giovedì 18 settembre 2014

Segnalibro

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Quand’anche la Costituzione riconoscesse a un Presidente del Consiglio le prerogative di cui Matteo Renzi è convinto di godere, l’arroganza con cui le vanta sarebbe ugualmente irritante. Fatto sta che la Costituzione formale non gliele riconosce, né il modo in cui è arrivato a Palazzo Chigi lo autorizza a vantarle in virtù di una Costituzione materiale che si vorrebbe attribuisca al leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni politiche i poteri del Capo dello Stato in una repubblica presidenziale.
Mai candidato al ruolo che ricopre, questo stronzo cagato a forza – non riesco a trovare migliore definizione – non ha avuto altra investitura se non quella del risultato che il suo partito ha conseguito alle elezioni europee, risultato che in più di un’occasione, prima del voto, ha ripetuto non avrebbe avuto la valenza di un test per il suo governo. Governo di cui ha avuto la guida – de plano – perché intanto era diventato segretario del suo partito. Un partito al quale le elezioni politiche avevano dato una maggioranza parlamentare zoppa, capace di strisciare sulla pancia, pur di non tornare alle urne, solo rimangiandosi le promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte quella di non stringere alcun tipo di alleanza con il centrodestra. È su questo mucchio di letame che il gallo gonfia il petto e fa chicchirichì, pensando che sia lui a far sorgere il sole.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.

martedì 16 settembre 2014

Quando un’azienda dal marchio prestigioso...


Quando un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti, all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim.
Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. Per quanto l’occhio esperto, infatti, riuscirà sempre a distinguere il prodotto taroccato da quello originale, man mano che il primo sarà sempre più simile al secondo, comincerà ad aumentare il numero di quanti non riusciranno più a cogliere alcuna differenza di qualità tra i due, e si convincerà che quello contraffatto, tutto sommato, sia un affare. È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi.
Non siamo ancora a questo punto con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in provincia. È come con le prime Louis Vuitton false che cominciarono a girare una trentina d’anni fa: al momento, solo a un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato. È differenza che al momento si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi.
Sia chiaro, l’antiabortista d’una certa classe continuerà a scegliere un Ferrara originale, che peraltro col tempo acquista quei segni di usura che impreziosiscono l’oggetto, ma si sa come va il mondo, e per una donna di classe che non rinuncerà mai a una Louis Vuitton certificata ci sarà sempre una dozzina di sciacquette che s’illuderanno di fare bella figura spendendo solo trenta euro dal primo vucumprà.  

Primo impatto col sistema d’istruzione pubblica




lunedì 15 settembre 2014

Inventing the Individual

Non si può che esser grati a chi recensisca un saggio illustrandone la tesi in modo chiaro, riportandone in virgolettato i passi salienti, meglio ancora se la recensione sia integrata da un’intervista all’autore del volume a ulteriore puntualizzazione di quanto potrebbe sollevare qualche perplessità, e il tutto venga presentato al lettore senza alcun rilievo critico, anzi, con un tocco di affettuosa benevolenza, perché se la tesi è cretina, e cretini gli argomenti che dovrebbero sostenerla, ci si risparmia l’acquisto del mattone. Grazie a Marco Ventura, dunque, per la sua recensione di Inventing the Individual di Larry Siedentop (La laicità è nata cristianala Lettura, 14.9.2014).
Tesi cretina, quella di Siedentop, ma non originale: «Abbiamo smarrito la genealogia della laicità liberale; soprattutto, perché non ne comprendiamo più il fondamento cristiano». Così, «il principio liberale che il cristianesimo ha inventato è ormai una fede nell’uomo senza fede in Dio». Com’è potuto capitare? Semplice. È che «l’Umanesimo e l’Illuminismo hanno cercato nel mondo greco-romano quella fondazione della laicità liberale che stava invece nel Medioevo cristiano» e questo ha dato vita a «due eresie liberali: da un lato la libera scelta degenera in mercato senza giustizia, in interesse cieco (eresia utilitarista); dall’altro l’individuo si isola, non va oltre i legami familiari e amicali; evaporano lo spirito civico e l’impegno politico (eresia individualista)». E così il liberalismo non è più cristiano, ahinoi.
È evidente che con l’individualismo di John Stuart Mill e l’utilitarismo di Jeremy Bentham siamo già al tramonto del liberalismo, che invece deve aver avuto il suo momento di massimo fulgore con Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino. È altresì evidente che il liberalismo contro il quale Gregorio XVI scagliava i suoi fulmini non fosse vero liberalismo: «Assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirio – diceva – che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza»; e deprecava la «mai abbastanza esecrata ed aborrita libertà della stampa»; e guai a «coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno» (Mirari vos, 1832).

