giovedì 11 settembre 2014

[...]


Abituati a vederli litigare sempre, è bello vedere che una volta tanto Ferrara e Travaglio siano d’accordo almeno su una cosa, e che il caso voglia lo scrivano in sincrono, lo stesso giorno, con varietà d’accento quasi impercettibile, perché di Berlusconi uno scrive che Renzi sia l’«erede», l’altro il «pupillo», ma sbagliano entrambi. È che il Berlusconi dei bei tempi andati – per opposte ragioni, è ovvio – manca molto a entrambi. Per meglio dire, manca molto ai loro lettori, ed entrambi, da seri mestieranti, dei loro lettori si sforzano d’essere al meglio l’anima e la voce. Probabilmente, poi, sapranno pure non sia affatto vero, o almeno lo intuiranno, ma per oggi i loro aficionados potranno consolarsi d’aver trovato in pagina la suggestione di una continuità come di vertebra che segue a vertebra lungo il groppone della stessa bestia. In fondo sono giornalisti, di più non si può pretendere.
Cazzate, Renzi sta a Berlusconi come la silifide sta alla blenorragia. Le trovi nello stesso posto, analoghe le cause che ne hanno favorito l’insorgenza, su entrambe hanno lo stesso effetto i derivati della penicillina, ma l’agente patogeno è diverso, e diverso è il meccanismo l’azione, diverse le possibili complicanze sul medio e sul lungo periodo, diversi gli esiti. E la sifilide è senza dubbio peggio. 

Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia, Bompiani 2014


A dispetto del titolo, questa non è una recensione. Il libro di Pietrangelo Buttafuoco mi offre solo l’occasione per vergare a matita, a margine del brano riprodotto qui sopra (si tratta di ciò che scrisse Basilio Puoti nel 1838), «difficilissimo, ma possibile»


mercoledì 10 settembre 2014

E tuttavia ogni tanto un troglodita...

Perché ad affermarlo è persona autorevole, perché è opinione largamente accreditata, perché si è sempre fatto così, perché a fare diversamente c’è da temere gravi conseguenze, perché a consentirlo si aprirebbe la strada a ben peggio… Oppure – tutto in uno – perché non ho argomenti validi. Però dalla mia ho le ragioni del senso comune, che sono persuasive con la forza che rigetta ogni obiezione come diabolica o perversa, e te le sbatto in faccia come leggi di Dio o della Natura, che poi tutto sommato è lo stesso.
Più o meno è questo il profilo retorico del conservatore. Difficile trovarne uno che si attardi troppo fuori dal contorno: quando capita, è di poco, e per poco, perché subito vi rientra. Lì fuori c’è la logica argomentativa, c’è il rischio di rompersi le ossa. Parliamo di fecondazione assistita? E che differenza c’è tra un bambino concepito secondo Natura e uno contro Natura? Che differenza c’è tra il desiderio di avere un figlio, e averlo come Dio comanda, e lo stesso desiderio se frustrato da Dio e soddisfatto come a Dio non piace? Che differenza c’è tra l’essere padre biologico e padre adottivo al netto del comportarsi da padre? Che differenza c’è tra avere un padre e una madre o due genitori dello stesso sesso?
Meglio tenersi lontano da questioni tanto insidiose, si potrebbe correre il rischio di dover ammettere che un bambino è un bambino quale sia il modo in cui è stato concepito, che la riproduzione sessuata è solo un mezzo e non un fine, che non c’è lo straccio di uno studio scientifico serio che segnali differenze nello sviluppo psicologico di un bambino allevato in una famiglia omoparentale rispetto a uno che è cresciuto in una famiglia tradizionale. Sarebbe imbarazzante, meglio andare sul sicuro. La Chiesa, che è istituzione saggia e illuminata, è contraria. La gente non è ancora preparata, sarebbe come toglierle certezze da sotto il culo. Diagnosi preimpianto, ma poi non è che torna Hitler? E l’eterologa non legalizza di fatto le corna? Sillogismi da trogloditi, ma incisivi. E tuttavia ogni tanto un troglodita s’azzarda a metter naso fuori dalla sua comoda caverna di fallacie e ci prova…
«Va garantito – scrive Marco Politi (Il Fatto Quotidiano, 10.9.2014) – il diritto preminente del concepito di sapere sempre “da dove è nato”. Far dipendere questo diritto primario dal “mercato”, cioè dall’andamento della domanda e dell’offerta delle donazioni di gameti (tolto l’anonimato, si dice, diminuiscono i donatori) appare semplicemente impensabile dal punto di vista dei diritti umani». E come lo garantisci, grandissima testa di cazzo, a quel 10-15% di bambini il cui Dna paterno non appartiene a quello che la mamma ha sempre assicurato loro essere il babbo? Fai uno screening di massa e torturi tutte le mamme che abbiano concepito con un altro uomo quei poveri bambini a quali s’è negato questo diritto umano perché rilevino chi sia il vero padre biologico? 

martedì 9 settembre 2014

[...]

