Se
ancora può avere un senso non mandare a cagare il dio che ti chiede di portare
il pupo su in montagna per sgozzarlo offrendoglielo in sacrificio, e
obbedirgli, perché in fondo anche la paranoia ha un senso, che è quello di
offrirci costruzioni letterarie in cui, a piacere, goderecciamente rabbrividire
o amarognolamente sghignazzare, si fa fatica a trovarne uno, che almeno torni
buono per costruirci una barzelletta, nel mettersi in ginocchio davanti a un
sinodo di vescovi implorando lumi sul come far la moglie e la mamma, per giunta
premettendo che qualunque cosa dicano andrà bene, per principio. A chi lo vai a
chiedere, povera donnina, a chi del matrimonio e della maternità ha esperienza solo
per sentito dire, e nel chiuso di un confessionale? Ma perché ti sei sposata,
perché hai messo al mondo dei figli, se non sei in grado di assumerti la
responsabilità di decidere in prima persona? E vabbe’ che ti senti pecorella,
ma in certe cose anche gli ovini hanno una certa indipendenza.
lunedì 6 ottobre 2014
domenica 5 ottobre 2014
Caenorhabditis (elegans)
Non
fosse che la nomenclatura binomiale gli dà l’epiteto di elegans, il Caenorhabditis sarebbe
ottima metafora dell’IdV al suo ultimo stadio: poche cellule, pochissimi neuroni,
difficile capire dove sia la testa e dove sia la coda, striscia, striscia e muore.
Riuniti a Sansepolcro, a 16 anni dalla fondazione del partito, i pochi rimasti
decidono di offrirsi al Pd. Com’è tipico di tutti i nematodi fasmidari, l’organulo
che consente all’animaletto di relazionarsi all’ambiente corrisponde al culo.
A spese di tutte le relazioni intermedie
Al
momento, il vertiginoso calo degli iscritti al Pd viene letto da gran parte dei
commentatori interni ed esterni al partito come la mutazione genetica subita da
un corpo militante che fino a ieri era tra i più fidelizzati. Inevitabile,
dunque, che si discuta in qual misura il dato sia da attribuirsi alla
segreteria di Matteo Renzi, perché pare ovvio che una correlazione debba
esservi, con l’ovvia discordanza nel giudizio di merito che è un dato costante
quando si valuta quel che si attribuisce a una personalità dal forte tratto
divisivo: di qua, chi pensa che l’emorragia di tessere sia il segno di una
grave crisi del partito come comunità di uomini e donne condividenti una pur
labile identità ideologica (ma sarebbe più corretto dire etico-estetica); di
là, chi pensa che questo, tutto sommato, non sia affatto un dato negativo in
vista della nascita di un «partito della nazione», fluido in superficie, ma in
fondo assai più solido, proprio perché includente su un programma, piuttosto che
su un modello antropologico. Può darsi che questo sia vero, in ogni caso non
può essere interpretato come fenomeno che nel Pd trova la testa, quanto la
coda: il calo degli iscritti ai partiti politici italiani è un dato costante e
trasversale da almeno trent’anni. È che l’Italia non era fatta per il
maggioritario, ancorché imperfetto: un bipolarismo basato sulla competizione ad
acquisire consenso dal centro non poteva che accelerare il processo di
deideologizzazione dei partiti tradizionali, d’altronde in atto già dagli anni
Ottanta, portando alla personalizzazione della politica, prima, e alla
confluenza dei due opposti schieramenti al venir meno di uno stabile equilibrio
tra i carismi delle leadership, poi. Era un sistema destinato a erodere
progressivamente le ali estreme per venire a creare un unico polo centripeto,
lasciando all’opposizione solo l’astensionismo elettorale. Si verifica così un’inversione
dello schema che ha caratterizzato la Prima Repubblica, quando l’astensionismo aveva
tratti prevalentemente qualunquistici e il voto era a forte impronta ideologica
(ma sarebbe più corretto dire etico-estetica): al centro va confluendo tutto
ciò che non ha più un colore, mentre ciò che residua delle vecchie culture
politiche si autoemargina, e questo è tanto più evidente nella quota che ne
rappresentava la militanza. Su quanto questo implichi in termini di
riconversione del potere, si può lasciare la parola a chi ha ben descritto il fenomeno (Colin Crouch, Postdemocrazia, Editori Laterza 2003 - pagg. 79-81):
venerdì 3 ottobre 2014
«Si ha ragione di voler avere sempre ragione»
Non
si ha ragione se non di qualcuno. È in
questa constatazione, ovvia solo quando sia palese il carattere asservente
della persuasione, che sta il riconoscimento della natura bellica della
retorica, d’altronde in premessa ad ogni sua trattazione sistematica. Anche il
folle che parlotta da solo combatte contro un avversario, ancorché immaginario,
anche il più duro cammino del saggio verso un’affermazione che egli possa
ritenere rettamente argomentata è un farsi largo tra ostilità che hanno una pur
aleatoria titolarità in fantasmatiche figure di contraddittori. Non c’è
ragionamento, senza che il foro sia campo di battaglia. E non v’è scrittura che
ne dia conto, senza che il suo registro sia – più o meno riconoscibilmente –
diario militare. Andrebbe scoraggiata, dunque, in chi la nutre, l’idea che la
meditazione intima e la discussione pubblica – tra di loro assai più simili di
quanto solitamente si pensi – siano officine in cui si costruisce pensiero: si
tratta, in realtà, di spazi in cui si consumano duelli, e non è affatto detto
che la vittoria premi chi meglio conosca la topica aristotelica o la logica
formale, anzi, tutt’altro.