Un po’ di chiarezza, dunque. Il liberismo – il vero liberalismo – ripudia la centralità dell’individuo, al posto dell’utile mette il necessario, schifa la separazione tra Stato e Chiesa, è contro la libertà di pensiero e di coscienza, contro la libertà di stampa, contro l’istruzione di massa… Non bastavano gli editorialisti di Avvenire? Avevamo bisogno di Siedentop?

domenica 14 settembre 2014

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Mica dev’essere solo bella, Miss Italia 2014, Simona Ventura dice che deve avere anche personalità. Sarà per questo che a una delle candidate chiede di tirar giù il suo jolly, l’imitazione della scimmia. I giurati sembrano apprezzare, ma la presentatrice sa che la ragazza può dare di più: «E adesso la scimmia in calore». Poi, tra una dozzina d’anni, sarà una pagina di antologia televisiva.

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L’insulsaggine di certi autorevoli editorialisti si diluisce nei tweet di certi poveri sfessati, o forse è il contrario, è l’insulsaggine di certi poveri sfessati che viene distillata da certi autorevoli editorialisti, anche se non è escluso che le due cose facciano sistema in un grande alambicco a serpentina che ricircola la stessa insulsaggine, risciolta nella più tonta delle dabbenaggini dopo essere stata concentrata nei più intensi dei sussieghi, e via di seguito.
Sia come sia, una delle più insulse opinioni così correnti è che la politica italiana dovrebbe pigliar consiglio dai moniti del papa – di questo papa – come se questo papa non si limitasse a frasi fatte, insieme ridondanti della più sciatta retorica e vuote di ogni minima sostanza. Roba che può suonare bene ad ogni orecchio, come in realtà accade, ma totalmente priva del ben che minimo contenuto che possa dirsi, non dico soluzione, ma per lo meno indirizzo.
Non un programma, nemmeno il vago accenno di quella potrebbe essere la linea di un progetto: altisonanti chiacchiere, magniloquenti frasi che sembrano non aver altro scopo che cercare il consenso più ampio, perciò del tutto prive di quanto potrebbe circoscriverlo e mobilitarlo su un’opzione. La guerra è una follia, e chi non è d’accordo? La politica si deve occupare di chi muore di fame, e trovami qualcuno che dica il contrario.
Cose così, sicché se in questo straparlare di niente c’è ingerenza, e c’è, la contesa non è sul primato nella gestione della cosa pubblica, ma sul consenso che alla stessa politica non serve ad altro che ad autolegittimarsi. In questo, Chiesa e Stato sembrano mostrare la stessa impotenza dinanzi ai problemi: la sola forza di cui sembrano dotati è quella in grado di assicurare loro un congrua fidelizzazione di cieche speranze, nutrite esclusivamente di attesa.
Se socialismo e liberalismo sono ormai parole vuote che la politica evita in nome di un pragmatismo che non ha visione, né progetto, tutto speso a rappezzare buchi con toppe che non reggono due mesi, la Dottrina Sociale della Chiesa a oltre un secolo dalla sua nascita si mostra altrettanto inservibile. Doveva essere la terza via, perciò nasceva ambigua, sospesa sulla composizione delle sue contraddizioni interne, ma paradossalmente mostra i suoi limiti proprio dopo l’eclissi del sogno socialista e una delle più acute delle cicliche crisi del capitale: non aveva uno specifico, e non ne era neanche il sincretico.
Politica e religione – o forse è meglio dire: classe politica e gerarchia ecclesiastica – sono ugualmente prive di soluzioni: a entrambe manca la capacità di cavarle fuori dalla dialettica dei conflitti che danno corpo ai problemi, sono costrette ad ignorarli per una vocazione al plebiscitario che non è in grado neppure di inventarsi un neocorporativismo. Perciò invitare Renzi ad ascoltare le parole di Bergoglio è insieme la più crudele delle cattiverie e il più stupido dei consigli. 

