lunedì 29 settembre 2014

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Il corsivo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di lunedì 29 settembre (Della Valle faccia solo l’imprenditore) chiude in questo modo: «Robert Musil ha narrato nell’Uomo senza qualità le velleità politiche del magnate dell’industria Arnheim nella costruzione di una maestosa “Azione Parallela”. Finì male: facile profezia». Tre perplessità. La prima è relativa al fatto che Arnheim comincia a frequentare le riunioni in casa Tuzzi, dove si discute dell’organizzazione dell’“Azione Parallela”, solo perché è invaghito di Diotima: quello che cerca di sfruttare l’impresa, di cui peraltro è il promotore, per assecondare le sue velleità politiche è il conte Leinsdorf. La seconda è relativa a quel «finì male»: in realtà Robert Musil morì prima di portare a termine L’uomo senza qualità e al punto in cui lasciò la narrazione degli eventi non c’è traccia di alcun fallimento, né del progetto dell’“Azione Parallela”, né dei disegni personali del conte Lainsdorf. Ma la perplessità più forte è relativa a quel «© RIPRODUZIONE RISERVATA» in calce al corsivo: chi si sognerebbe mai di appropriarsi delle cazzate scritte da Pierluigi Battista?

Da fetenti

Il 78% dei napoletani è dell’idea che Luigi De Magistris farebbe bene a dimettersi, ma l’attenzione va posta al restante 22%, solidale al suo fottersene di una legge dello Stato che invece gli impone di farlo. Tra chi pensa faccia bene dev’esserci chi ha apprezzato le sue parole al funerale di Ciro Esposito, quando deplorando chi sospettava proprio ciò che le indagini avrebbero successivamente accertato, e cioè che il giovane fosse del manipolo di ultras che alla finale di Coppa Italia era arrivato armato di bastoni e di coltelli, intenzionato a provocare disordini, prese le difese della teppaglia e lanciò un’accusa ai responsabili dell’ordine pubblico: «Ciro si è messo tra l’odio e chi voleva solo vedere una partita… Chi non ha garantito l’ordine paghi». Ma in quel 22% ci sarà pure chi ha apprezzato l’elogio funebre in morte di Davide Bifolco: «È inaccettabile che un ragazzo possa morire in questo modo, a 17 anni. Non accetto la teoria colpevolista, fondata sul fatto che il ragazzo fosse napoletano e provenisse da un quartiere difficile. Il sindaco è vicino ai suoi familiari e ai suoi amici». Da fetenti, come non essere solidale al caro Giggino che ha sempre trovato una parola buona per i fetenti? Aspettiamo che al decreto di sospensione dica: «A me ’u Prefette m’adda fa’ sule ’nu bucchine», e sentiremo un’ovazione. 

sabato 27 settembre 2014

La vista da lì


Lo schema riprodotto qui sopra è tratto da Elementi per una teoria dei media (1970) di Hans Magnus Enzenberger (insieme ad altri saggi, in: Palaver, Einaudi 1976 – pagg. 79-113), e costringe a un riso amaro: ai tempi in cui internet non c’era, si immaginava che qualcosa come internet avrebbe emancipato le masse. Prima di ogni altra considerazione, però, c’è da chiedersi se questa inferenza sia lecita. È un medium, internet? Mi pare sia impossibile negarlo. Risponde alle caratteristiche descritte nella colonna a destra nello schema? Direi di sì. Bene, ha emancipato le masse? Qui la risposta non può essere altrettanto scontata. In fondo, è solo da vent’anni che internet è alla portata di chi voglia servirsene, dunque potrebbe essere troppo presto per escludere che sia in grado di farlo. Ma si ha qualche indizio che lo stia facendo o che almeno stia preparando il terreno? E poi: emancipare le masse da cosa? Qual è il mancipium dal quale dovrebbe/potrebbe liberarci? C’è da attendersi che possa favorire la democrazia?
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A me basta questo per chiudere La vista da qui di Massimo Mantellini (minimum fax, 2014) con la netta convinzione che l’ottimismo che parrebbe voler infondere al lettore – ottimismo temperato da un sano realismo, ovviamente, perché l’autore è persona amabilmente posata – sia lo stesso di Hans Magnus Enzenberger. Per star lì, più di quaranta anni dopo, a consigliarci di aver fiducia nell’irresistibile pulsione che la plebe avrebbe a farsi popolo, è da considerare libro più che coraggioso: direi quasi temerario.    

