 giugno 2014
[...]
Vittorio
Sgarbi inveisce contro gli stupri architettonici ed urbanistici delle
amministrazioni locali, «ignoranti e criminali come Calogero Sedara». Per
fortuna chiarisce subito che si tratta del «personaggio del Gattopardo», giusto
in tempo per risparmiare a Giulia Innocenzi il doversi dissociare da
affermazioni così pesanti ai danni di chi è assente e non può difendersi. Metti caso ’sto Sedara querelasse Anno Uno.
Corrispondenze
Bella
domanda, caro ***. Sono stato a pensarci sopra un buon quarto d’ora e penso di
poterti dare una risposta: il tratto che sembra voler essere la massima
peculiarità del terzo millennio non è quella cui anche tu dai il brutto nome di
«morte delle ideologie» (sono morte alcune ideologie – anzi, per meglio dire,
riposano in attesa che qualcuno sappia dare loro il fascino del vintage – ma il
più abborracciato metodo di analisi del reale rimane pur sempre una Weltanschauung),
piuttosto è la trasformazione dell’antitesi tra aristocrazia e democrazia nella
complementarietà tra elitismo e populismo. Come il principio di diritto reggeva
quell’antitesi, lo stato di fatto regge questa complementarietà. Ma non vorrei
essere frainteso: per diritto, qui, intendo la radice di legittimità che l’aristocratico
trovava nell’ideale dell’eccellenza e il democratico nell’ideale del razionale.
Bene, direi che la radice ora è vizza: aristocratico e democratico, così, hanno
perso stabilità, e per entrambi il fondamento si è ridotto allo stato di fatto,
mobile e contraddittorio. Dalla radice bicefala al fittone embricato, perché
per stato di fatto – anche qui chiarire non mi pare superfluo – intendo un
reale che impone una continua rettifica del metodo. Direi sia egemone una sola
ideologia, irriconoscibile come tale, che si limita a rappresentare l’instabilità
del sensibile. Viviamo il totalitarismo del labile. Ti prometto che ci tornerò
sopra, cercando di mettere un po’ di ordine, dando argomentazione ai passaggi.
Ciao.
mercoledì 4 giugno 2014
Oh, cara!
Non riuscendo in alcun modo ad astenermi dal voto per quella sorta di coazione a ripetere che con qualche eccesso di benevolenza si potrebbe definire disperante responsabilità, non riuscendo in alcun modo tuttavia a trovare sulla scheda un simbolo che mi ispirasse un seppur labile movente di adesione se non di aderenza, mi sono deciso per la prima volta in vita mia a dare un voto unicamente alla persona, e visto che nella mia circoscrizione era candidata Barbara Spinelli, la cui scrittura mi ha sempre deliziato cinque volte su sette, ho chiuso un occhio sul fatto che stesse in una lista di tipacci, e ho votato lei. Voglio dire: avessi visto il nome di Canfora o quello di Cordero in una delle altre liste, probabilmente avrei votato loro, e questo, più che di morte delle ideologie, mi sa di superfetazione dei personalismi, ma i tempi sono bui, e ahinoi. Per giunta, a rimarcare i tratti del preistorico paesaggio in cui si è mossa la mia decisione, ho da confessare con un certo imbarazzo che non ero affatto a conoscenza di ciò che Barbara Spinelli aveva lasciato intendere o addirittura, se ho capito bene, detto esplicitamente, cioè che avrebbe rinunciato al seggio, se eletta: lo apprendo solo adesso che la decisione sembra essere mutata. E mi piace illudermi che sia accaduto perché ha saputo, e non voleva darmi un dispiacere.
Aggiornamento (7.6.2014)
Aggiornamento (7.6.2014)
martedì 3 giugno 2014
Il culo del re
La
delicatezza con la quale Ernesto Galli della Loggia affronta la questione di
quale cattolicesimo sia cattolico Matteo Renzi è pari a quella che immaginiamo
abbia usato Charles-François Felix De Tassy nell’accingersi ad operare Luigi
XIV di fistola perianale, d’altronde pure in questo caso si doveva metter mano a
un recesso intimo, assai sensibile, e il soggetto non era uno qualsiasi. Non è
tutto, perché in entrambi i casi il lavoretto, all’apparenza semplice, è quasi
sempre reso disagevole da immancabili sorprese che emergono solo in corso d’opera,
e guai a non metterle in conto: com’è assai raro, infatti, trovare la stessa fistola
in due culi diversi, non c’è cattolico che non lo sia a modo suo.
Più pulito il
De Tassy, un po’ meno il Galli della Loggia, ma direi che il problemino abbia
trovato soluzione in entrambi i casi, perché lì il Re Sole fu ben presto in
grado di tornare a montare a cavallo, e qui a Matteo Renzi si è sellato un cattolicesimo
buono al passo, al trotto e al galoppo.
Non avendo nulla del democristiano
della Prima Repubblica, va da sé che il suo cattolicesimo «non [è] quello che
improntava di sé tanta parte della vecchia Dc con le sue radici nel primo
Novecento». È un affondare il bisturi nel becerume di chi neanche avrà letto
una pagina di don Sturzo o di De Gasperi, ma con leggerezza, perfino con una
certa grazia.