Sarà la magistratura a chiarire cosa sia realmente accaduto a Rione Traiano, ma fin d’ora un fatto è certo: quello sul petto del cadavere è un foro d’entrata. Questo smentisce chi ha dichiarato fosse sul posto quando il proiettile è partito dall’arma, affermando che la vittima volgesse le spalle a chi ha sparato. Si tratta del giovane che s’è spontaneamente presentato alle telecamere del Tg2 per dire fosse lui il terzo uomo in sella al motociclo cui i carabinieri avevano intimato l’alt, non il latitante di cui questi erano sulle tracce. È evidente che quanto ha detto non trova riscontro, e questo solleva più d’un dubbio sulla sua versione dei fatti.
Era davvero in sella a quel motociclo, insieme alla vittima e al pregiudicato che di lì a poco sarebbe stato arrestato? Può darsi, ma ha detto anche di essere subito scappato via quando la gazzella dei carabinieri è finalmente riuscita a interrompere la loro fuga, sicché è molto probabile non fosse nelle immediate vicinanze della scena sulla quale andava consumandosi il tragico evento: e allora perché inventarsi di sana pianta un dettaglio tutto sommato irrilevante al fine di addossare l’intenzionalità del gesto al carabiniere che ha sparato, e comunque smentibile in fase peritale?
Domanda che si pone anche nel caso fosse in prossimità del luogo in cui sono accaduti i fatti, anche se non su quel motociclo, sul quale dunque è assai probabile ci fosse davvero il latitante poi resosi irreperibile. Sostituirsi a lui alleggerirebbe di poco la sua posizione nei confronti della giustizia, ma appesantirebbe quella del carabiniere dalla cui arma è partito il colpo: alla intenzionalità di uccidere, che a Rione Traiano già pare essere prova provata, si aggiungerebbe l’errore di persona, che renderebbe due volte colpevole chi ha sparato.
La più inquietante delle possibilità, tuttavia, è la terza, cioè che fosse altrove, e qui sulle ragioni che l’avrebbero spinto a dichiarare il falso s’aprirebbe un ricco ventaglio di ipotesi, ma tutte avrebbero in comune con le altre due l’intento di caricare di infamia una volontarietà dell’omicidio, che peraltro è tutta da dimostrare. Intento che in tutti e tre i casi, però, rivela l’ostilità già più volte dimostrata nei confronti delle forze dell’ordine a Rione Traiano.
Come rappresentanti di quello Stato al quale è fin troppo comodo addebitare più colpe di quante ne abbia, per liberarsi delle proprie? Come il solo e in ogni caso inefficace presidio contro la delinquenza organizzata che su quel territorio esercita un potere pressoché incontrastato? C’è da presumere si tratti di entrambe le cose, di fatto contro la delinquenza che spadroneggia in quel quartiere non s’è mai vista neanche l’ombra dell’indignazione sollevatasi in questi giorni.     

lunedì 8 settembre 2014

«L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo»