venerdì 26 settembre 2014

mercoledì 24 settembre 2014

Più tonto che tondo

Ancora una volta il chierico dimostra la sua superiorità sul laico nell’arte di infinocchiare i gonzi, per averne prova basta porgere l’orecchio al coro di lodi che si leva in queste ore per l’arresto di Wesolowski deciso da Bergoglio. Parliamo del tizio che da nunzio nella Repubblica Dominicana commise abusi sessuali su minori, così recita la sentenza di primo grado emessa dal tribunale canonico che qualche mese fa gli comminò il massimo della pena, e cioè – tenetevi forte, ché potrà cogliervi un brivido di orrore – la dimissione dallo stato clericale. Sul reato la Repubblica Dominicana aveva già avviato un procedimento penale, però destinato a rimanere lettera morta per il tempestivo richiamo di Wesolowski a Roma, e questo alla faccia della «cooperazione con le autorità civili» prescritta dalla Lettera circolare della Congregazione per la Dottrina della Fede del 3 maggio 2011 (I, 2, e), uno di quei fluviali documenti ufficiali in cui l’ipocrisia vaticana ama sciacquarsi le palle. Già condannato in primo grado al massimo della pena, dunque, e in attesa del processo d’appello, ma non soggetto ad alcun provvedimento di restrizione della libertà, il Wesolowski, almeno fino a ieri. Nell’impossibilità di inquinare le prove o di procurarsene di false perché era lontano migliaia di chilometri da dove si erano svolti i fatti, nell’impossibilità di reiterare il reato perché di sua spontanea volontà aveva deciso di aspettare il processo di secondo grado standosene buonin buonino in un convento dove al massimo poteva molestare i puttini che incorniciavano labside, nell’impossibilità di sottrarsi con la fuga al peggio del peggio che poteva essere al massimo una conferma della sentenza, che da cittadino della Città del Vaticano non gli avrebbe comportato ulteriore aggravamento della sua condizione, ecco che gli arriva tra capo e collo il provvedimento che un mondo più tonto che tondo strombazza come arresto, e che probabilmente consta del trasferimento da un convento a un altro convento. Evento storico, si strepita, come se tanta severità fosse inaudita, e parliamo del Vaticano, dove la pena di morte è stata formalmente abolita solo nel 2001. Un botto mediatico di grande effetto, senza dubbio, e alla vigilia di un Sinodo che per Bergoglio si annunciava pieno di incognite, comunque assai tosto. Ora potrà affrontarlo molto più serenamente, forte del plauso generale che ammansirà chi minacciava di rovinargli il giocattolo. E tutto questo – onestamente bisogna riconoscerglielo – con un piccolo grande colpo di genio, che per giunta non gli costa nulla. Perché, «in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, can. 331), e perché «non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» (ibidem, can. 333, § 3), in culo ad ogni dettato procedurale: è l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, tutto insieme, e nessun Parlamento, nessuna Corte Costituzionale, nessun Tribunale del Riesame può rompergli il cazzo. Ad illustrare al mondo che l’esser figlio di puttana dà i migliori risultati solo quando hai completamente libere le mani. In questo, il laico parte sempre con l’handicap.    

martedì 23 settembre 2014

Due rilievi

Dopodomani torna Servizio Pubblico e l’homepage del suo website offre un’anticipazione della prima puntata della nuova stagione televisiva con un breve estratto da Napoli senza casco, un servizio firmato da Luca Bertazzoni, accompagnato dal seguente sommario: «Napoli piange ancora Davide Bifolco, ma a meno di 20 giorni dalla morte del ragazzo niente sembra essere cambiato al Rione Traiano: mentre non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto – la versione dei carabinieri e della famiglia non collimano – ragazzi di 13 anni continuano a girare senza casco, patente e assicurazione. “Non abbiamo i soldi per farla. È normale girare senza casco: lo Stato m’adda fa nu bucchin”», riprendendo in virgolettato la colorita espressione di uno degli indigeni.
Due rilievi mi sembrano opportuni. Il primo è relativo allo scarso rispetto per l’ortografia del dialetto napoletano. Infatti, «m’adda fa» («deve farmi») letteralmente sta per «ha da fare a me» («mi ha da fare»), e dunque «fa» vuole l’apostrofo che indica il troncamento della sillaba finale («-re»): la forma corretta è «fa’» o eventualmente quella pur impropria ma largamente invalsa con l’accento («fà»). Di poi, quel «nu» manca dell’apostrofo di aferesi, infatti è articolo indeterminativo (sta per «unu»), dunque la sua forma corretta è «’nu». Per finire, i sostantivi che finiscono con vocale muta la esprimono graficamente con una «e». Insomma, la frase va corretta in questo modo: «lo Stato m’adda fa’ ’nu bucchine» (volendo rendere in dialetto anche «lo Stato»: «’o State m’adda fa’, ecc.»).
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».  

