Il
corsivo di Pierluigi Battista sul Corriere
della Sera di lunedì 29 settembre (Della
Valle faccia solo l’imprenditore) chiude in questo modo: «Robert Musil ha narrato nell’Uomo senza
qualità le velleità politiche del magnate dell’industria Arnheim nella
costruzione di una maestosa “Azione Parallela”. Finì male: facile profezia».
Tre perplessità. La prima è relativa al fatto che Arnheim comincia a frequentare
le riunioni in casa Tuzzi, dove si discute dell’organizzazione dell’“Azione
Parallela”, solo perché è invaghito di Diotima: quello che cerca di sfruttare l’impresa,
di cui peraltro è il promotore, per assecondare le sue velleità politiche è il
conte Leinsdorf. La seconda è relativa a quel «finì male»: in realtà Robert Musil morì prima di portare a termine
L’uomo senza qualità e al punto in
cui lasciò la narrazione degli eventi non c’è traccia di alcun fallimento,
né del progetto dell’“Azione Parallela”, né dei disegni personali del conte
Lainsdorf. Ma la perplessità più forte è relativa a quel «© RIPRODUZIONE RISERVATA» in calce al corsivo: chi si sognerebbe mai di appropriarsi delle
cazzate scritte da Pierluigi Battista?
lunedì 29 settembre 2014
Da fetenti
Il
78% dei napoletani è dell’idea che Luigi De Magistris farebbe bene a
dimettersi, ma l’attenzione va posta al restante 22%, solidale al suo
fottersene di una legge dello Stato che invece gli impone di farlo. Tra chi
pensa faccia bene dev’esserci chi ha apprezzato le sue parole al funerale di
Ciro Esposito, quando deplorando chi sospettava proprio ciò che le indagini
avrebbero successivamente accertato, e cioè che il giovane fosse del manipolo
di ultras che alla finale di Coppa Italia era arrivato armato di bastoni e di
coltelli, intenzionato a provocare disordini, prese le difese della teppaglia e
lanciò un’accusa ai responsabili dell’ordine pubblico: «Ciro si è messo tra l’odio
e chi voleva solo vedere una partita… Chi non ha garantito l’ordine paghi». Ma
in quel 22% ci sarà pure chi ha apprezzato l’elogio funebre in morte di Davide
Bifolco: «È inaccettabile che un ragazzo possa morire in questo modo, a 17
anni. Non accetto la teoria colpevolista, fondata sul fatto che il ragazzo
fosse napoletano e provenisse da un quartiere difficile. Il sindaco è vicino ai
suoi familiari e ai suoi amici». Da fetenti, come non essere solidale al caro
Giggino che ha sempre trovato una parola buona per i fetenti? Aspettiamo che al decreto di sospensione dica: «A me ’u Prefette m’adda fa’ sule ’nu bucchine», e sentiremo un’ovazione.
domenica 28 settembre 2014
sabato 27 settembre 2014
La vista da lì
Lo
schema riprodotto qui sopra è tratto da Elementi
per una teoria dei media (1970) di Hans Magnus Enzenberger (insieme ad
altri saggi, in: Palaver, Einaudi
1976 – pagg. 79-113), e costringe a un riso amaro: ai tempi in cui internet non
c’era, si immaginava che qualcosa come internet avrebbe emancipato le masse.
Prima di ogni altra considerazione, però, c’è da chiedersi se questa inferenza
sia lecita. È un medium, internet? Mi pare sia impossibile negarlo. Risponde
alle caratteristiche descritte nella colonna a destra nello schema? Direi di
sì. Bene, ha emancipato le masse? Qui la risposta non può essere altrettanto
scontata. In fondo, è solo da vent’anni che internet è alla portata di chi
voglia servirsene, dunque potrebbe essere troppo presto per escludere che sia
in grado di farlo. Ma si ha qualche indizio che lo stia facendo o che almeno
stia preparando il terreno? E poi: emancipare le masse da cosa? Qual è il
mancipium dal quale dovrebbe/potrebbe liberarci? C’è da attendersi che possa
favorire la democrazia?