No, il cattolicesimo di Matteo Renzi è quello «di quell’Italia
media che dal Po arriva agli Appennini, che dalle aule dell’Università
Cattolica giunge, passando per i portici di
Bologna, fino alla pieve di Barbiana. [Qui la pagina del Corriere della Sera
mostra il suo limite, perché di sottofondo andava bene un motivetto folk
suonato all’organino.] È il cattolicesimo dei Dossetti, dei La Pira, dei don
Milani. Intriso d’inquietudini riformatrici, sospeso tra un ribellismo austero
e spregiudicato che ricorda Savonarola [sic!] e la consapevolezza tormentata
della sfida portata alla fede dai tempi nuovi. Percorso da una moderna vena
intellettualistica e insieme da una devozione antica…».
È più che naturale che
all’incisione di una fistola perianale, alla vista di quel che ne esce, il
profano dell’arte chirurgica sia preso da disgusto, perdendosi così la bellezza
del gesto, che è nell’affondo del taglio, nel cogliere la relazione tra interfaccia
e clivaggio, nella calibratura del tessuto da cruentare… Così sarà con chi è a
digiuno con le virtù d’un editorialista del Corriere della Sera cui viene affidato il compito di deliziare il culo al premier in carica.
Dossetti? E che
c’entra con Matteo Renzi? E don Milani? La Pira? Qualcos’altro in comune oltre
al fatto di essere stati entrambi sindaci di Firenze? Ecco, più o meno questo
si sarà chiesto chi oggi leggeva Ernesto Galli della Loggia un poco disturbato, perdendosi così l’incanto della tecnica.
«È
questo, nel fondo, io credo, il cattolicesimo di Renzi e dei suoi amici, quello
che essi hanno respirato. Ma che oggi essi stessi declinano in una versione
particolare, la quale ne addolcisce i tratti e ne stempera assai le ambizioni e
l’asprezza originaria dei contenuti. […] È
[…] una versione che più che ad una qualche teologia radicale sembra rimandare
all’immediatezza di un sentimento: quello che molto semplicemente vede il mondo
diviso tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra deboli e forti,
tra ricchi e poveri. E che di fronte a ciò non sa che farsene di qualunque
intellettualismo più o meno palingenetico, di qualunque sogno di “società cristiana”,
per prendere piuttosto la strada della concretezza, del cambiare ciò che è possibile
ma provandoci davvero. Una versione dominata dalla dimensione del giovanilismo,
abituata più che al partito al piccolo gruppo, mossa da un agonismo irrequieto mirato
alla vittoria, fiducioso nelle proprie forze e pronto a misurarsi con l’azione;
pienamente a suo agio con gli strumenti e i ritmi della modernità».
Neanche sembra più un culo, via.
lunedì 2 giugno 2014
Mannaggia
Quando
le corporazioni si mobilitano in difesa dei propri privilegi, d’istinto mi
schiero in favore di chi li ha messi in discussione, chiunque sia, senza star
troppo a sceverare sulla ratio che lo anima, anzi, talvolta mi sorprendo
addirittura ad incitarlo come se lui stesse sul ring e io di sotto: «Daje! –
urlo in cuor mio – Faje usci’ er sangue dalle orecchie!». L’istinto, tuttavia,
non mi fa perdere del tutto il comprendonio, sicché, dinanzi alla notizia che
la Rai scende in sciopero per gli annunciati tagli che il Governo pare
intenzionato a infliggerle, mi chiedo innanzitutto: è una corporazione, la Rai?
Direi che non lo sia. Corporazione sarà quella dei tassisti, dinanzi alla quale
questo Governo si
è calato le braghe, come d’altronde in altre occasioni hanno fatto anche quelli
precedenti. In quanto ai privilegi che andrebbero tagliati, in questo caso
parrebbe assommino a 150 milioni di euro: una bazzecola se comparata a tutto
quello che ci costano i privilegi accordati alla corporazione dei preti, che
forse non sarà corporazione in senso stretto, ma in senso lato pure troppo.
Ma la Rai? Non direi. Corporazione sarà quella degli operatori nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento televisivi, mentre la Rai ne incardina solo una fetta. E ancora: nel toglierle quei 150 milioni di euro le si toglie un privilegio? Si tratta di un’azienda pubblica, dunque direi che quanto le si è dato finora fosse quello che serviva per mandare avanti il carrozzone, troppo o poco che fosse. Direi, quindi, che i tagli annunciati dal Governo, più un «basta con la Rai corporazione», come titolava giorni fa Il Foglio, siano poco più d’una mezza scorreggina di spending review. Senza dubbio necessaria, visti gli sperperi che praticamente tutti imputano alla tv pubblica, tanto più se a fare sacrifici sono già in tanti.
Ma la Rai? Non direi. Corporazione sarà quella degli operatori nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento televisivi, mentre la Rai ne incardina solo una fetta. E ancora: nel toglierle quei 150 milioni di euro le si toglie un privilegio? Si tratta di un’azienda pubblica, dunque direi che quanto le si è dato finora fosse quello che serviva per mandare avanti il carrozzone, troppo o poco che fosse. Direi, quindi, che i tagli annunciati dal Governo, più un «basta con la Rai corporazione», come titolava giorni fa Il Foglio, siano poco più d’una mezza scorreggina di spending review. Senza dubbio necessaria, visti gli sperperi che praticamente tutti imputano alla tv pubblica, tanto più se a fare sacrifici sono già in tanti.