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Tragica figura, quella di Gennaro Serra di Cassano, giacobino partenopeo di illustre casata  e tra i protagonisti della sfortunata parentesi repubblicana del 1799 chiusa nel sangue dai lazzari nostalgici del loro re fellone. Diomede Marinelli scrive che prima di poggiare la testa sul ceppo in Piazza Mercato disse: «Ho sempre lottato per il loro bene e ora eccoli a festeggiare la mia morte». Figura tragica, dunque, ma anche ridicola.

TgLa7, 22.9.2014 - h. 20,18



Il TgLa7 dà notizia che Genny ‘a Carogna è stato raggiunto da un provvedimento di custodia cautelare per i fatti che l’hanno visto tra i protagonisti dei torbidi che funestarono la finale di Coppa Italia del 3 maggio.
Non malaccio, il filmato di Flavia Filippi. Riassume i fatti, dà conto degli sviluppi delle indagini e chiude illustrando in sintesi l’idea che il magistrato s’è fatto di quanto accadde a Roma, quel giorno, nei pressi dello Stadio Olimpico: né martiri, né eroi, solo uno scontro tra due bande di delinquenti. Ancorché implicito, v’è cenno a quanto è emerso nelle ultime settimane, e che oggi pare imporre una rilettura assai diversa da quella che si diede a caldo, quando sembrò che si fosse trattato di un agguato ai danni di inermi tifosi in trasferta: un centinaio di ultras del Napoli, armati di bastoni e di coltelli, aggredirono quattro o cinque ultras della Roma, armati di pistola, e ci scappò il morto.
Neanche varrebbe la pena di star qui parlarne, se non fosse per il commento di Enrico Mentana: «Il fatto più sconcertante è che questo interviene cinque mesi dopo i fatti, per effetto di una decisione che riguarda la visione di alcuni filmati che erano già a disposizione il giorno dopo i fatti, con accuse che almeno in parte sono poco affini con le cose che si vedono dagli stessi filmati».
Non è così, d’altronde è lo stesso servizio filmato ad aver dato conto del fatto che proprio grazie alle indagini condotte in questi mesi si stia ora arrivando a un quadro diverso da quello che appariva all’inizio. Ma poi non è Mentana stesso a riconoscere che le accuse ora mosse non sono interamente supportate dalle prove video? Boh, si sarà espresso male, anzi, ammettiamo con umiltà che saremo noi a non aver capito.
Quello che invece è inammissibile: «Bisognerà avere molto presente che si sta giocando col fuoco di ultras di due tifoserie particolarmente calde e che alcune delle accuse sembrano, con tutto il rispetto, scritte da chi dell’ambiente del calcio non ha mai visto nulla». Perché anche qui il lessico non è particolarmente felice, ma non lascia adito a dubbio sul contenuto. Chi ha «scritto» le accuse doveva forse tener conto del fatto che l’ambiente del calcio in qualche modo toglie loro peso o, peggio, le fa diventare pretesto, se non causa, di ulteriori disordini? Meglio pensare che Mentana non fosse in serata.