Poco
più di un anno fa mi sono già intrattenuto sulla questione (Πολεμική τέχνη – Malvino, 27.9.2013), oggi ci ritorno perché in Petit traité à l’usage de ceux qui veulent toujours avoir raison di
Georges Picard (Librairie José Corti, 1999; qui in Italia: Archinto, 2002)
trovo uno straordinario equivalente di ciò che Il Principe di Niccolò Machiavelli rappresentò per la scienza del
governo, a rigettare la tesi che chi dia consigli senza farsi assistere dall’etica,
in fondo, e neanche tanto in fondo, sia un moralista che fa dell’ironia. Può
valere per L’arte di ottenere ragione in
38 stratagemmi di Arthur Schopenhauer, non per Georges Picard. In questo
delizioso libricino non v’è traccia alcuna di biasimo morale per l’uso del più
delinquenziale armamentario retorico, anzi, v’è il monito a considerare l’onestà
intellettuale un grave handicap: se «è
cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre,
quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati, o non biasimati; ma,
quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è l’errore et il
biasimo» (Il Principe, III), il
fine ultimo è la persuasione, cioè la conquista dell’uditorio, ed ogni mezzo si
misura sulla capacità di ottenerla, buono solo se efficace, quand’anche sia
scorretto: «l’errore et il biasimo» solo
nell’inadeguatezza al fine.
Per
trovare assennata la lezione di Georges Picard, bisogna considerarne incontestabili
le premesse: «si ha ragione di voler
avere sempre ragione, non conosco una sola postulazione più attraente e
produttiva» (pag. 19); «non è affatto
necessario aver ragione per pretendere d’aver ragione» (pag. 31); «soltanto gli ingenui possono credere che le
discussioni mirino a risolvere un problema o a chiarire questioni, in realtà la
loro unica giustificazione è di mettere alla prova la capacità dei partecipanti
nel disarcionare gli avversari» (pag. 41); «una volta liberati dal pregiudizio di credere che occorra possedere
una parte di verità per avere ragione, ci si sente più leggeri per affrontare
il combattimento» (pag. 45). Ora, se
«la polemica non è che la continuazione
del duello con altri mezzi», come scrivevo poco più di un anno fa, nel
sostenere che l’importante è vincere, Georges Picard scoraggia dal nutrire
scrupoli, alla faccia delle candide mammolette che la denunciano come pretesa che
rivela malattia mentale, velleità dispotica o entrambe le cose, perché
pretendere di aver ragione per il solo fatto di aver ragione è altrettanto
folle, né è immune da intento prevaricatore: vantare il diritto di
redarguizione sugli argomenti invalidi o erronei, infatti, e per il solo merito
di muoversi a proprio agio tra la topica aristotelica e la logica formale, non
implica un fine diverso dall’«avvicinare
o conquistare il potere e soddisfare l’inclinazione per il dominio materiale,
ma anche per imporre al mondo dei valori intellettuali, un’idea di giustizia,
una concezione della vita sociale, delle simpatie estetiche» (pag. 27), e
pensare di poterne avanzare la pretesa con armi inappropriate a persuadere l’uditorio
non dà esito diverso da quello che si ottiene con fallacie inefficaci.