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A
me basta questo per chiudere La vista da qui di Massimo Mantellini (minimum fax, 2014) con la netta convinzione che l’ottimismo
che parrebbe voler infondere al lettore – ottimismo temperato da un sano
realismo, ovviamente, perché l’autore è persona amabilmente posata – sia lo
stesso di Hans Magnus Enzenberger. Per star lì, più di quaranta anni dopo, a consigliarci
di aver fiducia nell’irresistibile pulsione che la plebe avrebbe a farsi popolo, è
da considerare libro più che coraggioso: direi quasi temerario.
venerdì 26 settembre 2014
mercoledì 24 settembre 2014
Più tonto che tondo
Ancora
una volta il chierico dimostra la sua superiorità sul laico nell’arte di
infinocchiare i gonzi, per averne prova basta porgere l’orecchio al coro di
lodi che si leva in queste ore per l’arresto di Wesolowski deciso da Bergoglio.
Parliamo del tizio che da nunzio nella Repubblica Dominicana commise abusi
sessuali su minori, così recita la sentenza di primo grado emessa dal tribunale
canonico che qualche mese fa gli comminò il massimo della pena, e cioè –
tenetevi forte, ché potrà cogliervi un brivido di orrore – la dimissione dallo stato clericale. Sul reato la Repubblica
Dominicana aveva già avviato un procedimento penale, però destinato a rimanere
lettera morta per il tempestivo richiamo di Wesolowski a Roma, e questo alla faccia
della «cooperazione con le autorità
civili» prescritta dalla Lettera
circolare della Congregazione per la Dottrina della Fede del 3 maggio 2011
(I, 2, e), uno di quei fluviali documenti ufficiali in cui l’ipocrisia vaticana ama sciacquarsi le palle. Già condannato in primo grado al massimo della pena, dunque, e in
attesa del processo d’appello, ma non soggetto ad alcun provvedimento di
restrizione della libertà, il Wesolowski, almeno fino a ieri. Nell’impossibilità di inquinare
le prove o di procurarsene di false perché era lontano migliaia di chilometri
da dove si erano svolti i fatti, nell’impossibilità di reiterare il reato
perché di sua spontanea volontà aveva deciso di aspettare il processo di secondo grado standosene buonin buonino in un convento dove al massimo poteva molestare i puttini che incorniciavano l’abside, nell’impossibilità di sottrarsi con la fuga al peggio del peggio che poteva essere al massimo una
conferma della sentenza, che da cittadino della Città del Vaticano non gli avrebbe
comportato ulteriore aggravamento della sua condizione, ecco che gli arriva tra
capo e collo il provvedimento che un mondo più tonto che tondo strombazza come arresto, e che
probabilmente consta del trasferimento da un convento a un altro convento. Evento storico, si strepita, come se tanta severità fosse inaudita, e parliamo del Vaticano, dove la pena di morte è stata formalmente abolita solo nel 2001. Un
botto mediatico di grande effetto, senza dubbio, e alla vigilia di un Sinodo che per
Bergoglio si annunciava pieno di incognite, comunque assai tosto. Ora potrà
affrontarlo molto più serenamente, forte del plauso generale che ammansirà chi
minacciava di rovinargli il giocattolo. E tutto questo – onestamente bisogna
riconoscerglielo – con un piccolo grande colpo di genio, che per giunta non gli
costa nulla. Perché, «in forza del suo
ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla
Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, can. 331), e
perché «non si dà appello né ricorso
contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» (ibidem, can. 333, § 3), in culo ad ogni dettato procedurale: è l’esecutivo,
il legislativo e il giudiziario, tutto insieme, e nessun Parlamento, nessuna Corte Costituzionale,
nessun Tribunale del Riesame può rompergli il cazzo. Ad illustrare al mondo
che l’esser figlio di puttana dà i migliori risultati solo quando hai completamente
libere le mani. In questo, il laico parte sempre con l’handicap.