Tanti ma non tutti, a dire il vero, perché i partiti, per esempio, continuano a ricevere rimborsi elettorali, e i giornali continuano a intascare finanziamenti dallo Stato, e le sagre del caciocavallo continuano ad essere possibili
all’ombra di questo o quel campanile
solo grazie a una generosa pioggerellina di denaro pubblico. Insomma, sarà un pensiero malizioso, e speriamo che Dio ci chiuda un occhio sopra, ma che alla Rai si voglia far pagare qualche sgarro, che si intenda fare un favore alla concorrenza, il sospetto viene. Non si ha neanche il tempo di scacciarlo perché sconveniente, tuttavia, che
l’ineffabile Presidente del Consiglio dice: «Se
avessero indetto lo sciopero prima del voto, invece del 40,8 per cento avrei
preso il 42,8».
Mica è per fare un piacere a Mediaset, come insinuano a Viale Mazzini. Mica è per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, come pensa qualche coda di paglia. No, si tratta dell’ennesima furbata promozionale: mettere all’asta due auto blu per far credere di aver lasciato a piedi la casta, dare una mancia da 80 euro a qualche milione di statali per poter dire che le tasse scendono, sparare le solite palle da ghepensimì ma con supporto di slides perché gli annunci sembrino anticipi. Se avessero indetto lo sciopero prima del voto,
l’ennesima trovata per atteggiarsi a inesorabile nemico delle corporazioni avrebbe fatto tutt’altro effetto, mannaggia.
Perché, diciamocela tutta, la Rai, così com’è, è un insulto alla povera gente che annaspa nei gorghi della crisi economica. Quei fatui varietà mangiasoldi, quello sconcio del gioco dei pacchi che dà via milioni di euro a dei perfetti coglioni sorteggiati tra gli abbonati al canone... Mica la serietà di programmi come Amici della De Filippi, mica i soldi sudati a La Ruota della Fortuna...
domenica 1 giugno 2014
[...]
Pare
che spesso alle domande poste in corso di sondaggio si tenda a dare risposte
che si ritiene facciano fare bella figura, o almeno ne evitino di brutte, il
che porta a darne di veritiere quando si abbia la convinzione che esse
incontrino un giudizio favorevole o almeno neutro, sennò a darne di false, per
evitare riprovazione, biasimo o perfino disprezzo. Giacché questo accade anche
quando l’intervistato risponde in forma anonima, è evidente che la censura alla
risposta veritiera insorga quando questa venga ritenuta sconveniente da un foro
interno che faccia proprio il metro di giudizio che, a torto o a ragione, si
sente esternamente prevalente. In sostanza, dunque, direi che chi mente alle
domande poste in corso di sondaggio non sia semplicemente uno cui manchi il
coraggio di esprimere le proprie idee o i propri gusti perché teme incorrano nella
più o meno severa disapprovazione di quella che, a torto o a ragione, individua
come prevalente opinione corrente: mentendo, egli non pone in atto solo una
difesa alla propria reputazione, ma anche un vero e proprio attacco alla
solidità del metro di giudizio ritenuto sovrano. Attacco che assume i connotati del
sabotaggio, perché è evidente che un sondaggio miri a dare indiretta rappresentazione
di quel metro, e la risposta non veritiera lo mina dall’interno, col chiaro
intento di renderlo inaffidabile o comunque di erodere sovranità alla logica che lo rende vigente. In tal senso, è chiaramente riconoscibile la natura nevrotica del processo
che porta a mentire in corso di sondaggio, e tuttavia potremmo riconoscergli una sottospecie della nobiltà che concediamo al
partigiano che di giorno sia impeccabile conformista e di notte vada a minare
ponti.
Ciò
detto, occorre chiarire due punti, fin qui lasciati intenzionalmente vaghi. In
primo luogo, occorre chiederci quali caratteri assuma la «prevalente opinione
corrente» in chi menta in tali occasioni. Direi non sia necessariamente l’opinione
quantitativamente maggioritaria, ma quella che chi mente sente
qualitativamente, ancorché ingiustamente, più accreditata sul piano di quel
realismo che presume a fondamento del vigente metro etico-estetico. In secondo
luogo, torna necessario chiederci in quale misura – quanto «a torto o a ragione»
– questo sentire trovi rispondenza nel «clima» che caratterizza il momento e il
contesto in cui è posta la domanda del sondaggista. Mi pare che entrambe le
questioni si risolvano assumendo che la persona che pone la domanda sia avvertita
da chi le dà una risposta menzognera come rappresentante o addirittura, in qualche modo, artefice della «prevalente
opinione corrente». Chi procede al censimento non è sempre delegato
dal re? E non è in funzione ai risultati del censimento che il re prende le sue decisioni riguardo al regno?
Ad
una delle obiezioni che mi sono state sollevate per l’aver dato
fede all’analisi dei
flussi elettorali condotta dall’Istituto Cattaneo ho risposto che «una cosa
sono le analisi del voto fatte prima che gli elettori entrino nel seggio,
un’altra quelle fatte dopo»: mi pare che quanto ho fin qui detto ne dia un’adeguata
spiegazione, e, riprendendo la metafora usata qui sopra, direi che ad attentato riuscito sia del tutto naturale segua una fiera rivendicazione. Direi che dire
il vero, dopo, sia il miglior modo di dare una valenza propriamente politica all’aver
detto il falso, prima.
sabato 31 maggio 2014
Replica
«Adulatori per lo più
de’ tiranni presenti,
sebben lodatori degli
antichi repubblicani»
Giacomo Leopardi, Zibaldone
Ricapitolando.