Potrà
sembrare una tautologia, ma ha in sé la forza del più inoppugnabile realismo:
la vittoria spetta a chi vince, e la posta in gioco non è proporzionata alla
resistenza che l’uditorio oppone alla persuasione, ma alla capacità competitiva
dell’avversario, perché, se è vero che voler avere sempre ragione non consente mai
di trovare piena soddisfazione, è altrettanto vero che ogni vittoria dà
abbrivio alla competizione, come è illustrato dal paradigma del «pallido notaio di provincia […] [che], vedendo crescere il suo ascendente sui
compagni di aperitivo, […] [prova a] imporre
le sue vedute in materia di politica e di morale [ad una cerchia sempre più
ampia che] si trasformerà in club, poi in
partito, inarrestabile nel quartiere, più tardi nella città e, un giorno,
chissà, nel dipartimento, nell’intero paese» (pag. 28). E qui, a ben
vedere, siamo al punto in cui la πολεμική
τέχνη assume i caratteri di campagna militare, articolandosi in segmenti di
una strategia: è il punto in cui la natura mobile e contraddittoria di ogni
uditorio di notevole ampiezza impone uno straordinario controllo di momento e
contesto. In altri termini, siamo al livello in cui la persuasione produce un consenso
che implica una fidelizzazione. Siamo al discorso politico.
Non
importa quanto il sillogismo sia corretto, d’altronde Georges Picard non
pretende che lo sia ma che ci persuada, e bisogna ammettere che è estremamente
persuasivo: «La politica – dice – è l’arte di far prendere ai cittadini
lucciole per lanterne. Visto che in questo mondo ci sono più lucciole che
lanterne, è stato ragionevole definire la politica l’arte del possibile. È così
che la necessità obbliga i politici in buona fede ad agire al di qua delle loro
promesse, mentre quelli in mala fede agiscono in modo opposto. E sono proprio
questi ultimi a persuaderci, mentre i primi agiscono considerando la realtà
delle cose e l’irrealtà delle menti. Accade che, di solito, i cittadini
pretendano l’impossibile in tempi irrealistici. In una società di saggi, i
governanti si accontenterebbero di sviluppare i loro programmi senzamai
nascondere le lacune […] I saggi ne terrebbero conto senza pretendere interessi
di sorta, […] [ma] tanta franchezza
sembra azzardata in una moderna società democratica dove gli elettori
continuano a credere […] nell’efficacia quasi magica dell’azione pubblica sulla
felicità di ciascuno e di tutti. […] Si capisce perché la maggior parte dei
dibattiti politici si riducano a semplici esercizi di contabilità sociologica,
dove gli argomenti sono scelti in base a ben precise mire elettorali. I partiti
non cercano affatto d’aver ragione in assoluto: vogliono piuttosto aver ragione
di una ben determinata categoria di votanti» (pagg. 57-59). E qui possiamo
aggiungere: categoria in continuo rimodellamento plastico. Con quanto ne
consegue sulla scelta degli argomenti e sui modi e i tempi di proporli: la
vittoria spetterà a chi vincerà, e toccherà a chi meglio sappia usare mezzi
efficaci in un determinato momento, ma inefficaci prima o dopo, e per un lasso
di tempo di estensione congrua a farsi stagione.
[segue]
mercoledì 1 ottobre 2014
[...]
Per
il cadavere di cui si sia ormai estinto anche il ricordo di quanto già puzzasse
di morto quand’era ancora in vita, il parce
sepulto dovrebbe valere doppio, se non fosse che di tanto in tanto qualcuno
va a scoperchiarne la tomba, dalla quale allora si sprigionano entrambi i
fetori, che affievoliscono ogni pietas. Quand’è per dar riassetto ai resti,
operazione che il necroforo esperto sbriga in poche ore, si è disposti a
chiudere un occhio, anche se forse sarebbe più corretto dire che si è disposti
a chiudere una narice, così com’è nel caso in cui si faccia indispensabile un
pur tardivo esame necroscopico del medico legale e, se non si lesina sull’incenso,
perfino all’ostensione della carogna, una volta canonizzata. Tutt’un altro paio di
maniche quando a scoperchiare la tomba è il necrofilo, e tira fuori il morto, e
lo sbaciucchia, e lo stropiccia, e se lo scopa: lì il voltastomaco è d’obbligo,
sennò vuol dire che si ha qualcosa di marcio dentro.
Fuor di metafora: che
Benedetto Croce fosse già morto prima di morire, e che in vita puzzasse del più
putrefatto degli hegelismi, è stranoto; che la macchina mediatica degli anniversari
non possa fare a meno di sostituirgli il coperchio della bara, passi; che
qualche avanzo di biblioteca possa concedergli qualche attenzione, perché no;
che qualche nostalgico dell’idealismo nostrano vada a sniffarne le esalazioni
mollemente appoggiato alla lapide, e vabbe’; ma che si organizzino convegni
come sedute spiritiche per rievocarlo, rianimarlo e incularselo romanticamente,
è cosa schifosa. Se poi fra tanti depravati si fa l’errore di invitare pure uno
che abbia uno stomaco da persona sana, c’è il rischio che lo dica.
lunedì 29 settembre 2014
[...]