Il principio teocratico ha un tratto comune nei monoteismi: chi detiene il potere è venerabile quanto non altri, ma della sovranità di Dio è soltanto lo strumento. Non così nel buddhismo, che d’altronde è «religione senza Dio», e per il quale, dunque, anche parlare di teocrazia è formalmente improprio: non è l’incarnazione di un Dio, certo, ma il Dalai Lama non è neppure semplicemente massima autorità spirituale e massima autorità politica insieme, perché il suo corpo è il medium attraverso il quale è lo stesso Buddha a rivelarsi. Con tutte le riserve d’obbligo in un raffronto che già in premessa è fortemente asimmetrico, potremmo concludere che la teocrazia ebraica, quella cristiana e quella islamica siano forme di governo che affidano al sovrano il ruolo di ponte tra immanenza e trascendenza, che in quella del buddhismo tibetano, invece, trovano coincidenza nello stesso Essere che migra di corpo in corpo, e di epoca in epoca. Potrà sembrare differenza di poco conto, ma non lo è. Nei monoteismi, infatti, il teocrate è mera variabile del modo in cui Dio dichiara la sua sovranità. Al contrario, quando il buddhismo si dà in forma teocratica – è questo il caso del buddhismo tibetano – il teocrate è insieme Kundun e Kyabgon, presenza e salvezza. La sostanza di questa differenza sta nella portata dell’asse dinastico, che attraverso il Dalai Lama non si limita a trasmettere un rapporto privilegiato con Dio come avviene lungo il succedersi di patriarchi, papi e califfi, ma esprime una continuità dello stesso Bodhisattva, l’Essere che illumina, guida e salva. Differenza che si esalta nel momento in cui la forma teocratica vien meno: mentre nei monoteismi la sovranità di Dio sul mondo è solo costretta a esprimersi in modo più indiretto (privata del potere temporale, l’autorità spirituale continua ad ispirare la norma mondana), nel buddhismo tibetano il mondo viene ad essere privato della stessa fonte di sovranità del trascendente sull’immanente.
È lettura scorretta di cosa implichi l’annunciata rinuncia del 14° Dalai Lama a reincarnarsi nel 15°? Può darsi, infatti anche metterla in questo modo – dire che annuncia l’interruzione della linea dinastica – può darsi sia scorretto. Ma poi può davvero deciderlo? Voglio dire: la dimensione immanente che muove a tale decisione – perché, vedremo, la sua è una decisione che prende le mosse da elementi di natura tutta contingente – può condizionare quella trascendente, che la informa, al punto da modificarne la natura? Anche qui può darsi che a sollevare la questione sia il non essere all’interno di quell’universo religioso e culturale, ma – proprio perciò, dico – Tenzin Gyatso non avrebbe il dovere di spiegare meglio a chi ne è fuori, e contestualmente al suo annuncio, come sia possibile sul piano dottrinario che lo sguardo compassionevole del Buddha si ritragga dal mondo?
Niente di tutto questo. L’intervista rilasciata a Die Welt non dà ragguagli a proposito. «L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo», dice, con ciò lasciando intendere che, quando Altan Khan la istituì, nel 1578, Sonam Gyatso non aveva alcun potere di dichiararsi 3° Dalai Lama, investendo della carica i suoi due predecessori. «Così finiscono anche quasi cinque secoli di tradizione Dalai Lama», dice, e in questo modo dà da intendere che Gendun Drup (1391-1474) e Gendun Gyatso (1475-1543) non fossero davvero il 1° e 2° Dalai Lama: in pratica, l’istituzione non veniva a riconoscere una realtà di fatto, ma di fatto la creava, alla faccia del primato del trascendente sull’immanente. Tutto normale per chi pensa che anche il buddhismo, al pari di ogni religione, sia una sovrastruttura, ma qui a dirlo è chi, fin quando è stato sovrano in Tibet e poi sovrano dei tibetani in esilio, vestiva la prerogativa come 14° reincarnazione del Cenresig Wangchug. E dire, oggi, che «il buddismo tibetano non dipende da un solo individuo» e che tutto sommato di un Dalai Lama i tibetani possono fare a meno, perché «abbiamo una buona organizzazione della quale fanno parte monaci e studiosi altamente qualificati», non è un delegittimare l’istituzione, sottraendogli la sua dichiarata natura trascendente? E da cosa mai gli viene il potere di non reincarnarsi in un successore se la progressione di cui non è che un segmento in lui può trovare solo, giocoforza, l’occasione immanente? Sbagliarono a considerarlo reincarnazione di Thubten Gyatso, 13° Dalai Lama, o il Buddha della Compassione è reale quanto Cappuccetto Rosso?


Postilla
Come sempre, quando la fede è forte, torna spassoso saggiare quanto le ritorna. Qui, a campione, un buddhista coi controglioni (da His Holiness the Dalai Lama di Deborah Hart Strober e Gerard S. Strober, in ital. presso Armenia, 2006 - pag. 203).



domenica 7 settembre 2014

[...]

«Avant de mourir, je vais protester contre cette invention
de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs
de s’attacher à déstruire mes observations
et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies»

Lettera a Luigi de Sinner, 24 maggio 1832



Un giorno – siamo ai primi dell’Ottocento – ad Antonio Fortunato Stella, «stampatore in Milano», viene l’idea di dare alle stampe un’edizione dell’opera omnia di Cicerone che abbia apparato critico da renderla imperitura e affida a Niccolò Tommaseo il compito di stendere le note per le Orazioni. Quando gli viene consegnato il lavoro, ha qualche dubbio sulla tesi che serpeggia in esso – Cicerone sarebbe retore scarsuccio e pessimo avvocato – sicché manda il manoscritto a Giacomo Leopardi perché gli esprima un parere, ma senza dirgli chi ne sia l’autore, per discrezione. Leopardi lo legge e scrive a Stella che è robaccia, zeppa di madornali errori che rivelano gravi lacune nella conoscenza del latino. Qui la discrezione di Stella accusa un inspiegabile cedimento: fa leggere la lettera ad alcuni letterati, che si dicono d’accordo con le osservazioni di Leopardi, e allo stesso Tommaseo, che comprensibilmente non la prende affatto bene. Potrà vendicarsi solo molti anni dopo, quando ormai ha acquistato fama e prestigio: i circoli culturali di tutta la penisola fanno propria la sua tesi che il pensiero di Leopardi trovi ragione solo nel fatto che è basso, gobbo e malaticcio. Tesi che a 177 anni dalla morte di Leopardi riaffiora ancora, anche se raffinata in morbide insinuazioni, dalle pagine che ci danno notizia dell’edizione inglese dello Zibaldone o dell’uscita del film di Mario Martone. Il che spiega perché Tommaseo abbia potuto acquistare fama e prestigio: conosceva gli italiani, sapeva che avrebbero afferrato al volo la maldicenza per risparmiarsi la fatica di fare i conti con la vertiginosa profondità di Leopardi.
Non ha importanza chi riprenda, oggi, la maldicenza di Tommaseo: carte che ci arrivano come se non avessero un nome in calce, come il manoscritto che Stella inviò a Leopardi.