martedì 23 settembre 2014
Due rilievi
Dopodomani
torna Servizio Pubblico e l’homepage
del suo website offre un’anticipazione della prima puntata della nuova stagione televisiva con un breve
estratto da Napoli senza casco, un
servizio firmato da Luca Bertazzoni, accompagnato dal seguente sommario: «Napoli piange ancora Davide Bifolco, ma a
meno di 20 giorni dalla morte del ragazzo niente sembra essere cambiato al
Rione Traiano: mentre non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto – la
versione dei carabinieri e della famiglia non collimano – ragazzi di 13 anni
continuano a girare senza casco, patente e assicurazione. “Non abbiamo i soldi
per farla. È normale girare senza casco: lo Stato m’adda fa nu bucchin”», riprendendo in virgolettato la colorita espressione di uno degli indigeni.
Due rilievi mi sembrano opportuni. Il primo è relativo allo scarso rispetto per l’ortografia del dialetto napoletano. Infatti, «m’adda fa» («deve farmi») letteralmente sta per «ha da fare a me» («mi ha da fare»), e dunque «fa» vuole l’apostrofo che
indica il troncamento della sillaba finale («-re»): la forma corretta è «fa’» o
eventualmente quella pur impropria ma largamente invalsa con l’accento («fà»). Di
poi, quel «nu» manca dell’apostrofo di aferesi, infatti è articolo indeterminativo
(sta per «unu»), dunque la sua forma corretta è «’nu». Per finire, i sostantivi
che finiscono con vocale muta la esprimono graficamente con una «e». Insomma, la frase va
corretta in questo modo: «lo Stato m’adda fa’ ’nu bucchine» (volendo rendere in
dialetto anche «lo Stato»: «’o State m’adda fa’, ecc.»).
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».
[...]
Tragica figura, quella di Gennaro Serra di Cassano, giacobino partenopeo di illustre casata e tra i protagonisti della sfortunata parentesi repubblicana del 1799 chiusa nel sangue dai lazzari nostalgici del loro re fellone. Diomede Marinelli scrive che prima di poggiare la testa sul ceppo in Piazza Mercato disse: «Ho sempre lottato per il loro bene e ora eccoli a festeggiare la mia morte». Figura tragica, dunque, ma anche ridicola.
TgLa7, 22.9.2014 - h. 20,18
Il
TgLa7 dà notizia che Genny ‘a Carogna è stato raggiunto da un provvedimento di
custodia cautelare per i fatti che l’hanno visto tra i protagonisti dei torbidi
che funestarono la finale di Coppa Italia del 3 maggio.
Non malaccio, il
filmato di Flavia Filippi. Riassume i fatti, dà conto degli sviluppi delle
indagini e chiude illustrando in sintesi l’idea che il magistrato s’è fatto di
quanto accadde a Roma, quel giorno, nei pressi dello Stadio Olimpico: né
martiri, né eroi, solo uno scontro tra due bande di delinquenti. Ancorché
implicito, v’è cenno a quanto è emerso nelle ultime settimane, e che oggi pare imporre
una rilettura assai diversa da quella che si diede a caldo, quando sembrò che si
fosse trattato di un agguato ai danni di inermi tifosi in trasferta: un
centinaio di ultras del Napoli, armati di bastoni e di coltelli, aggredirono quattro
o cinque ultras della Roma, armati di pistola, e ci scappò il morto.
Neanche
varrebbe la pena di star qui parlarne, se non fosse per il commento di Enrico
Mentana: «Il fatto più sconcertante è che questo interviene cinque mesi dopo i
fatti, per effetto di una decisione che riguarda la visione di alcuni filmati
che erano già a disposizione il giorno dopo i fatti, con accuse che almeno in
parte sono poco affini con le cose che si vedono dagli stessi filmati».