Il
corsivo di Pierluigi Battista sul Corriere
della Sera di lunedì 29 settembre (Della
Valle faccia solo l’imprenditore) chiude in questo modo: «Robert Musil ha narrato nell’Uomo senza
qualità le velleità politiche del magnate dell’industria Arnheim nella
costruzione di una maestosa “Azione Parallela”. Finì male: facile profezia».
Tre perplessità. La prima è relativa al fatto che Arnheim comincia a frequentare
le riunioni in casa Tuzzi, dove si discute dell’organizzazione dell’“Azione
Parallela”, solo perché è invaghito di Diotima: quello che cerca di sfruttare l’impresa,
di cui peraltro è il promotore, per assecondare le sue velleità politiche è il
conte Leinsdorf. La seconda è relativa a quel «finì male»: in realtà Robert Musil morì prima di portare a termine
L’uomo senza qualità e al punto in
cui lasciò la narrazione degli eventi non c’è traccia di alcun fallimento,
né del progetto dell’“Azione Parallela”, né dei disegni personali del conte
Lainsdorf. Ma la perplessità più forte è relativa a quel «© RIPRODUZIONE RISERVATA» in calce al corsivo: chi si sognerebbe mai di appropriarsi delle
cazzate scritte da Pierluigi Battista?
Da fetenti
Il
78% dei napoletani è dell’idea che Luigi De Magistris farebbe bene a
dimettersi, ma l’attenzione va posta al restante 22%, solidale al suo
fottersene di una legge dello Stato che invece gli impone di farlo. Tra chi
pensa faccia bene dev’esserci chi ha apprezzato le sue parole al funerale di
Ciro Esposito, quando deplorando chi sospettava proprio ciò che le indagini
avrebbero successivamente accertato, e cioè che il giovane fosse del manipolo
di ultras che alla finale di Coppa Italia era arrivato armato di bastoni e di
coltelli, intenzionato a provocare disordini, prese le difese della teppaglia e
lanciò un’accusa ai responsabili dell’ordine pubblico: «Ciro si è messo tra l’odio
e chi voleva solo vedere una partita… Chi non ha garantito l’ordine paghi». Ma
in quel 22% ci sarà pure chi ha apprezzato l’elogio funebre in morte di Davide
Bifolco: «È inaccettabile che un ragazzo possa morire in questo modo, a 17
anni. Non accetto la teoria colpevolista, fondata sul fatto che il ragazzo
fosse napoletano e provenisse da un quartiere difficile. Il sindaco è vicino ai
suoi familiari e ai suoi amici». Da fetenti, come non essere solidale al caro
Giggino che ha sempre trovato una parola buona per i fetenti? Aspettiamo che al decreto di sospensione dica: «A me ’u Prefette m’adda fa’ sule ’nu bucchine», e sentiremo un’ovazione.
domenica 28 settembre 2014
sabato 27 settembre 2014
La vista da lì
Lo
schema riprodotto qui sopra è tratto da Elementi
per una teoria dei media (1970) di Hans Magnus Enzenberger (insieme ad
altri saggi, in: Palaver, Einaudi
1976 – pagg. 79-113), e costringe a un riso amaro: ai tempi in cui internet non
c’era, si immaginava che qualcosa come internet avrebbe emancipato le masse.
Prima di ogni altra considerazione, però, c’è da chiedersi se questa inferenza
sia lecita. È un medium, internet? Mi pare sia impossibile negarlo. Risponde
alle caratteristiche descritte nella colonna a destra nello schema? Direi di
sì. Bene, ha emancipato le masse? Qui la risposta non può essere altrettanto
scontata. In fondo, è solo da vent’anni che internet è alla portata di chi
voglia servirsene, dunque potrebbe essere troppo presto per escludere che sia
in grado di farlo. Ma si ha qualche indizio che lo stia facendo o che almeno
stia preparando il terreno? E poi: emancipare le masse da cosa? Qual è il
mancipium dal quale dovrebbe/potrebbe liberarci? C’è da attendersi che possa
favorire la democrazia?
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A
me basta questo per chiudere La vista da qui di Massimo Mantellini (minimum fax, 2014) con la netta convinzione che l’ottimismo
che parrebbe voler infondere al lettore – ottimismo temperato da un sano
realismo, ovviamente, perché l’autore è persona amabilmente posata – sia lo
stesso di Hans Magnus Enzenberger. Per star lì, più di quaranta anni dopo, a consigliarci
di aver fiducia nell’irresistibile pulsione che la plebe avrebbe a farsi popolo, è
da considerare libro più che coraggioso: direi quasi temerario.
venerdì 26 settembre 2014
mercoledì 24 settembre 2014
Più tonto che tondo
Ancora
una volta il chierico dimostra la sua superiorità sul laico nell’arte di
infinocchiare i gonzi, per averne prova basta porgere l’orecchio al coro di
lodi che si leva in queste ore per l’arresto di Wesolowski deciso da Bergoglio.