giovedì 11 settembre 2014

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Abituati a vederli litigare sempre, è bello vedere che una volta tanto Ferrara e Travaglio siano d’accordo almeno su una cosa, e che il caso voglia lo scrivano in sincrono, lo stesso giorno, con varietà d’accento quasi impercettibile, perché di Berlusconi uno scrive che Renzi sia l’«erede», l’altro il «pupillo», ma sbagliano entrambi. È che il Berlusconi dei bei tempi andati – per opposte ragioni, è ovvio – manca molto a entrambi. Per meglio dire, manca molto ai loro lettori, ed entrambi, da seri mestieranti, dei loro lettori si sforzano d’essere al meglio l’anima e la voce. Probabilmente, poi, sapranno pure non sia affatto vero, o almeno lo intuiranno, ma per oggi i loro aficionados potranno consolarsi d’aver trovato in pagina la suggestione di una continuità come di vertebra che segue a vertebra lungo il groppone della stessa bestia. In fondo sono giornalisti, di più non si può pretendere.
Cazzate, Renzi sta a Berlusconi come la silifide sta alla blenorragia. Le trovi nello stesso posto, analoghe le cause che ne hanno favorito l’insorgenza, su entrambe hanno lo stesso effetto i derivati della penicillina, ma l’agente patogeno è diverso, e diverso è il meccanismo l’azione, diverse le possibili complicanze sul medio e sul lungo periodo, diversi gli esiti. E la sifilide è senza dubbio peggio. 

Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia, Bompiani 2014


A dispetto del titolo, questa non è una recensione. Il libro di Pietrangelo Buttafuoco mi offre solo l’occasione per vergare a matita, a margine del brano riprodotto qui sopra (si tratta di ciò che scrisse Basilio Puoti nel 1838), «difficilissimo, ma possibile»


mercoledì 10 settembre 2014

E tuttavia ogni tanto un troglodita...

Perché ad affermarlo è persona autorevole, perché è opinione largamente accreditata, perché si è sempre fatto così, perché a fare diversamente c’è da temere gravi conseguenze, perché a consentirlo si aprirebbe la strada a ben peggio… Oppure – tutto in uno – perché non ho argomenti validi. Però dalla mia ho le ragioni del senso comune, che sono persuasive con la forza che rigetta ogni obiezione come diabolica o perversa, e te le sbatto in faccia come leggi di Dio o della Natura, che poi tutto sommato è lo stesso.
Più o meno è questo il profilo retorico del conservatore. Difficile trovarne uno che si attardi troppo fuori dal contorno: quando capita, è di poco, e per poco, perché subito vi rientra. Lì fuori c’è la logica argomentativa, c’è il rischio di rompersi le ossa. Parliamo di fecondazione assistita? E che differenza c’è tra un bambino concepito secondo Natura e uno contro Natura? Che differenza c’è tra il desiderio di avere un figlio, e averlo come Dio comanda, e lo stesso desiderio se frustrato da Dio e soddisfatto come a Dio non piace? Che differenza c’è tra l’essere padre biologico e padre adottivo al netto del comportarsi da padre? Che differenza c’è tra avere un padre e una madre o due genitori dello stesso sesso?
Meglio tenersi lontano da questioni tanto insidiose, si potrebbe correre il rischio di dover ammettere che un bambino è un bambino quale sia il modo in cui è stato concepito, che la riproduzione sessuata è solo un mezzo e non un fine, che non c’è lo straccio di uno studio scientifico serio che segnali differenze nello sviluppo psicologico di un bambino allevato in una famiglia omoparentale rispetto a uno che è cresciuto in una famiglia tradizionale. Sarebbe imbarazzante, meglio andare sul sicuro. La Chiesa, che è istituzione saggia e illuminata, è contraria. La gente non è ancora preparata, sarebbe come toglierle certezze da sotto il culo. Diagnosi preimpianto, ma poi non è che torna Hitler? E l’eterologa non legalizza di fatto le corna? Sillogismi da trogloditi, ma incisivi. E tuttavia ogni tanto un troglodita s’azzarda a metter naso fuori dalla sua comoda caverna di fallacie e ci prova…
«Va garantito – scrive Marco Politi (Il Fatto Quotidiano, 10.9.2014) – il diritto preminente del concepito di sapere sempre “da dove è nato”. Far dipendere questo diritto primario dal “mercato”, cioè dall’andamento della domanda e dell’offerta delle donazioni di gameti (tolto l’anonimato, si dice, diminuiscono i donatori) appare semplicemente impensabile dal punto di vista dei diritti umani». E come lo garantisci, grandissima testa di cazzo, a quel 10-15% di bambini il cui Dna paterno non appartiene a quello che la mamma ha sempre assicurato loro essere il babbo? Fai uno screening di massa e torturi tutte le mamme che abbiano concepito con un altro uomo quei poveri bambini a quali s’è negato questo diritto umano perché rilevino chi sia il vero padre biologico? 