Non è
così, d’altronde è lo stesso servizio filmato ad aver dato conto del fatto che proprio
grazie alle indagini condotte in questi mesi si stia ora arrivando a un quadro diverso
da quello che appariva all’inizio. Ma poi non è Mentana stesso a riconoscere
che le accuse ora mosse non sono interamente supportate dalle prove video? Boh,
si sarà espresso male, anzi, ammettiamo con umiltà che saremo noi a non aver
capito.
Quello che invece è inammissibile: «Bisognerà avere molto presente che
si sta giocando col fuoco di ultras di due tifoserie particolarmente calde e
che alcune delle accuse sembrano, con tutto il rispetto, scritte da chi dell’ambiente
del calcio non ha mai visto nulla». Perché anche qui il lessico non è
particolarmente felice, ma non lascia adito a dubbio sul contenuto. Chi ha «scritto»
le accuse doveva forse tener conto del fatto che l’ambiente del calcio in qualche
modo toglie loro peso o, peggio, le fa diventare pretesto, se non causa, di ulteriori disordini? Meglio pensare che Mentana non fosse in serata.
lunedì 22 settembre 2014
Avranno imparato la lezione, uno pensa
Hanno
fatto così anche con Berlusconi, per vent’anni, e non è servito a niente. Avranno
imparato la lezione, uno pensa. Macché, anche stavolta pensano che a far perdere
consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a coglierlo in contraddizione
con se stesso, dar prova che non sia uomo di parola, che non mantenga le
promesse, che cambi idea con la disinvoltura con cui una puttana passa da
cliente a cliente. Così con Renzi: twittava #enricostaisereno e due minuti dopo se
lo inculava, diceva che le Europee non fossero un test per il governo e ora fa
il gradasso come se quel 40,8% l’avesse preso alle Politiche, prometteva
miracoli nei primi cento giorni e ora ne pretende mille, diceva che l’art. 18
fosse un problema posto solo nel dibattito mediatico e ora lo mette al centro
del Jobs act…. Come se il paese avesse bisogno di un galantuomo a Palazzo
Chigi.
È che questi lodevolissimi spulciatori di bestioni sono sentimentalmente
democratici, convinti che alla gente faccia difetto solo la memoria. Magari. È che
alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto la buona coscienza. Ha
bisogno di un millantatore in cui credere, qualcuno che incarni i suoi stessi difetti
con l’autocompiacimento di chi li sappia vantarli come pregi, esaltandoli a carattere
nazionale. Mente? Lo farà a fin di bene, per mobilitare le forze della
speranza. Imbroglia? E chi non lo fa? Ma è possibile che mai nessuno noti nelle movenze, nei toni e nelle smorfie di questi Uomini della Provvidenza le stesse movenze, gli stessi toni e le stesse smorfie di chi applaude loro? Di questa gente sono semplicemente il medium. Fosse bastato rammentare a questa gente la
promessa di un milione di posti di lavoro e il meno tasse per tutti, quanto
sarebbe durato Berlusconi? Volevano credergli, nessuno avrebbe potuto togliergli
la malia del feticcio, se non chi avesse trovato il modo di rubargliela.
Anticipo
l’obiezione: possibile che la gente sia tanto in malafede? Non tutta, solo la
maggioranza. Ed è una maggioranza che rimane salda attraverso i
decenni, forte come l’ignoranza quando è contenta di se stessa, compatta pure
quando i flussi elettorali la descrivono liquidissima, senza soluzione di continuità anche quando si divide in due schieramenti: è l’informe e anonimo
maggioritario inetto alla libertà e alla responsabilità. Perché un paese come
questo dovrebbe salvarsi dal fallimento? Non sarebbe giusto, via.
domenica 21 settembre 2014
[...]