lunedì 22 settembre 2014

Avranno imparato la lezione, uno pensa

Hanno fatto così anche con Berlusconi, per vent’anni, e non è servito a niente. Avranno imparato la lezione, uno pensa. Macché, anche stavolta pensano che a far perdere consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a coglierlo in contraddizione con se stesso, dar prova che non sia uomo di parola, che non mantenga le promesse, che cambi idea con la disinvoltura con cui una puttana passa da cliente a cliente. Così con Renzi: twittava #enricostaisereno e due minuti dopo se lo inculava, diceva che le Europee non fossero un test per il governo e ora fa il gradasso come se quel 40,8% l’avesse preso alle Politiche, prometteva miracoli nei primi cento giorni e ora ne pretende mille, diceva che l’art. 18 fosse un problema posto solo nel dibattito mediatico e ora lo mette al centro del Jobs act…. Come se il paese avesse bisogno di un galantuomo a Palazzo Chigi.
È che questi lodevolissimi spulciatori di bestioni sono sentimentalmente democratici, convinti che alla gente faccia difetto solo la memoria. Magari. È che alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto la buona coscienza. Ha bisogno di un millantatore in cui credere, qualcuno che incarni i suoi stessi difetti con l’autocompiacimento di chi li sappia vantarli come pregi, esaltandoli a carattere nazionale. Mente? Lo farà a fin di bene, per mobilitare le forze della speranza. Imbroglia? E chi non lo fa? Ma è possibile che mai nessuno noti nelle movenze, nei toni e nelle smorfie di questi Uomini della Provvidenza le stesse movenze, gli stessi toni e le stesse smorfie di chi applaude loro? Di questa gente sono semplicemente il medium. Fosse bastato rammentare a questa gente la promessa di un milione di posti di lavoro e il meno tasse per tutti, quanto sarebbe durato Berlusconi? Volevano credergli, nessuno avrebbe potuto togliergli la malia del feticcio, se non chi avesse trovato il modo di rubargliela.
Anticipo l’obiezione: possibile che la gente sia tanto in malafede? Non tutta, solo la maggioranza. Ed è una maggioranza che rimane salda attraverso i decenni, forte come l’ignoranza quando è contenta di se stessa, compatta pure quando i flussi elettorali la descrivono liquidissima, senza soluzione di continuità anche quando si divide in due schieramenti: è l’informe e anonimo maggioritario inetto alla libertà e alla responsabilità. Perché un paese come questo dovrebbe salvarsi dal fallimento? Non sarebbe giusto, via.  

domenica 21 settembre 2014

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Uno dei miei tanti limiti è il non riuscire ad arrivare neppure al secondo capoverso degli articoli che trattano di quei grovigli di srl coi quali una razza di individui a me aliena più dei Grigi di Zeta Reticuli riesce a cavar soldi dall’erario pubblico, dagli enti previdenziali o da soci sprovveduti, poco dentro o poco fuori il frastagliatissimo contorno del diritto societario. Con le aziende della famiglia Renzi mi sono armato di pazienza e mi sono inflitto una duegiorni di full immersion, recuperando tutto quello che ho trovato in rete, sfogliando codici e gazzette ufficiali, leggendo sentenze e statuti, arrivando a costruire pure il classico schemino coi rettangolini e le freccette.
Era solo un pretesto, l’ho capito quando ho messo tutto via avvertendo con grave imbarazzo che in me prendevano forma Bouvard e Pécuchet con le facce di Lillo e Travaglio: in realtà non mi interessava affatto capire quanto di illegale possa esserci stato nella gestione di quegli affari, volevo solo metter naso nel milieu, ficcar le mani nel letame dal quale è nato il fiore che oggi l’Italia s’appunta in petto. E devo dire che non sono stato deluso nelle aspettative, perché una cosa è lo studio di un carattere a partire da tratti biografici tutto sommato aspecifici, un’altra è il coniugarli all’esempio che hai avuto in tu’ babbo.
Un babbo che probabilmente uscirà pure pulito dall’inchiesta in corso, ma che senza dubbio mostra tutta la patognomonica del maneggione di provincia. Sembra quasi di vederli, padre e figlio, una ventina d’anni fa, discutere di affari: embrione di una riunione del Consiglio dei Ministri. «La Nazione esce col Rigoletto in allegato, ocché tu ci vedresti a strillonarlo, un gobbo in abiti del Seicento o un Verdi in palandrana?». «Il Verdi costa meno e fa la sua porca figura. Piuttosto c’è il negro che continua a rompere il cazzo per la questione dei contributi, ocché si fa, glieli si paga o all’Inps abbiamo qualche amico?».