Stavolta hanno visto tutti


Si cercano telecamere che possano aver ripreso la scena della morte del diciassettenne del Rione Traiano, a Napoli. C’è da scommettere che non se ne troveranno. Tutte fuori uso, perché chi spaccia tiene alla privacy. Non si capisce, d’altra parte, perché si abbia bisogno di accertare i fatti con una prova video. Pare, infatti, che sul posto ci fossero testimoni oculari a dozzine. Alle tre di notte tutto il quartiere era lì, e tutti dicono di aver visto tutto, e lo dicono con straordinaria concordanza di sostantivi, aggettivi e verbi: non c’è dubbio, tutto è chiaro, la colpa è dei carabinieri.
Il caso è chiuso, via, e per stavolta tacciano quanti insinuano che i napoletani siano conniventi e complici della camorra perché non c’è mai uno che abbia visto niente, quando il morto è ammazzato in una via affollata e a mezzogiorno: stavolta hanno visto tutti, le indagini sono superflue, il processo è una formalità. Mettiamo il carabiniere che ha sparato a «marcire in carcere», come chiede la mamma del povero ragazzo, piangiamone l’ingrata sorte e leviamo alto lo sdegno per l’istinto assassino dell’Arma, che come vede tre tizi, di cui uno pregiudicato, in sella allo stesso motorino, privo di patentino ed assicurazione, e intima l’alt, e quelli non si fermano, spara, mirando con micidiale precisione agli organi vitali.
Uniamoci solidali ai parenti e agli amici della vittima, «bambino innocente», e almeno col pensiero, se distanti, bruciamo una gazzella dei carabinieri.

sabato 6 settembre 2014

venerdì 5 settembre 2014

Introduzione alla paleocoprologia

Una branca della paleontologia alla quale dobbiamo molto di ciò che oggi sappiamo su animali ormai estinti da decine di milioni di anni è quella che studia i loro coproliti, e cioè i fossili delle loro feci, straordinariamente ricchi di nozioni relative ai loro stili di vita: in primo luogo, come è ovvio, alle loro abitudini alimentari, e quindi, come è facilmente intuibile, all’ambiente in cui vivevano. Qui proveremo ad applicare il principio che dà dignità di disciplina a questa specializzazione, e cioè che l’attento studio di uno stronzone consenta di trarre preziose informazioni sulla bestia che l’ha cagato, studiando attentamente ciò che Francesco Agnoli scrive su Il Foglio di giovedì 4 settembre, nel tentativo di comprendere qualcosa in più di quel cattolicesimo che ormai da tempo sembra avviato all’estinzione.
Cominceremo col dire che il pezzo in questione, come tutti i fossili, ha una discreta consistenza. Non ha forma regolare, né struttura omogenea (il tema mostra vistose increspature, focali cedimenti, numerose disarticolazioni), e tuttavia è riconoscibile un movimento di torsione interna che in buona evidenza gli è impresso dal titolo (Il jihad dentro di noi) e prende sagoma dal sommario (Il disgusto della vita e la guerra purificatrice, due secolari vizi europei, prima che islamici).
Di cosa si sia cibato l’animale è evidente: «la modernità, respinto Dio, crea di continuo idoli e religioni surrogate», ed è perciò, che, «perso il contatto con ciò che è concreto, ciò che ci sta sotto i piedi, e accanto: la patria, la famiglia, la fede», «tanti giovani sono capaci di abbandonare ogni sogno (un lavoro, una casa, una famiglia)», e che fanno? Si convertono all’islam, corrono dal Califfo e si danno agli sgozzamenti: «gli occidentali, in particolare britannici, che partono per la guerra santa, e sgozzano infedeli in nome dell’islam, non sono anzitutto uomini infervorati dal Corano (che forse neppure conoscono bene), ma persone mosse dallo sdegno morale, la disaffezione, la noia, la ricerca di una nuova identità, il bisogno di un senso, di uno scopo, di una appartenenza».
In pratica, non li mandano al catechismo da bambini, non li spaventano dicendo loro che a farsi le pippe si diventa ciechi, non li cresimano, ed ecco che ti diventano atei, cioè pronti a farsi musulmani, «come dimostra, per esempio, la storia di Sally Jones, la donna inglese che prima di indossare il tradizionale vestito islamico e il velo, e prima di scrivere su Facebook che vorrebbe decapitare cristiani col suo coltello, vestiva minigonne di pelle, cantava rock, si occupava di magia nera e stregoneria, e gestiva, da sola, due figli, accogliendo uomini ad ogni ora».
Pronti a sgozzare, sennò a farsi saltare in aria da «martiri» (qui tra virgolette, com’è ovvio: i veri martiri sono solo cristiani), perché «nell’epoca in cui le emozioni e i desideri sostituiscono ogni valore, anche una morte particolare, originale, può avere il suo fascino».

Sarò riuscito almeno in parte a trasmettervi l’emozione che un paleocoprologo prova quando da un tocco di vile materia riesce a estrarre l’immagine d’un mondo estinto, quasi facendolo rivivere? Se di bocca, spontaneo, v’è uscito un «che cagata!», allora sì.  

[...]