Uno
dei miei tanti limiti è il non riuscire ad arrivare neppure al secondo
capoverso degli articoli che trattano di quei grovigli di srl coi quali una
razza di individui a me aliena più dei Grigi di Zeta Reticuli riesce a cavar
soldi dall’erario pubblico, dagli enti previdenziali o da soci sprovveduti, poco
dentro o poco fuori il frastagliatissimo contorno del diritto societario. Con
le aziende della famiglia Renzi mi sono armato di pazienza e mi sono inflitto
una duegiorni di full immersion, recuperando tutto quello che ho trovato in
rete, sfogliando codici e gazzette ufficiali, leggendo sentenze e statuti,
arrivando a costruire pure il classico schemino coi rettangolini e le freccette.
Era solo un pretesto, l’ho capito quando ho messo tutto via avvertendo con
grave imbarazzo che in me prendevano forma Bouvard e Pécuchet con le facce di Lillo
e Travaglio: in realtà non mi interessava affatto capire quanto di illegale
possa esserci stato nella gestione di quegli affari, volevo solo metter naso
nel milieu, ficcar le mani nel letame dal quale è nato il fiore che oggi l’Italia
s’appunta in petto. E devo dire che non sono stato deluso nelle aspettative,
perché una cosa è lo studio di un carattere a partire da tratti biografici
tutto sommato aspecifici, un’altra è il coniugarli all’esempio che hai avuto in
tu’ babbo.
Un babbo che probabilmente uscirà pure pulito dall’inchiesta in
corso, ma che senza dubbio mostra tutta la patognomonica del maneggione di
provincia. Sembra quasi di vederli, padre e figlio, una ventina d’anni fa,
discutere di affari: embrione di una riunione del Consiglio dei Ministri. «La
Nazione esce col Rigoletto in allegato, ocché tu ci vedresti a strillonarlo, un
gobbo in abiti del Seicento o un Verdi in palandrana?». «Il
Verdi costa meno e fa la sua porca figura. Piuttosto c’è il negro che continua
a rompere il cazzo per la questione dei contributi, ocché si fa, glieli si paga
o all’Inps abbiamo qualche amico?».
sabato 20 settembre 2014
C’è complottismo e complottismo
C’è
complottismo e complottismo, la gamma è così ampia che rende pressoché
impossibile un loro inquadramento tassonomico, qualunque sia la ratio con la
quale si intenda procedere. Se infatti si decide di raggrupparli per le entità
cospirative responsabili del complotto (Savi di Sion, Massoneria, Cia, Gruppo
Bilderberg, Mafia, Servizi Deviati, P2, ecc.), la classificazione regge solo
fino a un certo punto, perché non di rado la teoria cospirativa ne contempla intrecci
sinergici. Così se il criterio prende a oggetto la struttura narrativa della
teoria, perché in essa, anche se variamente combinati, convergono sempre gli
stessi elementi. Né va meglio col cercare di assegnare ad ognuna di queste
costruzioni letterarie un differente grado sulla scala che dall’arbitraria
concatenazione di presunte coincidenze sale fino alla più malata delle paranoie,
perché l’attribuzione avrebbe giocoforza discontinuità di metodo. Sarà seccante
per le conseguenze, perché al buon senso non sfugge che una differenza dovrà
pur esserci tra la teoria di una Spektre che ci ficca microchip sottopelle e
quella che spiega l’avviso di garanzia a Tiziano Renzi come dispettuccio che la
magistratura ha voluto fare a suo figlio per vendicarsi del fatto che quello le
abbia scorciato le ferie, e che dev’essere pure una differenza bella grossa, ma
così stanno le cose: in entrambi i casi, la costruzione regge su un vizio di
argomentazione, e non è affatto detto che nel secondo caso sia in gioco un
fattore di natura epistemologica, mentre nel primo sia di tipo psichiatrico; in
entrambi i casi, la teoria regge sull’impossibilità di essere smentita se non
nel rigetto di un sospetto che non può produrre prove, e che tuttavia non può
essere rigettato, pena l’esser vittima consenziente del complotto, dunque in
qualche modo complice; in entrambi i casi, non c’è modo di escludere che c’entrino
pure i Rettiliani. Hai voglia a far presente che l’avviso di garanzia fosse nel
più ordinario dei calendari e che a darne notizia sia stato proprio l’indagato:
nulla potrà mai far vacillare il complottista dalla certezza che sei mesi fa il
babbo del Cazzaro sia stato fatto oggetto delle attenzioni dell’inquirente in
previsione che Palazzo Chigi licenziasse il decreto che la magistratura così
vuole ammazzare in culla. A sollevare anche soltanto un dubbio, non c’è dubbio,
si è giustizialisti. E per quanto un avviso di garanzia sia – appunto – un atto di garanzia in favore dell’indagato, non sospettare ci sia dietro una congiura fa perdere
punti alla reputazione di garantista, ammesso che uno ne abbia uno straccio. C’è coincidenza, dunque vi è nesso e, oplà, c’è il fatto. A negarlo, legittimo il sospetto che le toghe rosse vi
abbiano ficcato un microchip sottopelle.