sabato 20 settembre 2014

C’è complottismo e complottismo

C’è complottismo e complottismo, la gamma è così ampia che rende pressoché impossibile un loro inquadramento tassonomico, qualunque sia la ratio con la quale si intenda procedere. Se infatti si decide di raggrupparli per le entità cospirative responsabili del complotto (Savi di Sion, Massoneria, Cia, Gruppo Bilderberg, Mafia, Servizi Deviati, P2, ecc.), la classificazione regge solo fino a un certo punto, perché non di rado la teoria cospirativa ne contempla intrecci sinergici. Così se il criterio prende a oggetto la struttura narrativa della teoria, perché in essa, anche se variamente combinati, convergono sempre gli stessi elementi. Né va meglio col cercare di assegnare ad ognuna di queste costruzioni letterarie un differente grado sulla scala che dall’arbitraria concatenazione di presunte coincidenze sale fino alla più malata delle paranoie, perché l’attribuzione avrebbe giocoforza discontinuità di metodo. Sarà seccante per le conseguenze, perché al buon senso non sfugge che una differenza dovrà pur esserci tra la teoria di una Spektre che ci ficca microchip sottopelle e quella che spiega l’avviso di garanzia a Tiziano Renzi come dispettuccio che la magistratura ha voluto fare a suo figlio per vendicarsi del fatto che quello le abbia scorciato le ferie, e che dev’essere pure una differenza bella grossa, ma così stanno le cose: in entrambi i casi, la costruzione regge su un vizio di argomentazione, e non è affatto detto che nel secondo caso sia in gioco un fattore di natura epistemologica, mentre nel primo sia di tipo psichiatrico; in entrambi i casi, la teoria regge sull’impossibilità di essere smentita se non nel rigetto di un sospetto che non può produrre prove, e che tuttavia non può essere rigettato, pena l’esser vittima consenziente del complotto, dunque in qualche modo complice; in entrambi i casi, non c’è modo di escludere che c’entrino pure i Rettiliani. Hai voglia a far presente che l’avviso di garanzia fosse nel più ordinario dei calendari e che a darne notizia sia stato proprio l’indagato: nulla potrà mai far vacillare il complottista dalla certezza che sei mesi fa il babbo del Cazzaro sia stato fatto oggetto delle attenzioni dell’inquirente in previsione che Palazzo Chigi licenziasse il decreto che la magistratura così vuole ammazzare in culla. A sollevare anche soltanto un dubbio, non c’è dubbio, si è giustizialisti. E per quanto un avviso di garanzia sia – appunto – un atto di garanzia in favore dell’indagato, non sospettare ci sia dietro una congiura fa perdere punti alla reputazione di garantista, ammesso che uno ne abbia uno straccio. C’è coincidenza, dunque vi è nesso e, oplà, c’è il fatto. A negarlo, legittimo il sospetto che le toghe rosse vi abbiano ficcato un microchip sottopelle.  

giovedì 18 settembre 2014

Segnalibro

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Quand’anche la Costituzione riconoscesse a un Presidente del Consiglio le prerogative di cui Matteo Renzi è convinto di godere, l’arroganza con cui le vanta sarebbe ugualmente irritante. Fatto sta che la Costituzione formale non gliele riconosce, né il modo in cui è arrivato a Palazzo Chigi lo autorizza a vantarle in virtù di una Costituzione materiale che si vorrebbe attribuisca al leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni politiche i poteri del Capo dello Stato in una repubblica presidenziale.
Mai candidato al ruolo che ricopre, questo stronzo cagato a forza – non riesco a trovare migliore definizione – non ha avuto altra investitura se non quella del risultato che il suo partito ha conseguito alle elezioni europee, risultato che in più di un’occasione, prima del voto, ha ripetuto non avrebbe avuto la valenza di un test per il suo governo. Governo di cui ha avuto la guida – de plano – perché intanto era diventato segretario del suo partito. Un partito al quale le elezioni politiche avevano dato una maggioranza parlamentare zoppa, capace di strisciare sulla pancia, pur di non tornare alle urne, solo rimangiandosi le promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte quella di non stringere alcun tipo di alleanza con il centrodestra. È su questo mucchio di letame che il gallo gonfia il petto e fa chicchirichì, pensando che sia lui a far sorgere il sole.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.

martedì 16 settembre 2014

Quando un’azienda dal marchio prestigioso...