Vero è che tra i significati di jihad vi sia anche quello di guerra santa, ma solo l’ignoranza o la malafede possono sussumerlo in una fattispecie concettuale che includa pure quello che gli storiografi occidentali hanno definito guerra di religione. Vero è d’altronde che i 20.000 o 30.000 uomini dell’Isis si dicono jihadisti, ma solo l’ignoranza o la malafede possono spacciarceli per movimento religioso, seppur armato, come d’altronde è naturale sia per chi dell’islam ha la stessa idea che hanno gli islamisti. In sostanza direi che solo l’ignoranza o la malafede possono concedere a questa banda di terroristi l’onore d’essere l’embrione di un’umma islamica, con ciò andando incontro alle loro aspettative. In altri termini direi che c’è solidità d’interesse tra Abu Bakr al-Baghdadi e Giuliano Ferrara: a entrambi torna comodo far credere che in Medio Oriente si stia giocando una fatale partita tra due mondi, ed entrambi contano di potercene convincere riempendo di robaccia tutta nuova le desuete ma romantiche categorie di orientalismo e di occidentalismo. Non credo che si saranno telefonati per concordare una strategia, ma poi neanche ce n’era bisogno, perché tra avventurieri, seppur di taglio e calibro dissimili, c’è un simpatetico che unisce anche quando i campi sono avversi. Anzi, direi di più: ogni avventura che veste di grandiosità storica i disperati e miserabili interessi di un disadattato alla modernità riverbera specularmente in suo analogo, che necessariamente è opposto. Così, mentre tra Iraq e Siria, al comando di un pugno d’uomini, un poveraccio si sente califfo di oltre un miliardo di musulmani, in Lungotevere Raffaello Sanzio, a capo di una dozzina di redattori, un altro poveraccio si sente comandante in campo dell’occidente cristiano. 

giovedì 4 settembre 2014

Tra gufo e allocco

Probabilmente Matteo Renzi sarà fatto a pezzi con la solita crudeltà che i disillusi riservano a chi li ha illusi, non già per vendicarsi dell’impostura di cui diranno d’esser stati fatti oggetto – quello sarà l’alibi per mettere a tacere la coscienza – ma per saldare i conti con la propria ingenuità o, peggio, con la malata coazione a cercare disperatamente un impostore, implorandolo di illuderli. Povero cazzaro, non è riuscito a reggere il bluff neanche per un anno, e fra quanti l’hanno salutato come Uomo della Provvidenza già comincia a serpeggiare il sospetto che sia buono solo a vender chiacchiere, come non fosse chiaro da subito. A chi non è mai piaciuto – e qui non se n’è mai fatto mistero – non resta che attendere, e pare non si debba neanche attender troppo per cogliere la differenza tra gufo e allocco.  

martedì 2 settembre 2014

[...]

Un falso storiografico che è diventato formula proverbiale, per lo più usata a mo’ di biasimo, è che la caduta di Bisanzio debba essere imputata in qualche misura a quanti, invece di difenderla dall’assedio dell’Ottomano, indugiassero in oziose discussioni sul sesso degli angeli. In realtà, quando la sua capitale fu espugnata dall’esercito di Maometto II, l’Impero Romano d’Oriente era già in pezzi da tempo, non aspettava che uno sputo per crollare, e poi sul sesso degli angeli non si è mai discusso per davvero, né a Bisanzio, né altrove, perché sul fatto che siano esseri incorporei c’è sempre stato accordo pressoché unanime nel mondo cristiano, e fin dal IV secolo. 
Tanto valga per chi fosse tentato dall’usare proprio un’ipotiposi così farlocca per rimproverarmi del fatto che qui perdo tempo a disquisire se internet sia sostantivo maschile o femminile, invece di produrmi in una vibrante difesa del povero Magdi Cristiano Allam o in una fiammeggiante invettiva contro quegli zoticoni dell’Isis. Avrei voluto farlo già da un pezzo, ma temevo che l’argomento fosse troppo frivolo coi tempi che corrono. Stavolta, invece, vado tranquillo, cogliendo l’occasione offertami da un post del Mantellini, anche se lì è in questione se internet voglia la maiuscola o no (pareri contrastanti, mentre «sul fatto che [internet] sia femminile [si dà per pacifico] ci siano pochi dubbi»). Nomi eccellenti tra i commenti: il Mozzi, il Quintarelli, il Tolardo, il Minotti… Insomma, mi son detto, chi potrà mai venirmi a rinfacciare che tratto un tema sul quale dibattono tutti sti Paleologi?
Bene, venendo al dunque, so di aver contro l’autorevole parere dell’Accademia della Crusca, che, «per la determinazione del genere degli anglismi che sono entrati in italiano senza adattamento, si può enunciare la seguente regola: sempre il maschile, a meno che non agisca un sostantivo femminile italiano soggiacente», sicché quest’eccezione varrebbe anche per internet, visto che -net sta per rete. Il problema, a mio modesto avviso, è che quell’inter- rende maschile il sostantivo, perché internet non è semplicemente net, ma il prodotto delle connessioni che vengono a crearsi in essa, per il suo tramite. Pare che a vederla in questo modo sia solo il Devoto-Oli, per il quale internet è sostantivo maschile, mentre per il Treccani, il De Mauro e il Garzanti è femminile…
Ma basta così, ché bussano alla porta e voglio andare a controllare se per caso non sia l’Ottomano. 