martedì 9 settembre 2014

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Sarà la magistratura a chiarire cosa sia realmente accaduto a Rione Traiano, ma fin d’ora un fatto è certo: quello sul petto del cadavere è un foro d’entrata. Questo smentisce chi ha dichiarato fosse sul posto quando il proiettile è partito dall’arma, affermando che la vittima volgesse le spalle a chi ha sparato. Si tratta del giovane che s’è spontaneamente presentato alle telecamere del Tg2 per dire fosse lui il terzo uomo in sella al motociclo cui i carabinieri avevano intimato l’alt, non il latitante di cui questi erano sulle tracce. È evidente che quanto ha detto non trova riscontro, e questo solleva più d’un dubbio sulla sua versione dei fatti.
Era davvero in sella a quel motociclo, insieme alla vittima e al pregiudicato che di lì a poco sarebbe stato arrestato? Può darsi, ma ha detto anche di essere subito scappato via quando la gazzella dei carabinieri è finalmente riuscita a interrompere la loro fuga, sicché è molto probabile non fosse nelle immediate vicinanze della scena sulla quale andava consumandosi il tragico evento: e allora perché inventarsi di sana pianta un dettaglio tutto sommato irrilevante al fine di addossare l’intenzionalità del gesto al carabiniere che ha sparato, e comunque smentibile in fase peritale?
Domanda che si pone anche nel caso fosse in prossimità del luogo in cui sono accaduti i fatti, anche se non su quel motociclo, sul quale dunque è assai probabile ci fosse davvero il latitante poi resosi irreperibile. Sostituirsi a lui alleggerirebbe di poco la sua posizione nei confronti della giustizia, ma appesantirebbe quella del carabiniere dalla cui arma è partito il colpo: alla intenzionalità di uccidere, che a Rione Traiano già pare essere prova provata, si aggiungerebbe l’errore di persona, che renderebbe due volte colpevole chi ha sparato.
La più inquietante delle possibilità, tuttavia, è la terza, cioè che fosse altrove, e qui sulle ragioni che l’avrebbero spinto a dichiarare il falso s’aprirebbe un ricco ventaglio di ipotesi, ma tutte avrebbero in comune con le altre due l’intento di caricare di infamia una volontarietà dell’omicidio, che peraltro è tutta da dimostrare. Intento che in tutti e tre i casi, però, rivela l’ostilità già più volte dimostrata nei confronti delle forze dell’ordine a Rione Traiano.
Come rappresentanti di quello Stato al quale è fin troppo comodo addebitare più colpe di quante ne abbia, per liberarsi delle proprie? Come il solo e in ogni caso inefficace presidio contro la delinquenza organizzata che su quel territorio esercita un potere pressoché incontrastato? C’è da presumere si tratti di entrambe le cose, di fatto contro la delinquenza che spadroneggia in quel quartiere non s’è mai vista neanche l’ombra dell’indignazione sollevatasi in questi giorni.     

lunedì 8 settembre 2014

«L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo»