Parliamo del tizio che da nunzio nella Repubblica Dominicana commise abusi
sessuali su minori, così recita la sentenza di primo grado emessa dal tribunale
canonico che qualche mese fa gli comminò il massimo della pena, e cioè –
tenetevi forte, ché potrà cogliervi un brivido di orrore – la dimissione dallo stato clericale. Sul reato la Repubblica
Dominicana aveva già avviato un procedimento penale, però destinato a rimanere
lettera morta per il tempestivo richiamo di Wesolowski a Roma, e questo alla faccia
della «cooperazione con le autorità
civili» prescritta dalla Lettera
circolare della Congregazione per la Dottrina della Fede del 3 maggio 2011
(I, 2, e), uno di quei fluviali documenti ufficiali in cui l’ipocrisia vaticana ama sciacquarsi le palle. Già condannato in primo grado al massimo della pena, dunque, e in
attesa del processo d’appello, ma non soggetto ad alcun provvedimento di
restrizione della libertà, il Wesolowski, almeno fino a ieri. Nell’impossibilità di inquinare
le prove o di procurarsene di false perché era lontano migliaia di chilometri
da dove si erano svolti i fatti, nell’impossibilità di reiterare il reato
perché di sua spontanea volontà aveva deciso di aspettare il processo di secondo grado standosene buonin buonino in un convento dove al massimo poteva molestare i puttini che incorniciavano l’abside, nell’impossibilità di sottrarsi con la fuga al peggio del peggio che poteva essere al massimo una
conferma della sentenza, che da cittadino della Città del Vaticano non gli avrebbe
comportato ulteriore aggravamento della sua condizione, ecco che gli arriva tra
capo e collo il provvedimento che un mondo più tonto che tondo strombazza come arresto, e che
probabilmente consta del trasferimento da un convento a un altro convento. Evento storico, si strepita, come se tanta severità fosse inaudita, e parliamo del Vaticano, dove la pena di morte è stata formalmente abolita solo nel 2001. Un
botto mediatico di grande effetto, senza dubbio, e alla vigilia di un Sinodo che per
Bergoglio si annunciava pieno di incognite, comunque assai tosto. Ora potrà
affrontarlo molto più serenamente, forte del plauso generale che ammansirà chi
minacciava di rovinargli il giocattolo. E tutto questo – onestamente bisogna
riconoscerglielo – con un piccolo grande colpo di genio, che per giunta non gli
costa nulla. Perché, «in forza del suo
ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla
Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, can. 331), e
perché «non si dà appello né ricorso
contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» (ibidem, can. 333, § 3), in culo ad ogni dettato procedurale: è l’esecutivo,
il legislativo e il giudiziario, tutto insieme, e nessun Parlamento, nessuna Corte Costituzionale,
nessun Tribunale del Riesame può rompergli il cazzo. Ad illustrare al mondo
che l’esser figlio di puttana dà i migliori risultati solo quando hai completamente
libere le mani. In questo, il laico parte sempre con l’handicap.
martedì 23 settembre 2014
Due rilievi
Dopodomani
torna Servizio Pubblico e l’homepage
del suo website offre un’anticipazione della prima puntata della nuova stagione televisiva con un breve
estratto da Napoli senza casco, un
servizio firmato da Luca Bertazzoni, accompagnato dal seguente sommario: «Napoli piange ancora Davide Bifolco, ma a
meno di 20 giorni dalla morte del ragazzo niente sembra essere cambiato al
Rione Traiano: mentre non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto – la
versione dei carabinieri e della famiglia non collimano – ragazzi di 13 anni
continuano a girare senza casco, patente e assicurazione. “Non abbiamo i soldi
per farla. È normale girare senza casco: lo Stato m’adda fa nu bucchin”», riprendendo in virgolettato la colorita espressione di uno degli indigeni.
Due rilievi mi sembrano opportuni. Il primo è relativo allo scarso rispetto per l’ortografia del dialetto napoletano. Infatti, «m’adda fa» («deve farmi») letteralmente sta per «ha da fare a me» («mi ha da fare»), e dunque «fa» vuole l’apostrofo che
indica il troncamento della sillaba finale («-re»): la forma corretta è «fa’» o
eventualmente quella pur impropria ma largamente invalsa con l’accento («fà»). Di
poi, quel «nu» manca dell’apostrofo di aferesi, infatti è articolo indeterminativo
(sta per «unu»), dunque la sua forma corretta è «’nu». Per finire, i sostantivi
che finiscono con vocale muta la esprimono graficamente con una «e». Insomma, la frase va
corretta in questo modo: «lo Stato m’adda fa’ ’nu bucchine» (volendo rendere in
dialetto anche «lo Stato»: «’o State m’adda fa’, ecc.»).