Segnalibro

lunedì 1 settembre 2014

«La foto ha qualcosa che non va»

Sono a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso e della possibilità che esse possano adottare dei bambini, dunque trovo irritante il manifesto di Fratelli d’Italia che recita: «Un bambino non è un capriccio. No alle adozioni per i gay. Difendiamo il diritto dei bambini ad avere un papà e una mamma». Irritante per il testo becero, ma soprattutto per la foto che l’accompagna. Si tratta di uno scatto di Oliviero Toscani, che ne lamenta il furto, minacciando di rivalersi per la violazione dei diritti di proprietà, il che è legittimo, ci penseranno i giudici a stabilire se merita d’essere risarcito, e in quale misura. Del tutto insensato, invece, mi pare quanto afferma annunciando la querela: «Quella foto è stata usata nel modo opposto per cui era stata fatta: erano foto redazionali per spiegare le varie possibilità di famiglia per un giornale francese» (lastampa.it, 31.8.2014). Giusto, si tratta di uno degli scatti pubblicati da Elle due anni fa a corredo di un servizio su La famille homoparentale, ma in sostanza cosa intendeva rappresentare, il manifesto di Fratelli d’Italia, se non quelle «possibilità di famiglia» – due gay e due lesbiche, nel caso della foto in questione – che a loro avviso non avrebbero diritto di adottare bambini? Diciamo piuttosto che quella foto si prestava proprio ad essere «usata nel modo opposto per cui era stata fatta», e diciamolo con le parole che un sito di «cultura pop in salsa lesbica» usò due anni fa, senza che Oliviero Toscani trovasse nulla da ridire: «La foto ha qualcosa che non va. Le luci sono molto scure. Hanno qualcosa di tetro, come se non bastasse lo sfondo grigio. Poi gli sguardi dei protagonisti. Mi sembrano tristi. Il ragazzo di sinistra ha l’aria di sfida e accenna un sorriso, mentre gli altri due sembrano rassegnati, fino ad arrivare alla ragazza di destra: sembra una di quelle foto contro la violenza sulle donne, nel senso che lei è una delle vittime. E il bambino, lì nel mezzo, pare crocifisso, conteso da una parte e dall’altra, con l’aria mesta, fa quasi pietà. Il problema è che non capisco se il signor Oliviero Toscani intendesse lanciare un messaggio a favore dei matrimoni gay, oppure no. Perché vista così, questa foto funzionerebbe molto più come spot contro. Voi dareste mai in adozione un bambino a persone che hanno quell’aria così cupa e triste? Beh, io ci penserei su» (lezpop.it, 30.11.2012). Descrizione della foto così puntuale dal sentirmi piacevolmente sollevato dal doverla riprodurre in pagina, sia nella versione pubblicata da Elle, sia in quella approntata da Fratelli d’Italia, tanto non farete fatica a trovarla o l’avrete già vista. Una foto francamente infelice, diciamo. Sarà l’averlo capito con due anni di ritardo che spiega perché a Oliviero Toscani non bastasse rivendicarne la proprietà, ma sentisse il bisogno di ritoccarla. Brutta com’è, impossibile.  

sabato 30 agosto 2014

Voglio due mamme


Twitto poco, per lo più d’istinto, e quasi sempre pentendomi subito di quello che ho twittato, perché in 140 battute spazi inclusi raramente si argomenta a dovere, e senza argomentare a dovere ogni scambio di opinioni scade inevitabilmente in battibecco, che spesso le livella, indebolendo quelle forti e irrobustendo quelle deboli. Così mi pare sia accaduto ieri.
In un confronto come si deve, ammesso e non concesso che con un @marioadinolfi ne valga la pena, avrei dovuto far presente che nessun «bimbo» era stato «obbligato ad avere due “mamme”». Innanzitutto, si trattava di una bimba. Questa precisazione, però, l’avrei lasciata in coda, sollevando una questione solo in apparenza marginale: quanto di proiettato c’è nel «bimbo» che un @marioadinolfi immagina «obbligato ad avere due “mamme”»? Per meglio dire: cos’è che autorizza chi trova insopportabile questa sentenza a mettersi nei panni del minore per dichiararsene insoddisfatto, anzi, per dirsene penalizzato, e pesantemente, giacché la soluzione sarebbe contro «natura»? Più esplicitamente ancora: non è un’indebita assunzione di paternità da parte di chi in ogni caso ne ha assai meno diritto rispetto a una delle due mamme, quella biologica non meno di chi si arroga il diritto di parlare in nome della «legge» e della «natura»?
Ma questo, dicevo, l’avrei detto solo alla fine. Sarei andato subito al testo della sentenza, nella quale si legge che la bimba «è nata e cresciuta con la ricorrente e la sua compagna, madre biologica della bimba, instaurando con loro un legame inscindibile che, a prescindere da qualsiasi “classificazione giuridica”, nulla ha di diverso rispetto a un vero e proprio vincolo genitoriale. Negare alla bambina i diritti e i vantaggi che derivano da questo rapporto costituirebbe certamente una scelta non corrispondente all’interesse della minore […] Non si tratta di concedere un diritto ex novo, creando una situazione prima inesistente, ma di garantire la copertura giuridica di una situazione di fatto già esistente da anni, nell’esclusivo interesse di una bambina che è da sempre cresciuta e stata allevata da due donne, che essa stessa riconosce come riferimenti affettivi primari, al punto tale da chiamare entrambe “mamma”». Né in oltraggio alla «legge», dunque, né contro «natura».
Ripensandoci, tuttavia, tutto questo si poteva sintetizzare in 140 battute spazi inclusi, chessò, «leggi il testo della sentenza, coglione», ma non sarebbe stato ancora più ellittico? No, è il mezzo che non va bene, è Twitter che non è adatto al fine. 