Il principio teocratico ha un tratto comune nei monoteismi: chi detiene il potere è venerabile quanto non altri, ma della sovranità di Dio è soltanto lo strumento. Non così nel buddhismo, che d’altronde è «religione senza Dio», e per il quale, dunque, anche parlare di teocrazia è formalmente improprio: non è l’incarnazione di un Dio, certo, ma il Dalai Lama non è neppure semplicemente massima autorità spirituale e massima autorità politica insieme, perché il suo corpo è il medium attraverso il quale è lo stesso Buddha a rivelarsi. Con tutte le riserve d’obbligo in un raffronto che già in premessa è fortemente asimmetrico, potremmo concludere che la teocrazia ebraica, quella cristiana e quella islamica siano forme di governo che affidano al sovrano il ruolo di ponte tra immanenza e trascendenza, che in quella del buddhismo tibetano, invece, trovano coincidenza nello stesso Essere che migra di corpo in corpo, e di epoca in epoca. Potrà sembrare differenza di poco conto, ma non lo è. Nei monoteismi, infatti, il teocrate è mera variabile del modo in cui Dio dichiara la sua sovranità. Al contrario, quando il buddhismo si dà in forma teocratica – è questo il caso del buddhismo tibetano – il teocrate è insieme Kundun e Kyabgon, presenza e salvezza. La sostanza di questa differenza sta nella portata dell’asse dinastico, che attraverso il Dalai Lama non si limita a trasmettere un rapporto privilegiato con Dio come avviene lungo il succedersi di patriarchi, papi e califfi, ma esprime una continuità dello stesso Bodhisattva, l’Essere che illumina, guida e salva. Differenza che si esalta nel momento in cui la forma teocratica vien meno: mentre nei monoteismi la sovranità di Dio sul mondo è solo costretta a esprimersi in modo più indiretto (privata del potere temporale, l’autorità spirituale continua ad ispirare la norma mondana), nel buddhismo tibetano il mondo viene ad essere privato della stessa fonte di sovranità del trascendente sull’immanente.
È lettura scorretta di cosa implichi l’annunciata rinuncia del 14° Dalai Lama a reincarnarsi nel 15°? Può darsi, infatti anche metterla in questo modo – dire che annuncia l’interruzione della linea dinastica – può darsi sia scorretto. Ma poi può davvero deciderlo? Voglio dire: la dimensione immanente che muove a tale decisione – perché, vedremo, la sua è una decisione che prende le mosse da elementi di natura tutta contingente – può condizionare quella trascendente, che la informa, al punto da modificarne la natura? Anche qui può darsi che a sollevare la questione sia il non essere all’interno di quell’universo religioso e culturale, ma – proprio perciò, dico – Tenzin Gyatso non avrebbe il dovere di spiegare meglio a chi ne è fuori, e contestualmente al suo annuncio, come sia possibile sul piano dottrinario che lo sguardo compassionevole del Buddha si ritragga dal mondo?
Niente di tutto questo. L’intervista rilasciata a Die Welt non dà ragguagli a proposito. «L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo», dice, con ciò lasciando intendere che, quando Altan Khan la istituì, nel 1578, Sonam Gyatso non aveva alcun potere di dichiararsi 3° Dalai Lama, investendo della carica i suoi due predecessori. «Così finiscono anche quasi cinque secoli di tradizione Dalai Lama», dice, e in questo modo dà da intendere che Gendun Drup (1391-1474) e Gendun Gyatso (1475-1543) non fossero davvero il 1° e 2° Dalai Lama: in pratica, l’istituzione non veniva a riconoscere una realtà di fatto, ma di fatto la creava, alla faccia del primato del trascendente sull’immanente. Tutto normale per chi pensa che anche il buddhismo, al pari di ogni religione, sia una sovrastruttura, ma qui a dirlo è chi, fin quando è stato sovrano in Tibet e poi sovrano dei tibetani in esilio, vestiva la prerogativa come 14° reincarnazione del Cenresig Wangchug. E dire, oggi, che «il buddismo tibetano non dipende da un solo individuo» e che tutto sommato di un Dalai Lama i tibetani possono fare a meno, perché «abbiamo una buona organizzazione della quale fanno parte monaci e studiosi altamente qualificati», non è un delegittimare l’istituzione, sottraendogli la sua dichiarata natura trascendente? E da cosa mai gli viene il potere di non reincarnarsi in un successore se la progressione di cui non è che un segmento in lui può trovare solo, giocoforza, l’occasione immanente? Sbagliarono a considerarlo reincarnazione di Thubten Gyatso, 13° Dalai Lama, o il Buddha della Compassione è reale quanto Cappuccetto Rosso?