Quando un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti, all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim.
Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. Per quanto l’occhio esperto, infatti, riuscirà sempre a distinguere il prodotto taroccato da quello originale, man mano che il primo sarà sempre più simile al secondo, comincerà ad aumentare il numero di quanti non riusciranno più a cogliere alcuna differenza di qualità tra i due, e si convincerà che quello contraffatto, tutto sommato, sia un affare. È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi.
Non siamo ancora a questo punto con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in provincia. È come con le prime Louis Vuitton false che cominciarono a girare una trentina d’anni fa: al momento, solo a un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato. È differenza che al momento si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi.
Sia chiaro, l’antiabortista d’una certa classe continuerà a scegliere un Ferrara originale, che peraltro col tempo acquista quei segni di usura che impreziosiscono l’oggetto, ma si sa come va il mondo, e per una donna di classe che non rinuncerà mai a una Louis Vuitton certificata ci sarà sempre una dozzina di sciacquette che s’illuderanno di fare bella figura spendendo solo trenta euro dal primo vucumprà.  

Primo impatto col sistema d’istruzione pubblica




lunedì 15 settembre 2014

Inventing the Individual

Non si può che esser grati a chi recensisca un saggio illustrandone la tesi in modo chiaro, riportandone in virgolettato i passi salienti, meglio ancora se la recensione sia integrata da un’intervista all’autore del volume a ulteriore puntualizzazione di quanto potrebbe sollevare qualche perplessità, e il tutto venga presentato al lettore senza alcun rilievo critico, anzi, con un tocco di affettuosa benevolenza, perché se la tesi è cretina, e cretini gli argomenti che dovrebbero sostenerla, ci si risparmia l’acquisto del mattone. Grazie a Marco Ventura, dunque, per la sua recensione di Inventing the Individual di Larry Siedentop (La laicità è nata cristianala Lettura, 14.9.2014).
Tesi cretina, quella di Siedentop, ma non originale: «Abbiamo smarrito la genealogia della laicità liberale; soprattutto, perché non ne comprendiamo più il fondamento cristiano». Così, «il principio liberale che il cristianesimo ha inventato è ormai una fede nell’uomo senza fede in Dio». Com’è potuto capitare? Semplice. È che «l’Umanesimo e l’Illuminismo hanno cercato nel mondo greco-romano quella fondazione della laicità liberale che stava invece nel Medioevo cristiano» e questo ha dato vita a «due eresie liberali: da un lato la libera scelta degenera in mercato senza giustizia, in interesse cieco (eresia utilitarista); dall’altro l’individuo si isola, non va oltre i legami familiari e amicali; evaporano lo spirito civico e l’impegno politico (eresia individualista)». E così il liberalismo non è più cristiano, ahinoi.
È evidente che con l’individualismo di John Stuart Mill e l’utilitarismo di Jeremy Bentham siamo già al tramonto del liberalismo, che invece deve aver avuto il suo momento di massimo fulgore con Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino. È altresì evidente che il liberalismo contro il quale Gregorio XVI scagliava i suoi fulmini non fosse vero liberalismo: «Assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirio – diceva – che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza»; e deprecava la «mai abbastanza esecrata ed aborrita libertà della stampa»; e guai a «coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno» (Mirari vos, 1832).

Un po’ di chiarezza, dunque. Il liberismo – il vero liberalismo – ripudia la centralità dell’individuo, al posto dell’utile mette il necessario, schifa la separazione tra Stato e Chiesa, è contro la libertà di pensiero e di coscienza, contro la libertà di stampa, contro l’istruzione di massa… Non bastavano gli editorialisti di Avvenire? Avevamo bisogno di Siedentop?

domenica 14 settembre 2014

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Mica dev’essere solo bella, Miss Italia 2014, Simona Ventura dice che deve avere anche personalità. Sarà per questo che a una delle candidate chiede di tirar giù il suo jolly, l’imitazione della scimmia. I giurati sembrano apprezzare, ma la presentatrice sa che la ragazza può dare di più: «E adesso la scimmia in calore». Poi, tra una dozzina d’anni, sarà una pagina di antologia televisiva.