Ho scritto che «il Pd riguadagna solo
parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro
riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato
da Walter Veltroni» (I 38 milioni di
italiani che non hanno votato Pd – Malvino,
26.5.2014): continua a sembrarmi indiscutibile. Poi ho scritto che «il 40,8% [ottenuto dal Pd] del 57,2% [che
si è recato alle urne il 25 maggio] non
supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto» (Le dimensioni del trionfo di Matteo Renzi
– Malvino, 26.5.2014): anche qui, mi
pare sia pacifico. Infine, commentando l’analisi dei flussi elettorali elaborata
dall’Istituto Cattaneo («Il successo di
Renzi si è costruito sulla tenuta dell’elettorato Pd nei confronti
dell’astensione, sulla conquista del bacino di Scelta civica, sul cedimento di
elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] È possibile che non pochi elettori
ora astensionisti possano rientrare nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia
che del M5S»), ho scritto che in essa «il
risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore
ridimensionamento» (La bolla – Malvino, 29.5.2014): giudizio che non mi
pare affatto scandaloso.
Fatta la tara di insulti e sberleffi, le obiezioni a
quanto ho scritto sono le seguenti:
(1) Mi si contesta che il numero dei voti
ottenuti dal partito che vinca una competizione elettorale acquistino peso in
relazione a quanti ne hanno preso i partiti che l’hanno persa. Non è per fare
sfoggio di superbia intellettuale, ma a questo ci arrivavo anche da solo. D’altronde
non mi pare di aver scritto che i risultati di queste Europee siano ambigui: il
Pd ha vinto, non c’è ombra di dubbio. In verità, direi che la vittoria più
significativa sia quella di Matteo Renzi sull’opposizione interna al suo
partito. D’altronde non era proprio lui a dire che i risultati di queste Europee
non potevano e non dovevano aver conseguenza sulla tenuta del governo? Ora pare
che l’abbiamo, e ovviamente in senso positivo, ma in fondo non si trattava di
Politiche. Il risultato delle Europee può essere letto come fiducia accordata a
questo pagliaccio che, al netto del muoversi tanto da fermo e del promettere il
Bengodi con l’anticipo di 80 euro, finora non ha fatto un cazzo? Senza dubbio,
ma se mi si viene a dire che in democrazia i numeri sono tutto e Matteo Renzi
ne ha presi tanti e tanti in più di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi,
rispondo che non si votava per confermargli l’incarico di governo. In quanto al
risultato in termini assoluti, mi pare che recuperare buona parte degli
elettori persi dal 2008 al 2013 sia un buon risultato, ancor più se enfatizzato
dal defluire dell’elettorato grillino e di quello berlusconiano verso l’astensione,
ma di fatto, anche stavolta, al Pd non va più del consenso di un italiano su
quattro: legittimato alla guida del paese, ma per piacere non parliamo di plebiscito.
(2) Mi si rammenta che gli astenuti non contano. Ringrazio per il ragguaglio
all’ovvio, ma non mi pare di aver scritto che contino. Non hanno alcun peso sul
risultato elettorale, è naturale, ma esistono. Arrivano al comune convincimento
che esprimere una rappresentanza sia inutile, ma con ciò non sono fuori dall’opinione
pubblica, tanto meno sono da considerare massa socialmente inerte, e comunque restano
potenziali elettori che esprimono con l’astensione un disagio, che talora è da
interpretare come un vero e proprio malessere: si tratta di individui che – non
ha importanza, qui, stare a discutere quanto a ragione – hanno perso o non
hanno mai avuto fiducia nel metodo democratico, non trovano un’opzione
convincente nell’offerta dei partiti in lizza o, più banalmente, sono
refrattari ad ogni genere di scelta politica. Ci si può consolare col
constatare che in ogni regime democratico questo fenomeno è comune, che in
Italia non è neanche consistente quanto altrove, che il suo progressivo
incremento sia perciò del tutto irrilevante o che comunque non debba essere
letto come un sintomo preoccupante: può darsi, resta il fatto che nei paesi in
cui l’astensionismo ha percentuali assai più alte che in Italia il dato è
stabile da tempo e non trova espressione in quella sfiducia verso le
istituzioni che qui da noi va da tempo assumendo i tratti della resistenza
passiva che incamera un sordo risentimento. Si può fare a meno di prenderlo in
considerazione? Nello scrutinare le schede elettorali e calcolare quanti seggi
spettano a questo o quel partito, senza dubbio, sì. Nel discutere su cosa c’è
da attendersi sul medio e sul lungo periodo, non mi pare sia superfluo,
soprattutto in relazione all’alta fluidità che il corpo elettorale ha mostrato
negli ultimi vent’anni. In conclusione: continuare a fissare, come ipnotizzati,
quel 40,8% – continuare a ripetersi che è il più rilevante consenso ottenuto da
un partito dopo quelli conseguiti dalla Dc a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta,
quando alle urne si recava quasi il 90% degli aventi diritto – ritengo sia da
stupidi. Del tutto legittimo, peraltro, che Matteo Renzi e il Pd investano su
questa stupidità. C’è da ritenere, infatti, che sul breve periodo porterà frutto:
il paese è allo stremo, disposto ad aggrapparsi a tutto, soprattutto se con la
promessa che può salvarsi con un po’ di ottimismo, affidandosi all’ennesimo deus
ex machina. Non ci fossi abituato, la nausea mi impedirebbe perfino di
parlarne. Ma ho passato la cinquantina, e di ciarlatani promossi a salvatori
della patria, di avventurieri in grado di imbambolare i gonzi col loro
scilinguagnolo, di zoticoni senz’altra grazia di dio che una formidabile
ambizione e senz’altra virtù che l’intrallazzo maneggione, ne ho visto, e so
come la va: all’inizio, nel trambusto dell’ovazione, al moccioso che urla che
«il re è nudo» va un ceffone, poi tutti a dire che in effetti era nudo e ce l’aveva
pure piccolo.