venerdì 29 agosto 2014

Il carretto passava e quell’uomo sparava cazzate


Rap


Probabilmente tra dieci anni riprenderò in mano questa Storia di Firenze di John M. Najemy e non mi sembrerà più il libro straordinario che oggi mi sembra, capirò che ero io a dargli modo di prendermi interamente, come sta facendo, ma che in fondo mi si offriva a pretesto per lenire l’infinita noia che mi infliggeva quello che scorreva sulle prime pagine dei quotidiani, nei titoli dei tg, sulle homepage degli uomini più chic e delle femmine più pittate del web, in quell’ormai lontano agosto del Quattordici. Probabilmente mi sembrerà pure un pretesto idiota e, ingrato del godimento che m’ha dato, mi permetterò pure di alzare un sopracciglio su quell’unico refuso tipografico a pag. 59 che oggi, nel cominciare a rileggerlo daccapo, mi sembra delizioso come un neo sulla schiena della tizia che ti chiede: «Ancora!». Insomma, sì, non escludo sia un bel libro e basta, fatto sta che in questi ultimi giorni mi è sembrata la sola cosa degna di attenzione, incantevole rifugio al tedio di robette ritrite. Non era avido, il capitale, nella Firenze degli Strozzi, dei Cerchi e dei Bardi? Non meno di quello delle odierne multinazionali, ma aveva la freschezza d’una violenza cieca quanto innocente, perfino il dono della grazia che hanno le fauci dei grandi felini. E non doveva avere i tratti fisiognomici del cazzaro, quel Buondelmonte de’ Buondelmonti che si sparava pose di riformista? Non è escluso, ma vuoi mettere la resistenza che la sua cotenna offrì al pugnale? Oggi i cazzari sono flaccidi, manco c’è sfizio a ficcargli un ferro in pancia, si è costretti a vederli annegare nel torrente dei loro hashtag. E si sgozzava, cazzo se si sgozzava, e della crudeltà non si faceva risparmio, anzi, e non mancavano manacce esperte sulla tastiera dell’arbitrio e del terrore – questo ha di meraviglioso, il Najemy, che foglia dopo foglia ti apre il mito come una cipolla, e del Rinascimento ti mostra il suo più genuino ghigno, tutto belluino – ma a una testa mozzata trasalivi, mica potevi uscirtene con la nevrastenia che è tutta pornografia, signora mia. Dio, che uomini. E qui, in questa merdaccia in cui tutti rovistano cercando la pepita d’oro di un Riumanesimo da venire, i più lucidi – che poi, a guardare bene, si tratta solo dei meno opachi – non sanno andare con la nostalgia più in là della Prima Repubblica. Macché, bisogna riandare almeno al 1294 – diciamo al 1296, toh, voglio essere generoso – per trovare un editoriale davvero intelligente, un post di quelli veramente acuti. 

martedì 26 agosto 2014

Zitti, state zitti!

Quando gli torna utile, il Vaticano è capace perfino di non mentire. Il massimo della perversione, diciamo. Momenti indimenticabili, non foss’altro per lo sgomento che allora semina fra quanti non sanno coglierne il motivo e restano spiazzati. Che cazzo, pensavano stessero dando una mano, poi arriva il Segretario di Stato e no, «non è uno scontro tra islam e cristianesimo», vederla a questo modo è «una semplificazione» (La Stampa, 25.8.2014). Robe che ai Socci, ai Galli della Loggia, ai Ferrara, agli Allam e agli Amicone non resta che l’imbarazzo della scelta tra un giramento di coglioni e una crisi di nervi, anche perché ’sto stronzone d’un Parolin mica sè limitato a romper loro le bolle di sapone, lo scontro di civiltà, la guerra di religione, il Logos contro la Spada, ma gli ha pure mandato a dire di starsene buonini, ché «non occorre sempre gridare per risolvere i problemi». Tradotto dal curiale: mettetevi la lingua in culo e fateci lavorare!
«Problemi», mica massacri. «Problemi» che a pomparli di retorica cè il rischio di trasformarli in guai davvero seri. Ok, quando sarà il momento li beatificheremo tutti, ’sti cristiani che stanno a mori’ in Iraq, ma oggi a farsi prendere dall’entusiasmo di dichiararli vittime di un jihad selettivamente cristianofobico o, peggio, pensare di organizzare una crociata per salvarli sarebbe un errore madornale. Con un cattolicesimo che è sempre più asiatico e africano, ci mancherebbe solo il far del papa il cappellano di un occidente neocolonialista. Basta pugnette sulla lectio di Ratisbona, imbecilli, ché ci rovinate la partita. Sapeste «quanti musulmani soffrono per questa situazione e sono solidali con i cristiani». Non sapete che «ci sono allinterno dellislam, e credo siano la maggioranza, persone che rifiutano metodi così brutali e antiumani»? E allora zitti, state zitti, e fateci lavorare!
Tempi duri per gli orfani di Ratzinger. Niente più guerre sante, di principi non negoziabili manco più a parlarne... Poi c’è da stupirsi se uno, che pure è nato allombra d’un campanile, d’un tratto ti diventa salafita?