giovedì 18 settembre 2014
[...]
Quand’anche
la Costituzione riconoscesse a un Presidente del Consiglio le prerogative di
cui Matteo Renzi è convinto di godere, l’arroganza con cui le vanta sarebbe
ugualmente irritante. Fatto sta che la Costituzione formale non gliele
riconosce, né il modo in cui è arrivato a Palazzo Chigi lo autorizza a vantarle in virtù di una Costituzione materiale che si vorrebbe attribuisca
al leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni politiche i
poteri del Capo dello Stato in una repubblica presidenziale.
Mai
candidato al ruolo che ricopre, questo stronzo cagato a forza – non riesco a trovare
migliore definizione – non ha avuto altra investitura se non quella del
risultato che il suo partito ha conseguito alle elezioni europee, risultato che
in più di un’occasione, prima del voto, ha ripetuto non avrebbe avuto la valenza
di un test per il suo governo. Governo di cui ha avuto la guida – de plano –
perché intanto era diventato segretario del suo partito. Un partito al quale le
elezioni politiche avevano dato una maggioranza parlamentare zoppa, capace di
strisciare sulla pancia, pur di non tornare alle urne, solo rimangiandosi le
promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte quella di non stringere
alcun tipo di alleanza con il centrodestra. È su questo mucchio di letame che
il gallo gonfia il petto e fa chicchirichì, pensando che sia lui a far sorgere
il sole.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.
martedì 16 settembre 2014
Quando un’azienda dal marchio prestigioso...
Quando
un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie
contraffatte dei suoi prodotti, all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio
il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i
pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di
riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità
sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente
come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim.
Chi
copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal
marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per
gli utili, ma soprattutto per l’immagine. Per quanto l’occhio esperto, infatti,
riuscirà sempre a distinguere il prodotto taroccato da quello originale, man mano
che il primo sarà sempre più simile al secondo, comincerà ad aumentare il
numero di quanti non riusciranno più a cogliere alcuna differenza di qualità
tra i due, e si convincerà che quello contraffatto, tutto sommato, sia un
affare. È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a
sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi
interessi.
Non
siamo ancora a questo punto con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario
Adinolfi smercia in provincia. È come con le prime Louis Vuitton false che
cominciarono a girare una trentina d’anni fa: al momento, solo a un occhio
estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità
e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la
cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta
c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le
borchie in ottone e quelle in alluminio indorato. È differenza che al momento
si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a
preoccuparmi.