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».
[...]
Tragica figura, quella di Gennaro Serra di Cassano, giacobino partenopeo di illustre casata e tra i protagonisti della sfortunata parentesi repubblicana del 1799 chiusa nel sangue dai lazzari nostalgici del loro re fellone. Diomede Marinelli scrive che prima di poggiare la testa sul ceppo in Piazza Mercato disse: «Ho sempre lottato per il loro bene e ora eccoli a festeggiare la mia morte». Figura tragica, dunque, ma anche ridicola.
TgLa7, 22.9.2014 - h. 20,18
Il
TgLa7 dà notizia che Genny ‘a Carogna è stato raggiunto da un provvedimento di
custodia cautelare per i fatti che l’hanno visto tra i protagonisti dei torbidi
che funestarono la finale di Coppa Italia del 3 maggio.
Non malaccio, il
filmato di Flavia Filippi. Riassume i fatti, dà conto degli sviluppi delle
indagini e chiude illustrando in sintesi l’idea che il magistrato s’è fatto di
quanto accadde a Roma, quel giorno, nei pressi dello Stadio Olimpico: né
martiri, né eroi, solo uno scontro tra due bande di delinquenti. Ancorché
implicito, v’è cenno a quanto è emerso nelle ultime settimane, e che oggi pare imporre
una rilettura assai diversa da quella che si diede a caldo, quando sembrò che si
fosse trattato di un agguato ai danni di inermi tifosi in trasferta: un
centinaio di ultras del Napoli, armati di bastoni e di coltelli, aggredirono quattro
o cinque ultras della Roma, armati di pistola, e ci scappò il morto.
Neanche
varrebbe la pena di star qui parlarne, se non fosse per il commento di Enrico
Mentana: «Il fatto più sconcertante è che questo interviene cinque mesi dopo i
fatti, per effetto di una decisione che riguarda la visione di alcuni filmati
che erano già a disposizione il giorno dopo i fatti, con accuse che almeno in
parte sono poco affini con le cose che si vedono dagli stessi filmati».
Non è
così, d’altronde è lo stesso servizio filmato ad aver dato conto del fatto che proprio
grazie alle indagini condotte in questi mesi si stia ora arrivando a un quadro diverso
da quello che appariva all’inizio. Ma poi non è Mentana stesso a riconoscere
che le accuse ora mosse non sono interamente supportate dalle prove video? Boh,
si sarà espresso male, anzi, ammettiamo con umiltà che saremo noi a non aver
capito.
Quello che invece è inammissibile: «Bisognerà avere molto presente che
si sta giocando col fuoco di ultras di due tifoserie particolarmente calde e
che alcune delle accuse sembrano, con tutto il rispetto, scritte da chi dell’ambiente
del calcio non ha mai visto nulla». Perché anche qui il lessico non è
particolarmente felice, ma non lascia adito a dubbio sul contenuto. Chi ha «scritto»
le accuse doveva forse tener conto del fatto che l’ambiente del calcio in qualche
modo toglie loro peso o, peggio, le fa diventare pretesto, se non causa, di ulteriori disordini? Meglio pensare che Mentana non fosse in serata.
lunedì 22 settembre 2014
Avranno imparato la lezione, uno pensa
Hanno
fatto così anche con Berlusconi, per vent’anni, e non è servito a niente. Avranno
imparato la lezione, uno pensa. Macché, anche stavolta pensano che a far perdere
consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a coglierlo in contraddizione
con se stesso, dar prova che non sia uomo di parola, che non mantenga le
promesse, che cambi idea con la disinvoltura con cui una puttana passa da
cliente a cliente. Così con Renzi: twittava #enricostaisereno e due minuti dopo se
lo inculava, diceva che le Europee non fossero un test per il governo e ora fa
il gradasso come se quel 40,8% l’avesse preso alle Politiche, prometteva
miracoli nei primi cento giorni e ora ne pretende mille, diceva che l’art. 18
fosse un problema posto solo nel dibattito mediatico e ora lo mette al centro
del Jobs act…. Come se il paese avesse bisogno di un galantuomo a Palazzo
Chigi.