Postilla
Come sempre, quando la fede è forte, torna spassoso saggiare quanto le ritorna. Qui, a campione, un buddhista coi controglioni (da His Holiness the Dalai Lama di Deborah Hart Strober e Gerard S. Strober, in ital. presso Armenia, 2006 - pag. 203).



domenica 7 settembre 2014

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«Avant de mourir, je vais protester contre cette invention
de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs
de s’attacher à déstruire mes observations
et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies»

Lettera a Luigi de Sinner, 24 maggio 1832



Un giorno – siamo ai primi dell’Ottocento – ad Antonio Fortunato Stella, «stampatore in Milano», viene l’idea di dare alle stampe un’edizione dell’opera omnia di Cicerone che abbia apparato critico da renderla imperitura e affida a Niccolò Tommaseo il compito di stendere le note per le Orazioni. Quando gli viene consegnato il lavoro, ha qualche dubbio sulla tesi che serpeggia in esso – Cicerone sarebbe retore scarsuccio e pessimo avvocato – sicché manda il manoscritto a Giacomo Leopardi perché gli esprima un parere, ma senza dirgli chi ne sia l’autore, per discrezione. Leopardi lo legge e scrive a Stella che è robaccia, zeppa di madornali errori che rivelano gravi lacune nella conoscenza del latino. Qui la discrezione di Stella accusa un inspiegabile cedimento: fa leggere la lettera ad alcuni letterati, che si dicono d’accordo con le osservazioni di Leopardi, e allo stesso Tommaseo, che comprensibilmente non la prende affatto bene. Potrà vendicarsi solo molti anni dopo, quando ormai ha acquistato fama e prestigio: i circoli culturali di tutta la penisola fanno propria la sua tesi che il pensiero di Leopardi trovi ragione solo nel fatto che è basso, gobbo e malaticcio. Tesi che a 177 anni dalla morte di Leopardi riaffiora ancora, anche se raffinata in morbide insinuazioni, dalle pagine che ci danno notizia dell’edizione inglese dello Zibaldone o dell’uscita del film di Mario Martone. Il che spiega perché Tommaseo abbia potuto acquistare fama e prestigio: conosceva gli italiani, sapeva che avrebbero afferrato al volo la maldicenza per risparmiarsi la fatica di fare i conti con la vertiginosa profondità di Leopardi.
Non ha importanza chi riprenda, oggi, la maldicenza di Tommaseo: carte che ci arrivano come se non avessero un nome in calce, come il manoscritto che Stella inviò a Leopardi.

Stavolta hanno visto tutti


Si cercano telecamere che possano aver ripreso la scena della morte del diciassettenne del Rione Traiano, a Napoli. C’è da scommettere che non se ne troveranno. Tutte fuori uso, perché chi spaccia tiene alla privacy. Non si capisce, d’altra parte, perché si abbia bisogno di accertare i fatti con una prova video. Pare, infatti, che sul posto ci fossero testimoni oculari a dozzine. Alle tre di notte tutto il quartiere era lì, e tutti dicono di aver visto tutto, e lo dicono con straordinaria concordanza di sostantivi, aggettivi e verbi: non c’è dubbio, tutto è chiaro, la colpa è dei carabinieri.
Il caso è chiuso, via, e per stavolta tacciano quanti insinuano che i napoletani siano conniventi e complici della camorra perché non c’è mai uno che abbia visto niente, quando il morto è ammazzato in una via affollata e a mezzogiorno: stavolta hanno visto tutti, le indagini sono superflue, il processo è una formalità. Mettiamo il carabiniere che ha sparato a «marcire in carcere», come chiede la mamma del povero ragazzo, piangiamone l’ingrata sorte e leviamo alto lo sdegno per l’istinto assassino dell’Arma, che come vede tre tizi, di cui uno pregiudicato, in sella allo stesso motorino, privo di patentino ed assicurazione, e intima l’alt, e quelli non si fermano, spara, mirando con micidiale precisione agli organi vitali.
Uniamoci solidali ai parenti e agli amici della vittima, «bambino innocente», e almeno col pensiero, se distanti, bruciamo una gazzella dei carabinieri.