(3) Mi si storce il muso perché do affidamento all’indagine dell’Istituto
Cattaneo, quando è da anni che i sondaggi pisciano alla grande. Qui temo che il
muso si storca a torto, perché una cosa sono le analisi del voto fatte prima che
gli elettori entrino nel seggio, un’altra quelle fatte dopo. A maggior ragione,
quando un risultato oggettivamente rilevante, e all’apparenza ancor più
rilevante di quanto sia in realtà, potrebbe indurre gli intervistati a risposte
assai più infedeli per il noto effetto bandwagon, che ai piani alti della
politica trova analogo nell’osceno assalto al carro del vincitore cui
assistiamo in questi giorni.
[segue]
giovedì 29 maggio 2014
La bolla
Il
risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore
ridimensionamento nell’analisi dei flussi elettorali elaborata dall’Istituto
Cattaneo: «Il primo flusso di voti dominante è quello da Scelta civica al Pd.
Assistiamo a uno svuotamento dell’area della coalizione che faceva capo a Mario
Monti nel 2013, a quasi totale favore del Pd. […] Il secondo flusso altrettanto
chiaro ed evidente è quello che conduce voti dal M5S all’astensione. […] Il
terzo flusso è quello che porta voti dal Pdl all’astensione. […] Su due ulteriori punti concentriamo la nostra
attenzione. Ci chiediamo cioè se non ci siano stati flussi di voto importanti
da Pdl a Pd (s’è parlato a lungo dell’appeal dello stile “berlusconiano” di
Renzi verso elettori “forzisti”) e dal M5s verso il Pd (anche in questo caso
s’è ipotizzato un “ritorno a casa” di elettori già Pd, incantati un anno fa
dalla sirena grillina, oggi da Grillo delusi). Questi flussi nei nostri dati
quasi non esistono. […] Da dove ha preso i voti il vincitore di queste
elezioni? […] La forza del Pd sta nell’aver saputo mantenere i propri consensi
precedenti senza perderli sulla strada dell’astensione. La seconda componente
per rilevanza del voto al Pd è quella […] proveniente da Scelta civica. C’è poi
una terza componente, che […] si presenta come minoritaria, proveniente dal M5S.
Il contributo di elettori provenienti dal Pdl è infine del tutto trascurabile.
[…] Verso chi hanno perso i voti i due sconfitti, e cioè il Pdl e il M5S? […]
Per quel che riguarda il M5S, […] pesanti perdite verso l’astensione. […] Quanto
al Pdl, le perdite verso il non voto sono state ancor più pesanti. […] Per
concludere. Ancora una volta gli attraversamenti del confine sinistra-destra
sono stati modesti. Il successo di Renzi si è costruito sulla tenuta
dell’elettorato Pd nei confronti dell’astensione, sulla conquista del bacino di
Scelta civica, sul cedimento di elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] In
una elezione politica, nella quale l’astensione giocasse un ruolo meno
importante rispetto a quello naturalmente avuto in una elezione “di secondo
ordine”, è possibile che non pochi elettori ora astensionisti possano rientrare
nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia che del M5S».
È un
ridimensionamento di tipo qualitativo, perché riduce a bolla, molto
probabilmente effimera, quello che si sta celebrando come
«terremoto politico»,
«evento» dopo il quale «nulla
sarà più come prima». «Evento» che, d’altronde, rivela tutta la sua aleatorietà
in quel ridimensionamento di tipo quantitativo che fin da subito era già tutto nei numeri, a volerli leggere: al Pd, infatti, stavolta sono andati 11.172.861 voti, meno dei 12.095.306 del 2008, meno degli 11.930.983 del 2006, e meno pure della
somma dei voti andati ai Ds e alla Margherita nel 2001 (6.151.154 + 5.391.827) e di quelli che nel 1994 andarono al Pds e al Pp (7.881.646 + 4.287.172). Fatta
eccezione per le Politiche del 2013 (8.646.034) e per le Europee del 2009 (7.999.476),
insomma, il Pd non ha mai preso meno voti di quanti ne ha presi il 25 maggio 2014.
Un risultato mediocre che l’astensionismo ha gonfiato a dismisura e che ora solo la rincorsa al carro del vincitore, l’inguaribile conformismo nostrano, impedisce di considerare nelle reali dimensioni.