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L’insulsaggine di certi autorevoli editorialisti si diluisce nei tweet di certi poveri sfessati, o forse è il contrario, è l’insulsaggine di certi poveri sfessati che viene distillata da certi autorevoli editorialisti, anche se non è escluso che le due cose facciano sistema in un grande alambicco a serpentina che ricircola la stessa insulsaggine, risciolta nella più tonta delle dabbenaggini dopo essere stata concentrata nei più intensi dei sussieghi, e via di seguito.
Sia come sia, una delle più insulse opinioni così correnti è che la politica italiana dovrebbe pigliar consiglio dai moniti del papa – di questo papa – come se questo papa non si limitasse a frasi fatte, insieme ridondanti della più sciatta retorica e vuote di ogni minima sostanza. Roba che può suonare bene ad ogni orecchio, come in realtà accade, ma totalmente priva del ben che minimo contenuto che possa dirsi, non dico soluzione, ma per lo meno indirizzo.
Non un programma, nemmeno il vago accenno di quella potrebbe essere la linea di un progetto: altisonanti chiacchiere, magniloquenti frasi che sembrano non aver altro scopo che cercare il consenso più ampio, perciò del tutto prive di quanto potrebbe circoscriverlo e mobilitarlo su un’opzione. La guerra è una follia, e chi non è d’accordo? La politica si deve occupare di chi muore di fame, e trovami qualcuno che dica il contrario.
Cose così, sicché se in questo straparlare di niente c’è ingerenza, e c’è, la contesa non è sul primato nella gestione della cosa pubblica, ma sul consenso che alla stessa politica non serve ad altro che ad autolegittimarsi. In questo, Chiesa e Stato sembrano mostrare la stessa impotenza dinanzi ai problemi: la sola forza di cui sembrano dotati è quella in grado di assicurare loro un congrua fidelizzazione di cieche speranze, nutrite esclusivamente di attesa.
Se socialismo e liberalismo sono ormai parole vuote che la politica evita in nome di un pragmatismo che non ha visione, né progetto, tutto speso a rappezzare buchi con toppe che non reggono due mesi, la Dottrina Sociale della Chiesa a oltre un secolo dalla sua nascita si mostra altrettanto inservibile. Doveva essere la terza via, perciò nasceva ambigua, sospesa sulla composizione delle sue contraddizioni interne, ma paradossalmente mostra i suoi limiti proprio dopo l’eclissi del sogno socialista e una delle più acute delle cicliche crisi del capitale: non aveva uno specifico, e non ne era neanche il sincretico.
Politica e religione – o forse è meglio dire: classe politica e gerarchia ecclesiastica – sono ugualmente prive di soluzioni: a entrambe manca la capacità di cavarle fuori dalla dialettica dei conflitti che danno corpo ai problemi, sono costrette ad ignorarli per una vocazione al plebiscitario che non è in grado neppure di inventarsi un neocorporativismo. Perciò invitare Renzi ad ascoltare le parole di Bergoglio è insieme la più crudele delle cattiverie e il più stupido dei consigli. 

giovedì 11 settembre 2014

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Abituati a vederli litigare sempre, è bello vedere che una volta tanto Ferrara e Travaglio siano d’accordo almeno su una cosa, e che il caso voglia lo scrivano in sincrono, lo stesso giorno, con varietà d’accento quasi impercettibile, perché di Berlusconi uno scrive che Renzi sia l’«erede», l’altro il «pupillo», ma sbagliano entrambi. È che il Berlusconi dei bei tempi andati – per opposte ragioni, è ovvio – manca molto a entrambi. Per meglio dire, manca molto ai loro lettori, ed entrambi, da seri mestieranti, dei loro lettori si sforzano d’essere al meglio l’anima e la voce. Probabilmente, poi, sapranno pure non sia affatto vero, o almeno lo intuiranno, ma per oggi i loro aficionados potranno consolarsi d’aver trovato in pagina la suggestione di una continuità come di vertebra che segue a vertebra lungo il groppone della stessa bestia. In fondo sono giornalisti, di più non si può pretendere.
Cazzate, Renzi sta a Berlusconi come la silifide sta alla blenorragia. Le trovi nello stesso posto, analoghe le cause che ne hanno favorito l’insorgenza, su entrambe hanno lo stesso effetto i derivati della penicillina, ma l’agente patogeno è diverso, e diverso è il meccanismo l’azione, diverse le possibili complicanze sul medio e sul lungo periodo, diversi gli esiti. E la sifilide è senza dubbio peggio.