sabato 6 settembre 2014

venerdì 5 settembre 2014

Introduzione alla paleocoprologia

Una branca della paleontologia alla quale dobbiamo molto di ciò che oggi sappiamo su animali ormai estinti da decine di milioni di anni è quella che studia i loro coproliti, e cioè i fossili delle loro feci, straordinariamente ricchi di nozioni relative ai loro stili di vita: in primo luogo, come è ovvio, alle loro abitudini alimentari, e quindi, come è facilmente intuibile, all’ambiente in cui vivevano. Qui proveremo ad applicare il principio che dà dignità di disciplina a questa specializzazione, e cioè che l’attento studio di uno stronzone consenta di trarre preziose informazioni sulla bestia che l’ha cagato, studiando attentamente ciò che Francesco Agnoli scrive su Il Foglio di giovedì 4 settembre, nel tentativo di comprendere qualcosa in più di quel cattolicesimo che ormai da tempo sembra avviato all’estinzione.
Cominceremo col dire che il pezzo in questione, come tutti i fossili, ha una discreta consistenza. Non ha forma regolare, né struttura omogenea (il tema mostra vistose increspature, focali cedimenti, numerose disarticolazioni), e tuttavia è riconoscibile un movimento di torsione interna che in buona evidenza gli è impresso dal titolo (Il jihad dentro di noi) e prende sagoma dal sommario (Il disgusto della vita e la guerra purificatrice, due secolari vizi europei, prima che islamici).
Di cosa si sia cibato l’animale è evidente: «la modernità, respinto Dio, crea di continuo idoli e religioni surrogate», ed è perciò, che, «perso il contatto con ciò che è concreto, ciò che ci sta sotto i piedi, e accanto: la patria, la famiglia, la fede», «tanti giovani sono capaci di abbandonare ogni sogno (un lavoro, una casa, una famiglia)», e che fanno? Si convertono all’islam, corrono dal Califfo e si danno agli sgozzamenti: «gli occidentali, in particolare britannici, che partono per la guerra santa, e sgozzano infedeli in nome dell’islam, non sono anzitutto uomini infervorati dal Corano (che forse neppure conoscono bene), ma persone mosse dallo sdegno morale, la disaffezione, la noia, la ricerca di una nuova identità, il bisogno di un senso, di uno scopo, di una appartenenza».
In pratica, non li mandano al catechismo da bambini, non li spaventano dicendo loro che a farsi le pippe si diventa ciechi, non li cresimano, ed ecco che ti diventano atei, cioè pronti a farsi musulmani, «come dimostra, per esempio, la storia di Sally Jones, la donna inglese che prima di indossare il tradizionale vestito islamico e il velo, e prima di scrivere su Facebook che vorrebbe decapitare cristiani col suo coltello, vestiva minigonne di pelle, cantava rock, si occupava di magia nera e stregoneria, e gestiva, da sola, due figli, accogliendo uomini ad ogni ora».
Pronti a sgozzare, sennò a farsi saltare in aria da «martiri» (qui tra virgolette, com’è ovvio: i veri martiri sono solo cristiani), perché «nell’epoca in cui le emozioni e i desideri sostituiscono ogni valore, anche una morte particolare, originale, può avere il suo fascino».

Sarò riuscito almeno in parte a trasmettervi l’emozione che un paleocoprologo prova quando da un tocco di vile materia riesce a estrarre l’immagine d’un mondo estinto, quasi facendolo rivivere? Se di bocca, spontaneo, v’è uscito un «che cagata!», allora sì.  

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Vero è che tra i significati di jihad vi sia anche quello di guerra santa, ma solo l’ignoranza o la malafede possono sussumerlo in una fattispecie concettuale che includa pure quello che gli storiografi occidentali hanno definito guerra di religione. Vero è d’altronde che i 20.000 o 30.000 uomini dell’Isis si dicono jihadisti, ma solo l’ignoranza o la malafede possono spacciarceli per movimento religioso, seppur armato, come d’altronde è naturale sia per chi dell’islam ha la stessa idea che hanno gli islamisti. In sostanza direi che solo l’ignoranza o la malafede possono concedere a questa banda di terroristi l’onore d’essere l’embrione di un’umma islamica, con ciò andando incontro alle loro aspettative. In altri termini direi che c’è solidità d’interesse tra Abu Bakr al-Baghdadi e Giuliano Ferrara: a entrambi torna comodo far credere che in Medio Oriente si stia giocando una fatale partita tra due mondi, ed entrambi contano di potercene convincere riempendo di robaccia tutta nuova le desuete ma romantiche categorie di orientalismo e di occidentalismo. Non credo che si saranno telefonati per concordare una strategia, ma poi neanche ce n’era bisogno, perché tra avventurieri, seppur di taglio e calibro dissimili, c’è un simpatetico che unisce anche quando i campi sono avversi. Anzi, direi di più: ogni avventura che veste di grandiosità storica i disperati e miserabili interessi di un disadattato alla modernità riverbera specularmente in suo analogo, che necessariamente è opposto. Così, mentre tra Iraq e Siria, al comando di un pugno d’uomini, un poveraccio si sente califfo di oltre un miliardo di musulmani, in Lungotevere Raffaello Sanzio, a capo di una dozzina di redattori, un altro poveraccio si sente comandante in campo dell’occidente cristiano. 