Un risultato mediocre che l’astensionismo ha gonfiato a dismisura e che ora solo la rincorsa al carro del vincitore, l’inguaribile conformismo nostrano, impedisce di considerare nelle reali dimensioni.
martedì 27 maggio 2014
[…]
Ho
scritto che maramaldeggiare è lemma infedele, perché, com’è per tanta antonomastica,
tradisce il portato («didascalizza la qualità che intende far viva con
l’esemplarità del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e
morale, e quella delle sfumature che la rendono umana») e, nel caso di Fabrizio
Maramaldo, anche il portante («pare che la storiella messa in giro da Paolo
Giovio non trovi alcuna conferma sul piano storico»), ma, concedendo che «ciò
che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a
distanza», non ne ho suggerito uno alternativo per quell’«infierire vilmente sullo
sconfitto» – così per la gran parte dei lemmari – che ci sembra turpe anche
quando si scagiona col darsi come giusta «punizione di chi ha commesso una
turpitudine» (Malvino, 28.11.2013). Se oggi torno sull’argomento è per cercare
di individuare i connotati di ciò che nell’«infierire vilmente sullo sconfitto» cerca di
darsi come ius per farcelo sembrare iustum, e per farlo mi servirò dell’editoriale
che Giuliano Ferrara ha dedicato al deludente risultato elettorale del M5S (Il
Foglio, 26.5.2014).
In via preliminare occorre sottolineare che a «infierire vilmente sullo sconfitto», qui, non è
chi possa dirsi propriamente vincitore:
parliamo, infatti, del tizio che per vent’anni ha retto lo strascico a chi da
questa tornata elettorale esce con le ossa rotte almeno quanto Beppe Grillo, quel Silvio Berlusconi che per Giuliano Ferrara ha incarnato, finché ha potuto, tutte le virtù
del potere come esercizio di regalità; parliamo, tuttavia, anche del tizio per
il quale questo tipo di potere non si estingue nella carne che di volta in
volta veste, ma passa, inalterato per forma e misura, dal potente del momento a
quello del momento che segue, secondo una progressione dinastica che a ragione
sembrerà atipica per la discontinuità del casato, ma che in realtà trova il suo
continuum in una linea sulla quale Togliatti, Craxi, Berlusconi e Ratzinger possono ben essere colti come segmenti articolati.
Ma
cosa torna a giusta punizione di un Beppe Grillo? Dove trova fondamento lo ius
che fa iustum il maramaldeggiarlo? È presto detto: «Se Dio vuole la politica democratica
è un mondo di corruzione, di decadenza, di mitezza sfuggente e di pratica della
mediocrità che non prevede pulsioni visionarie di quella fatta. Un’alleanza dei
fattori di stabilità e di vita avrà ragione, com’è civilmente naturale,
dell’odiosa esibizione, e scaltra, di purezza moralizzatrice e di futuro da
acchiappare con gli artigli. Così in poco tempo il passato, l’andazzo, la
tradizione, il buonsenso…». Può bastarci, abbiamo inteso, e basterà correlare i
termini che Giuliano Ferrara erige a pilastri della vita – almeno della vita
com’egli la intende – perché sia chiara la colpa di cui Beppe Grillo s’è
macchiato, pagandone il prezzo dovuto: ha osato mettere in discussione un passato di
corruzione, il naturale andazzo d’una normale decadenza, quella tradizione di
mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che in fondo è solo sano
buonsenso, quel regale tollerare «il gioioso legno storto di una comune umanità» che alla bisogna può tornarci comodo come randello sul groppone di chi si
azzarda a contestare la legittimità del re. Potrebbe dirsi la carezza del cardinale Ruffo alla sua cagna sanfedista.
lunedì 26 maggio 2014
Le dimensioni del trionfo di Matteo Renzi (e altro)
Riprendo
da dove terminava il post qui sotto con un grafico che dà misura di quanto sia
realmente consistente il 40,8% del 57,2%: al netto dell’ubriacatura di chi vi
troneggia in cima, non supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto.
Da lassù si ha pieno diritto di guardare in basso con soddisfazione, è ovvio, perché
chi diserta le urne rinuncia a darsi rappresentanza, ma con ciò la massa degli
astenuti non scompare, né perde rappresentazione, che giocoforza è inintelligibile
nei tratti, ragionevolmente da ritenere contraddittori: perde forma, ma non
mole. In questo caso, ha toccato il 42,8%, che fanno circa 20 punti percentuale
in più di quanto è andato al Pd, con una mole pari a circa 21 milioni di aventi
diritto al voto, poco meno della somma degli elettori che hanno votato Pd (11.203.231),
M5S (5.807.362) e Fi (4.614.364).
Per chi considera l’astensionismo un segno di
malessere sociale, può esserci consolazione nel constatare che l’Italia resta,
come è sempre stata, tra i paesi europei che conta una delle più alte affluenze
al voto, ma è un confortarsi che deve fare i conti col fatto che nel raffronto
con le precedenti Europee del 2009, quando gli aventi diritto al voto erano 49
milioni, come lo erano stavolta, la percentuale di astenuti aumenta di oltre 7
punti (3,5 milioni di votanti in meno). E tuttavia il dato merita l’attenzione
anche da parte di chi non voglia considerarlo come indicatore di un disagio, ma
come il segno di un progressivo adeguamento dell’elettorato italiano alle
consuetudini elettorali di paesi in cui da sempre l’astensionismo è ben oltre
il 50%: pur concedendolo, la progressione mostra una flessione mal compatibile
con un processo fisiologico bilanciato da altri fattori.
È il non tenere conto
di questi elementi che gonfia a dismisura il risultato indubbiamente positivo
del Pd, oscurando la solare evidenza che in assoluto e in percentuale l’avanzata
più rilevante è quella degli astenuti, che non fanno un partito, com’è nel
pigro lessico giornalistico di quando il dato non è oscurato, ma mole sì, e
mole di umori, se non di ragioni, che s’aprono a ventaglio dal più strafottente
dei qualunquismi alla più argomentata sfiducia nel metodo democratico.