È che questi lodevolissimi spulciatori di bestioni sono sentimentalmente
democratici, convinti che alla gente faccia difetto solo la memoria. Magari. È che
alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto la buona coscienza. Ha
bisogno di un millantatore in cui credere, qualcuno che incarni i suoi stessi difetti
con l’autocompiacimento di chi li sappia vantarli come pregi, esaltandoli a carattere
nazionale. Mente? Lo farà a fin di bene, per mobilitare le forze della
speranza. Imbroglia? E chi non lo fa? Ma è possibile che mai nessuno noti nelle movenze, nei toni e nelle smorfie di questi Uomini della Provvidenza le stesse movenze, gli stessi toni e le stesse smorfie di chi applaude loro? Di questa gente sono semplicemente il medium. Fosse bastato rammentare a questa gente la
promessa di un milione di posti di lavoro e il meno tasse per tutti, quanto
sarebbe durato Berlusconi? Volevano credergli, nessuno avrebbe potuto togliergli
la malia del feticcio, se non chi avesse trovato il modo di rubargliela.
Anticipo
l’obiezione: possibile che la gente sia tanto in malafede? Non tutta, solo la
maggioranza. Ed è una maggioranza che rimane salda attraverso i
decenni, forte come l’ignoranza quando è contenta di se stessa, compatta pure
quando i flussi elettorali la descrivono liquidissima, senza soluzione di continuità anche quando si divide in due schieramenti: è l’informe e anonimo
maggioritario inetto alla libertà e alla responsabilità. Perché un paese come
questo dovrebbe salvarsi dal fallimento? Non sarebbe giusto, via.
domenica 21 settembre 2014
[...]
Uno
dei miei tanti limiti è il non riuscire ad arrivare neppure al secondo
capoverso degli articoli che trattano di quei grovigli di srl coi quali una
razza di individui a me aliena più dei Grigi di Zeta Reticuli riesce a cavar
soldi dall’erario pubblico, dagli enti previdenziali o da soci sprovveduti, poco
dentro o poco fuori il frastagliatissimo contorno del diritto societario. Con
le aziende della famiglia Renzi mi sono armato di pazienza e mi sono inflitto
una duegiorni di full immersion, recuperando tutto quello che ho trovato in
rete, sfogliando codici e gazzette ufficiali, leggendo sentenze e statuti,
arrivando a costruire pure il classico schemino coi rettangolini e le freccette.
Era solo un pretesto, l’ho capito quando ho messo tutto via avvertendo con
grave imbarazzo che in me prendevano forma Bouvard e Pécuchet con le facce di Lillo
e Travaglio: in realtà non mi interessava affatto capire quanto di illegale
possa esserci stato nella gestione di quegli affari, volevo solo metter naso
nel milieu, ficcar le mani nel letame dal quale è nato il fiore che oggi l’Italia
s’appunta in petto. E devo dire che non sono stato deluso nelle aspettative,
perché una cosa è lo studio di un carattere a partire da tratti biografici
tutto sommato aspecifici, un’altra è il coniugarli all’esempio che hai avuto in
tu’ babbo.
Un babbo che probabilmente uscirà pure pulito dall’inchiesta in
corso, ma che senza dubbio mostra tutta la patognomonica del maneggione di
provincia. Sembra quasi di vederli, padre e figlio, una ventina d’anni fa,
discutere di affari: embrione di una riunione del Consiglio dei Ministri. «La
Nazione esce col Rigoletto in allegato, ocché tu ci vedresti a strillonarlo, un
gobbo in abiti del Seicento o un Verdi in palandrana?». «Il
Verdi costa meno e fa la sua porca figura. Piuttosto c’è il negro che continua
a rompere il cazzo per la questione dei contributi, ocché si fa, glieli si paga
o all’Inps abbiamo qualche amico?».