giovedì 4 settembre 2014

Tra gufo e allocco

Probabilmente Matteo Renzi sarà fatto a pezzi con la solita crudeltà che i disillusi riservano a chi li ha illusi, non già per vendicarsi dell’impostura di cui diranno d’esser stati fatti oggetto – quello sarà l’alibi per mettere a tacere la coscienza – ma per saldare i conti con la propria ingenuità o, peggio, con la malata coazione a cercare disperatamente un impostore, implorandolo di illuderli. Povero cazzaro, non è riuscito a reggere il bluff neanche per un anno, e fra quanti l’hanno salutato come Uomo della Provvidenza già comincia a serpeggiare il sospetto che sia buono solo a vender chiacchiere, come non fosse chiaro da subito. A chi non è mai piaciuto – e qui non se n’è mai fatto mistero – non resta che attendere, e pare non si debba neanche attender troppo per cogliere la differenza tra gufo e allocco.  

martedì 2 settembre 2014

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Un falso storiografico che è diventato formula proverbiale, per lo più usata a mo’ di biasimo, è che la caduta di Bisanzio debba essere imputata in qualche misura a quanti, invece di difenderla dall’assedio dell’Ottomano, indugiassero in oziose discussioni sul sesso degli angeli. In realtà, quando la sua capitale fu espugnata dall’esercito di Maometto II, l’Impero Romano d’Oriente era già in pezzi da tempo, non aspettava che uno sputo per crollare, e poi sul sesso degli angeli non si è mai discusso per davvero, né a Bisanzio, né altrove, perché sul fatto che siano esseri incorporei c’è sempre stato accordo pressoché unanime nel mondo cristiano, e fin dal IV secolo. 
Tanto valga per chi fosse tentato dall’usare proprio un’ipotiposi così farlocca per rimproverarmi del fatto che qui perdo tempo a disquisire se internet sia sostantivo maschile o femminile, invece di produrmi in una vibrante difesa del povero Magdi Cristiano Allam o in una fiammeggiante invettiva contro quegli zoticoni dell’Isis. Avrei voluto farlo già da un pezzo, ma temevo che l’argomento fosse troppo frivolo coi tempi che corrono. Stavolta, invece, vado tranquillo, cogliendo l’occasione offertami da un post del Mantellini, anche se lì è in questione se internet voglia la maiuscola o no (pareri contrastanti, mentre «sul fatto che [internet] sia femminile [si dà per pacifico] ci siano pochi dubbi»). Nomi eccellenti tra i commenti: il Mozzi, il Quintarelli, il Tolardo, il Minotti… Insomma, mi son detto, chi potrà mai venirmi a rinfacciare che tratto un tema sul quale dibattono tutti sti Paleologi?
Bene, venendo al dunque, so di aver contro l’autorevole parere dell’Accademia della Crusca, che, «per la determinazione del genere degli anglismi che sono entrati in italiano senza adattamento, si può enunciare la seguente regola: sempre il maschile, a meno che non agisca un sostantivo femminile italiano soggiacente», sicché quest’eccezione varrebbe anche per internet, visto che -net sta per rete. Il problema, a mio modesto avviso, è che quell’inter- rende maschile il sostantivo, perché internet non è semplicemente net, ma il prodotto delle connessioni che vengono a crearsi in essa, per il suo tramite. Pare che a vederla in questo modo sia solo il Devoto-Oli, per il quale internet è sostantivo maschile, mentre per il Treccani, il De Mauro e il Garzanti è femminile…
Ma basta così, ché bussano alla porta e voglio andare a controllare se per caso non sia l’Ottomano. 

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