Se è
possibile un minimo di accordo su quanto fin qui detto, non dovrebbe essere
difficile trovare insieme la via d’uscita dall’asfittico scenario in cui si
muovono le analisi a caldo sui risultati di queste Europee. Analisi che tengono
conto solo dei cambiamenti, pur notevoli, che in seguito ai risultati
conseguiti dai partiti si vanno già chiaramente profilando per dare nuovo
assetto al quadro politico e istituzionale. Anche condivisibili, dunque, ma che
sembrano non tenere in alcun conto che nella società nessuna massa è
interamente inerte, neppure quando sembra abbia deciso d’esserlo
irrevocabilmente: se non prende voce attraverso i rappresentanti che una pur
ampia e variegata offerta le mette a disposizione, non per questo tace. Anche
quando silenziosamente dispera o silenziosamente cova rabbia, lasciando il
campo a chi nella speranza e nella pacatezza cerca, e perfino trova, l’ultima
spiaggia del comune naufragio – anche quando le dettagliate indagini sui flussi
elettorali ce la ridanno come ciò che è andato perso nell’incrocio di traslochi
che spostano consenso da una casa all’altra – una massa di oltre 20 milioni di
individui, prima o poi, trova modo di farsi sentire. E più tardi lo trova, meno
è bello.
Sullo scena
nella quale si muovono gli attori scelti dal 57,2% degli italiani che sono
andati a votare grava un fantasma che ancora non ha trovato corpo, faccia e
nome. Le millanterie meno colpevoli che hanno cercato di esorcizzarlo nel corso
della campagna elettorale sono destinate ad avere ancora corso corrente di là
dal valore che hanno acquistato o perso a scrutinio completato: intendo dire
che mostreranno forza diversa rispetto a prima, ma non potranno che conservare
il segno. Matteo Renzi non potrà far altro che sbattere le alucce sotto il
bicchiere, dando a vedere un formidabile attivismo che sarà lo stesso correre
da fermo che fin qui l’ha fatto sudare. Non è escluso faccia qualche passetto,
il necessario per illudere se stesso e la platea che è ennesima reincarnazione
di quel decisionismo che gli italiani implorano e deplorano, nello stesso
tempo. Beppe Grillo cercava di farci intendere che raffrenava l’irrefrenabile
smania di assalto al Palazzo incanalandola in un progetto di società dai sogni
dorati e dalle aspettative sobrie: dinamo e accumulatore, nei proclami, ma il messaggio
subliminale lo dipingeva come un parafulmine. Non è stato creduto o forse lo è
stato fin troppo, ma o torna a casa, come aveva promesso, o non potrà far altro
che cambiare scatola al prodotto, sempre lo stesso. In quanto a Silvio
Berlusconi, gli ossimori del moderatismo eversivo e del fancazzismo demiurgico
gli si sono rotti in mano, non hanno più nulla della contraddizione che muove
le cose dal di dentro e fanno solo diagnosi di stato confusionale. E tuttavia
conserva forze da mettere sul tavolo.
Non riuscire a vedere come queste tre vie
obbligate non siano altro che i tre lati dell’incavo in cui defluirà la frana,
più che stupirci, dovrebbe deprimerci. Metti caso che dall’abbatterci dovesse
sortire finalmente la presa d’atto che Renzi, Grillo e Berlusconi altro non
sono che tratti della stessa caricatura – e in essa potessimo riconoscere la
tanto vantata peculiarità italiana – e finalmente liberarcene – vabbe’, come
non detto, ci resta sempre lo stramaledire i tedeschi.
I 38 milioni di italiani che non hanno votato Pd
Alle
Politiche del 2013, gli aventi diritto al voto erano circa 47 milioni. L’affluenza
alle urne fu del 75,2% (gli astenuti furono poco più di 11 milioni) e il Pd
raccolse 8.646.034 voti (25,4%). Prendo in considerazione i dati relativi alla
Camera, che sono quelli più congruamente rapportabili all’elettorato che nel
2014 è stato chiamato alle Europee, dove gli aventi diritto al voto erano poco più
di 49 milioni e si è registrata un’astensione intorno al 42%. Superfluo
sottolineare che ogni correlazione tra le due competizioni risulti pesantemente
inficiata, nelle conclusioni che sembrerebbe offrirci, dalle marcate differenze date
dalla diversa posta in gioco (lì i seggi di un parlamento nazionale, qui la
quota di rappresentanti italiani in un parlamento sovranazionale), dal modo in
cui i partiti si sono presentati all’elettorato (lì erano possibili coalizioni,
qui ogni partito era in lizza contro tutti gli altri) e dal sistema elettorale vigente (lì il premio di maggioranza del Porcellum, qui un proporzionale con soglia di
sbarramento al 4%), ma a quanto pare è proprio l’aleatorietà dei raffronti in
termini percentuali che segnerà la vita politica italiana nei prossimi mesi. Se
questo è inevitabile, e per molti versi anche giusto tenuto conto dei pessimi
risultati ottenuti dal M5S, da FI e dal NCD, quello che corre il rischio di
distorcere la realtà dei fatti, sovradimensionando in modo spropositato il peso
del Pd, è il sottacere un dato che le percentuali sembrano fatte apposta per
oscurare: nel 2014 il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti
persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che
diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni. Solo un occhio
miope può lasciarsi ingannare da quel 40% e più che oggi va al Pd di Matteo Renzi,
per definirlo il più ampio consenso mai ottenuto dal partito: nei fatti, lo zoccolo
duro dei cattocomunisti si è rifatto la zeppa, ma di cartone, e il prezzo è stato pure alto, perché il doversi
affidare a un vero e proprio mutante della sua storia e della sua tradizione culturale, perfino
della sua – come si dice – antropologia, nel tentativo di riuscire finalmente a
vincere, ne ha già minato irrimediabilmente il corpo. È più che ovvio che tutto questo sia destinato ad essere rimosso nei
bagordi del trionfo, e oltre. Ma peserà, e il peso diventerà insostenibile quando
i 38 milioni di italiani che non hanno votato il Pd di Matteo Renzi si daranno
un riassetto.