Sia
chiaro, l’antiabortista d’una certa classe continuerà a scegliere un Ferrara
originale, che peraltro col tempo acquista quei segni di usura che impreziosiscono
l’oggetto, ma si sa come va il mondo, e per una donna di classe che non rinuncerà
mai a una Louis Vuitton certificata ci sarà sempre una dozzina di sciacquette
che s’illuderanno di fare bella figura spendendo solo trenta euro dal primo vucumprà.
lunedì 15 settembre 2014
Inventing the Individual
Non
si può che esser grati a chi recensisca un saggio illustrandone la tesi in modo
chiaro, riportandone in virgolettato i passi salienti, meglio ancora se la
recensione sia integrata da un’intervista all’autore del volume a ulteriore
puntualizzazione di quanto potrebbe sollevare qualche perplessità, e il tutto venga
presentato al lettore senza alcun rilievo critico, anzi, con un tocco di
affettuosa benevolenza, perché se la tesi è cretina, e cretini gli argomenti
che dovrebbero sostenerla, ci si risparmia l’acquisto del mattone. Grazie a
Marco Ventura, dunque, per la sua recensione di Inventing the Individual di Larry Siedentop (La laicità è nata cristiana – la
Lettura, 14.9.2014).
Tesi
cretina, quella di Siedentop, ma non originale: «Abbiamo smarrito la genealogia della laicità liberale; soprattutto,
perché non ne comprendiamo più il fondamento cristiano». Così, «il principio liberale che il cristianesimo
ha inventato è ormai una fede nell’uomo senza fede in Dio». Com’è potuto
capitare? Semplice. È che «l’Umanesimo e
l’Illuminismo hanno cercato nel mondo greco-romano quella fondazione della
laicità liberale che stava invece nel Medioevo cristiano» e questo ha dato
vita a «due eresie liberali: da un lato
la libera scelta degenera in mercato senza giustizia, in interesse cieco
(eresia utilitarista); dall’altro l’individuo si isola, non va oltre i legami
familiari e amicali; evaporano lo spirito civico e l’impegno politico (eresia
individualista)». E così il liberalismo non è più cristiano, ahinoi.
È
evidente che con l’individualismo di John Stuart Mill e l’utilitarismo di Jeremy
Bentham siamo già al tramonto del liberalismo, che invece deve aver avuto il
suo momento di massimo fulgore con Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino. È
altresì evidente che il liberalismo contro il quale Gregorio XVI scagliava i
suoi fulmini non fosse vero liberalismo: «Assurda
ed erronea sentenza o piuttosto delirio – diceva – che
si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza»; e
deprecava la «mai abbastanza esecrata ed
aborrita libertà della stampa»; e guai a «coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno» (Mirari vos, 1832).
Un
po’ di chiarezza, dunque. Il liberismo – il vero liberalismo – ripudia la
centralità dell’individuo, al posto dell’utile mette il necessario, schifa la
separazione tra Stato e Chiesa, è contro la libertà di pensiero e di coscienza,
contro la libertà di stampa, contro l’istruzione di massa… Non bastavano gli
editorialisti di Avvenire? Avevamo
bisogno di Siedentop?
domenica 14 settembre 2014
[...]
Mica
dev’essere solo bella, Miss Italia 2014, Simona Ventura dice che deve avere
anche personalità. Sarà per questo che a una delle candidate chiede di tirar
giù il suo jolly, l’imitazione della scimmia. I giurati sembrano apprezzare, ma
la presentatrice sa che la ragazza può dare di più: «E adesso la scimmia in
calore». Poi, tra una dozzina d’anni, sarà una pagina di antologia televisiva.
[...]
L’insulsaggine
di certi autorevoli editorialisti si diluisce nei tweet di certi poveri
sfessati, o forse è il contrario, è l’insulsaggine di certi poveri sfessati che
viene distillata da certi autorevoli editorialisti, anche se non è escluso che
le due cose facciano sistema in un grande alambicco a serpentina che ricircola la
stessa insulsaggine, risciolta nella più tonta delle dabbenaggini dopo essere
stata concentrata nei più intensi dei sussieghi, e via di seguito.