lunedì 25 agosto 2014

Coda

Fin qui ho solo sfiorato la vicenda relativa al tweet nel quale Richard Dawkins ha definito «immorale» portare avanti una gravidanza con feto portatore di sindrome di Down quando sia possibile interromperla per tentare di averne un’altra con feto sano, l’ho fatto limitandomi a segnalare la scorrettezza di chi, per colorarlo della «brutalità» di cui evidentemente l’assunto di principio gli è parso potesse non esser pieno a dovere, ha scritto che era il consiglio personalmente dato ad una donna realmente incinta (Il Foglio, 22.8.2014). Mi è stata sollevata l’obiezione di aver voluto appuntare l’attenzione su un dato di natura meramente formale, come non esistesse alcuna relazione tra la forma che si sceglie di dare a un argomento e la sostanza di quanto gli si vuol far dimostrare. Che la donna cui era indirizzato il tweet fosse realmente incinta o meno, invece, ritengo non sia affatto irrilevante, e qui vorrei soffermarmi a spiegare meglio il perché, con ciò dando premessa alla risposta che devo a chi mi ha chiesto cosa consiglio ad una gravida dopo aver fatto diagnosi di una grave malformazione a carico del feto.
Dico subito che mi limito a spiegare come stiano le cose, e cerco di farlo con delicatezza, ma senza venir meno al dovere di essere schietto, cercando di evitare sia eufemismi che crudezze. In ogni caso evito di dare consigli sul da farsi, anche quando mi vengono richiesti con l’evidente fine di avere avallo ad una scelta che intimamente è già presa, qualunque essa sia. Così quando tale scelta mi è comunicata: qualunque essa sia, mi astengo da ogni osservazione che possa anche lontanamente aver forma di approvazione o di biasimo. Nei panni di chi ho davanti so quale sarebbe la decisione che prenderei io, ma ritengo che in situazioni del genere ciascuno abbia il diritto e il dovere di arrivare ad una scelta libera da condizionamenti esterni alla propria sfera di opinioni e sentimenti. Nei panni di chi ho davanti la mia decisione sarebbe uguale a quella consigliata da Richard Dawkins, qui non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo, ma dirlo ad una donna che in utero ha un feto gravemente malformato assumerebbe un altro significato. 
Mi rendo conto di aver anticipato la risposta saltando la premessa con la quale avevo intenzione di spiegare quale sia la differenza tra esprimersi in favore della scelta eugenetica, che è quanto Richard Dawkins ha fatto col suo tweet, e consigliarla ad una donna che in utero ha un feto gravemente malformato, che è quanto invece non ha fatto. A chi è contrario che nel caso di specie sia data libertà di scelta torna comodo far credere che l’opzione dell’interruzione di gravidanza voglia essere imposta da chi in realtà si limita ad ammetterla, e così è stato nel caso specifico che qui trattiamo, dove l’insinuazione è parsa tanto più agevole per l’uso del termine «immorale» al quale Richard Dawkins è ricorso: in pratica, si è inteso dare alla sua «morale» il carattere cogente che invece è il tratto distintivo di quella che nega la libertà di scelta.
Basta aver letto Il gene egoista per dare il giusto senso a ciò che nel suo tweet Richard Dakwins ha definito «immorale»: sta per «contrario al buonsenso». Un buonsenso, occorre dire, che da qualche tempo trova sempre maggiore coincidenza nel senso comune, come dimostra il sempre più frequente ricorso alla diagnostica prenatale. Una «morale», dunque, quella di Richard Dawkins, che, lungi dallessere il dettato di una norma trascendente, si limita ad esprimere la ratio che possa governare al meglio l’immanente. Sgradevole quanto si voglia a chi ne abbia una diversa, è una «morale» che esprime l’ormai consolidata opinione che tra ovocellula fecondata, morula, blastocisti, embrione, feto e uomo ci siano differenze significative, e che siano proprio queste a dar contro del processo che dalla materia biologica porta alla persona, quando accade e se accade. 

sabato 23 agosto 2014