domenica 25 maggio 2014
«Giudaica perfidia»
Non
ho ancora letto «Giudaica perfidia»
di Daniele Menozzi (Il Mulino 2014), provvederò al più presto, e tuttavia,
dando per certo che la recensione di Sergio Luzzatto (La radice dell’antisemitismo – Domenica
de Il Sole-24 Ore, 25.5.2014) dia
fedele esposizione di quanto vi è contenuto, non riesco a trattenermi dal
sollevare obiezione a quella che pare essere una delle tesi che il lavoro tenta
di accreditare.
Prima di passare a esporla, però, vorrei aprire un inciso sull’espressione
che ho usato poc’anzi – «fedele esposizione» – e chiedere al mio lettore di
cercare ogni possibile locuzione alternativa ad essa. Fatto? Bene, per «fedele»
avete trovato altro che «onesto», «leale», «sincero», ecc.? Sono certo che non
siete riusciti ad andare oltre tali sinonimi, e che comunque tutti avete
cercato tra quelli relativi a «fedeltà», intesa come «correttezza», «attendibilità», «esattezza», ecc., piuttosto che tra quelli relativi a «fede»,
nelle accezioni che la connotano come virtù teologale del cristiano. È questo,
infatti, uno di quei casi in cui si rende manifesta l’erosione di senso che fin
dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo ha prodotto a danno di quei termini,
per lo più greci o latini, che gli è tornato utile parassitare: con «fedele» il
parassitamento non è riuscito a impossessarsi interamente del termine, ed ecco,
allora, che l’aggettivo non smette del tutto di rievocare la dea Fides, che
fece la sua comparsa nel Pantheon romano più di trecento anni prima che
nascesse Cristo, per andare a personificare la sacralità della parola data come
fondamento dell’ordine sociale (cfr. Mario Pani e Elisabetta Todisco, Società e
istituzioni di Roma antica, Carocci 2005). Bisogna aspettare il IV secolo dell’era
volgare perché «fides» cominci a significare «credo» e perché per «fidelis» si cominci a intendere «credente»,
ma anche allora «fidus» non smetterà di significare «onesto», «leale»,
«sincero», ecc., come fin lì d’altronde era sempre stato.
Il perché di questo
inciso è presto spiegato: Daniele Minozzi sembra far sue le conclusioni degli
studi condotti intorno alla metà degli anni Trenta dello scorso secolo da Erik
Peterson, «un oscuro professore di teologia» che «muovendo da un’ampia raccolta
di testi antichi e medievali» arrivò a sostenere che «l’aggettivo latino
perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell’accezione
di perfido, mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell’accezione di infedele».
Tesi che senza dubbio fu fatta propria da Jacques Maritain, il quale senza
dubbio riuscì a convincere Pio XII, prima, e Paolo VI, poi, lungo il faticoso
itinere che portò a una traduzione del Messale del Venerdì Santo di Pio V nella
quale gli ebrei non fossero più dichiarati «perfidi», ma «increduli» (cfr.
Andrea Nicolotti, Erik Peterson, Libreria Editrice Vaticana 2012), e che
tuttavia è tesi palesemente infondata, come fu ampiamente argomentato da chi
scrisse che di «lodevole» in essa vi fosse «solo la buona intenzione» (cfr.
Bernhard Blumenkranz, Perfidia, Archivium Latinitatis Medii Aevi 22/2-1952):
com’era possibile dare a «perfidi» un significato diverso da quello che papa
Gelasio
(cfr. Gelasio, Deprecatio,
10), di poco posteriore alla primigenia tradizione scritta dell’«oremus et pro
perfidis judaeis», allegava alla «judaica falsitas» nel solco di una tradizione che risaliva alle Omelie contro i giudei di San Giovanni Crisostomo? La perfidia judaeorum è da subito, e sarà sempre, per oltre quindici secoli, non già
l’incredulità riguardo al fatto che Cristo sia il figlio di Dio e il Messia, ma il vizio morale che li condanna ad essere inaffidabili e sleali, dunque socialmente pericolosi.
Ciò detto, dunque, il libro di
Daniele Menozzi trova incidente fin dal sottotitolo, che è Uno stereotipo
antisemita tra liturgia e storia, e prim’ancora di leggerlo mi costringe a storcere il
muso: non è affatto uno stereotipo che la radice dell’antigiudaismo sia
cristiana e, se l’intenzione di Erik Peterson può benevolmente essere considerata
benevola, resta di fatto che il suo lavoro sia un falso storiografico. Accreditarlo
come attendibile è un ulteriore oltraggio alla dea Fides, in favore della «fede»
che piega l’evidenza a un interesse di parte.
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