Sia come
sia, una delle più insulse opinioni così correnti è che la politica italiana
dovrebbe pigliar consiglio dai moniti del papa – di questo papa – come se
questo papa non si limitasse a frasi fatte, insieme ridondanti della più
sciatta retorica e vuote di ogni minima sostanza. Roba che può suonare bene ad
ogni orecchio, come in realtà accade, ma totalmente priva del ben che minimo
contenuto che possa dirsi, non dico soluzione, ma per lo meno indirizzo.
Non un
programma, nemmeno il vago accenno di quella potrebbe essere la linea di un
progetto: altisonanti chiacchiere, magniloquenti frasi che sembrano non aver
altro scopo che cercare il consenso più ampio, perciò del tutto prive di quanto
potrebbe circoscriverlo e mobilitarlo su un’opzione. La guerra è una follia, e
chi non è d’accordo? La politica si deve occupare di chi muore di fame, e
trovami qualcuno che dica il contrario.
Cose così, sicché se in questo straparlare
di niente c’è ingerenza, e c’è, la contesa non è sul primato
nella gestione della cosa pubblica, ma sul consenso che alla stessa politica non
serve ad altro che ad autolegittimarsi. In questo, Chiesa e Stato sembrano
mostrare la stessa impotenza dinanzi ai problemi: la sola forza di cui sembrano
dotati è quella in grado di assicurare loro un congrua fidelizzazione di cieche speranze, nutrite esclusivamente di attesa.
Se socialismo e
liberalismo sono ormai parole vuote che la politica evita in nome di un
pragmatismo che non ha visione, né progetto, tutto speso a rappezzare buchi con
toppe che non reggono due mesi, la Dottrina Sociale della Chiesa a oltre un secolo dalla
sua nascita si mostra altrettanto inservibile. Doveva essere la terza via,
perciò nasceva ambigua, sospesa sulla composizione delle sue contraddizioni interne,
ma paradossalmente mostra i suoi limiti proprio dopo l’eclissi del sogno
socialista e una delle più acute delle cicliche crisi del capitale: non aveva uno specifico, e non ne era neanche il sincretico.
Politica e religione – o forse è meglio dire: classe politica e gerarchia ecclesiastica – sono ugualmente prive di soluzioni: a entrambe manca la capacità di cavarle fuori dalla dialettica dei conflitti che danno corpo ai problemi, sono costrette ad ignorarli per una vocazione al plebiscitario che non è in grado neppure di inventarsi un neocorporativismo. Perciò invitare
Renzi ad ascoltare le parole di Bergoglio è insieme la più crudele delle cattiverie e il più stupido dei consigli.
giovedì 11 settembre 2014
[...]
Abituati
a vederli litigare sempre, è bello vedere che una volta tanto Ferrara e Travaglio
siano d’accordo almeno su una cosa, e che il caso voglia lo scrivano in sincrono,
lo stesso giorno, con varietà d’accento quasi impercettibile, perché di Berlusconi
uno scrive che Renzi sia l’«erede», l’altro
il «pupillo», ma sbagliano entrambi. È
che il Berlusconi dei bei tempi andati – per opposte ragioni, è ovvio – manca
molto a entrambi. Per meglio dire, manca molto ai loro lettori, ed entrambi, da
seri mestieranti, dei loro lettori si sforzano d’essere al meglio l’anima e la
voce. Probabilmente, poi, sapranno pure non sia affatto vero, o almeno lo intuiranno, ma per oggi i loro aficionados
potranno consolarsi d’aver trovato in pagina la suggestione di una continuità come di vertebra che segue a vertebra lungo il groppone della stessa bestia. In fondo sono giornalisti, di più non si può pretendere.
Cazzate,
Renzi sta a Berlusconi come la silifide sta alla blenorragia. Le trovi nello stesso posto, analoghe le cause che ne hanno favorito l’insorgenza, su entrambe hanno lo stesso effetto i derivati della penicillina, ma l’agente patogeno è diverso, e diverso è il meccanismo l’azione, diverse le possibili complicanze sul medio e sul lungo periodo, diversi gli esiti. E la sifilide è senza dubbio peggio.
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