sabato 20 settembre 2014
C’è complottismo e complottismo
C’è
complottismo e complottismo, la gamma è così ampia che rende pressoché
impossibile un loro inquadramento tassonomico, qualunque sia la ratio con la
quale si intenda procedere. Se infatti si decide di raggrupparli per le entità
cospirative responsabili del complotto (Savi di Sion, Massoneria, Cia, Gruppo
Bilderberg, Mafia, Servizi Deviati, P2, ecc.), la classificazione regge solo
fino a un certo punto, perché non di rado la teoria cospirativa ne contempla intrecci
sinergici. Così se il criterio prende a oggetto la struttura narrativa della
teoria, perché in essa, anche se variamente combinati, convergono sempre gli
stessi elementi. Né va meglio col cercare di assegnare ad ognuna di queste
costruzioni letterarie un differente grado sulla scala che dall’arbitraria
concatenazione di presunte coincidenze sale fino alla più malata delle paranoie,
perché l’attribuzione avrebbe giocoforza discontinuità di metodo. Sarà seccante
per le conseguenze, perché al buon senso non sfugge che una differenza dovrà
pur esserci tra la teoria di una Spektre che ci ficca microchip sottopelle e
quella che spiega l’avviso di garanzia a Tiziano Renzi come dispettuccio che la
magistratura ha voluto fare a suo figlio per vendicarsi del fatto che quello le
abbia scorciato le ferie, e che dev’essere pure una differenza bella grossa, ma
così stanno le cose: in entrambi i casi, la costruzione regge su un vizio di
argomentazione, e non è affatto detto che nel secondo caso sia in gioco un
fattore di natura epistemologica, mentre nel primo sia di tipo psichiatrico; in
entrambi i casi, la teoria regge sull’impossibilità di essere smentita se non
nel rigetto di un sospetto che non può produrre prove, e che tuttavia non può
essere rigettato, pena l’esser vittima consenziente del complotto, dunque in
qualche modo complice; in entrambi i casi, non c’è modo di escludere che c’entrino
pure i Rettiliani. Hai voglia a far presente che l’avviso di garanzia fosse nel
più ordinario dei calendari e che a darne notizia sia stato proprio l’indagato:
nulla potrà mai far vacillare il complottista dalla certezza che sei mesi fa il
babbo del Cazzaro sia stato fatto oggetto delle attenzioni dell’inquirente in
previsione che Palazzo Chigi licenziasse il decreto che la magistratura così
vuole ammazzare in culla. A sollevare anche soltanto un dubbio, non c’è dubbio,
si è giustizialisti. E per quanto un avviso di garanzia sia – appunto – un atto di garanzia in favore dell’indagato, non sospettare ci sia dietro una congiura fa perdere
punti alla reputazione di garantista, ammesso che uno ne abbia uno straccio. C’è coincidenza, dunque vi è nesso e, oplà, c’è il fatto. A negarlo, legittimo il sospetto che le toghe rosse vi
abbiano ficcato un microchip sottopelle.
giovedì 18 settembre 2014
[...]
Quand’anche
la Costituzione riconoscesse a un Presidente del Consiglio le prerogative di
cui Matteo Renzi è convinto di godere, l’arroganza con cui le vanta sarebbe
ugualmente irritante. Fatto sta che la Costituzione formale non gliele
riconosce, né il modo in cui è arrivato a Palazzo Chigi lo autorizza a vantarle in virtù di una Costituzione materiale che si vorrebbe attribuisca
al leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni politiche i
poteri del Capo dello Stato in una repubblica presidenziale.
Mai
candidato al ruolo che ricopre, questo stronzo cagato a forza – non riesco a trovare
migliore definizione – non ha avuto altra investitura se non quella del
risultato che il suo partito ha conseguito alle elezioni europee, risultato che
in più di un’occasione, prima del voto, ha ripetuto non avrebbe avuto la valenza
di un test per il suo governo. Governo di cui ha avuto la guida – de plano –
perché intanto era diventato segretario del suo partito. Un partito al quale le
elezioni politiche avevano dato una maggioranza parlamentare zoppa, capace di
strisciare sulla pancia, pur di non tornare alle urne, solo rimangiandosi le
promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte quella di non stringere
alcun tipo di alleanza con il centrodestra. È su questo mucchio di letame che
il gallo gonfia il petto e fa chicchirichì, pensando che sia lui a far sorgere
il sole.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.
martedì 16 settembre 2014
Quando un’azienda dal marchio prestigioso...
Quando
un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie
contraffatte dei suoi prodotti, all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio
il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i
pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di
riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità
sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente
come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim.
Chi
copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal
marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per
gli utili, ma soprattutto per l’immagine. Per quanto l’occhio esperto, infatti,
riuscirà sempre a distinguere il prodotto taroccato da quello originale, man mano
che il primo sarà sempre più simile al secondo, comincerà ad aumentare il
numero di quanti non riusciranno più a cogliere alcuna differenza di qualità
tra i due, e si convincerà che quello contraffatto, tutto sommato, sia un
affare. È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a
sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi
interessi.
Non
siamo ancora a questo punto con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario
Adinolfi smercia in provincia. È come con le prime Louis Vuitton false che
cominciarono a girare una trentina d’anni fa: al momento, solo a un occhio
estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità
e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la
cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta
c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le
borchie in ottone e quelle in alluminio indorato. È differenza che al momento
si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a
preoccuparmi.
Sia
chiaro, l’antiabortista d’una certa classe continuerà a scegliere un Ferrara
originale, che peraltro col tempo acquista quei segni di usura che impreziosiscono
l’oggetto, ma si sa come va il mondo, e per una donna di classe che non rinuncerà
mai a una Louis Vuitton certificata ci sarà sempre una dozzina di sciacquette
che s’illuderanno di fare bella figura spendendo solo trenta euro dal primo vucumprà.
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