venerdì 10 ottobre 2014

L’orrore non sei tu

L’orrore non sta nel fatto che vai allo stadio in branco, portandoti da casa spranghe e coltelli, cercando la rissa, ma nel fatto che, se la rissa c’è e ci lasci la pelle, tua madre dice che sei morto da eroe.
L’orrore non sta nel fatto che vai in motorino alle tre di notte, senza casco, senza patentino, senza assicurazione, e sul sellino stai tra un pregiudicato e un latitante, e non ti fermi all’alt dei carabinieri, ma nel fatto che, se accidentalmente parte un colpo e ci resti secco, tua madre dice che eri un pezzo di pane e chi ti ha ucciso è un criminale.
L’orrore non sta nel fatto che tormenti un ragazzino perché è ciccione e gli infili un tubo in culo fino a sfondargli le viscere, ma nel fatto che tua madre dice che scherzavi e che non è giusto tu stia in carcere mentre chi insieme a te sfotteva il poveretto è a piede libero.
L’orrore non sei tu, è tua madre. È lei che ti ha fatto diventare quello che sei: vittima o carnefice, sei un mostro, perché partorito da un mostro e allevato da un mostro. 

Un paese leader entro vent’anni


L’obiettivo è quello di diventare un paese leader entro vent’anni, dice. Da 100 giorni (24 febbraio) a 1.000 (1 settembre) a 7.300 (10 ottobre): la logica matematica vorrebbe che il prossimo annuncio sia tra 12 giorni (padroni del mondo entro il 2050) e quello successivo il 19 ottobre (la conquista della galassia nel 2055).

giovedì 9 ottobre 2014

La differenza tra un ignorante e un cretino


Che il cuore non sia la sede dell’anima, il centro che dà vita ad emozioni e sentimenti, l’organo che produce affetti, era già chiaro da molto tempo prima che William Harvey dimostrasse che è solo una pompa idraulica (Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, 1628), e tuttavia, quando, tre secoli e mezzo dopo, Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto cardiaco (Cape Town, 1967), non mancarono i cretini che sollevarono lo stesso problema che, mutatis mutandis, è sollevato da un articolo apparso oggi su Il Foglio a commento della notizia del prima gravidanza giunta regolarmente a termine in un utero trapiantato: lì a chiedersi quanta coscienza e quanta sensibilità passassero dal donatore al ricevente, qui a domandarsi «di quale madre è figlio il bimbo», se «di quella che se lo è portato dentro per otto mesi o della donna cui apparteneva l’utero trapiantato».
Ci si potrebbe limitare a definirla ignoranza, ma è da preferire la definizione di cretinaggine, tanto più ottusa in quanto la questione sarebbe posta dal fatto che «la donatrice vive ed è presumibilmente vegeta, altrimenti l’équipe medica che ha realizzato l’eccezionale intervento non avrebbe scelto, per il trapianto, il suo utero». Se è questo a sollevare il problema, è da intendersi che la questione non si porrebbe, se l’organo, ancorché in buone condizioni per poter essere trapiantato, fosse stato prelevato da un cadavere. In fondo non è affatto raro, se si interviene con la dovuta tempestività, che si riesca a estrarre un feto vivo e vitale dall’utero di una gravida deceduta da poco: ancorché morta, quella non è sua madre? Ne consegue, di converso, che avrebbe senso porsi la questione di chi sia l’urina che fuoriesce dall’uretra di A, cui B abbia donato un rene, se quest’ultimo è vivo: l’urina sarebbe senza dubbio di A, se B è morto, sennò chissà, potrebbe anche essere di quest’ultimo, se ancora vivo.
È proprio questo esempio a indurci a preferire la definizione di cretino a quella di ignorante per chi scrive stronzate del genere: in mancanza delle adeguate conoscenze di anatomia e di fisiologia, un ignorante tace; sull’ignoranza, invece, il cretino costruisce un dilemma etico e se lo rappresenta di ardua soluzione, se non addirittura aporetico. 

Son giorni, e che giorni

Dal definire «scandaloso concubinato» il matrimonio, quando non celebrato con rito religioso, al trovare «elementi di santità» in un’unione di fatto, chiudendo un occhio sul peccato mortale dei rapporti sessuali extramatrimoniali, sono passati solo 60 anni, che nella vita di un’istituzione vecchia di due millenni equivale al tempo che in un comune mortale intercorre tra il decidere di fare una tonante scoreggia per terrorizzare il mondo e il ritrovarsi cagato addosso per aver sbagliato calcolo. 

mercoledì 8 ottobre 2014

martedì 7 ottobre 2014

Gli sparvieri di Susanna

Sull’altrui sfera sessuale io seguo alcune regole assai elementari, vedete voi se possano essere condivisibili: (1) è materia che non va neanche sfiorata, quando su di essa la persona interessata mostri di voler mantenere il riserbo; (2) è materia che può essere oggetto di discussione, quando sia la persona interessata a sollecitarla esplicitamente, ma avendo ben presente che su propensioni, attitudini e preferenze c’è ben poco da discutere, ché ciascuno ha le sue ed è sacrosanto se le tenga; (3) è materia che può arrivare ad essere occasione di polemica, anche aspra, quando la persona interessata abbia fatto cadere almeno in un’occasione il velo della riservatezza, rilevando le proprie propensioni, le proprie attitudini e le proprie preferenze, per poi criticare quelle altrui, per giunta non così diverse dalle sue. È nel rispetto di queste semplici regolette che affronto il commento del corsivo che Susanna Tamaro firma sulla prima pagina di Avvenire, oggi, martedì 7 ottobre, relativamente al punto in cui afferma di sentirsi svolazzare in testa gli «sparvieri del gender».
Ora, se un dato è incontestabile in chi sostiene la gender theory, è che per lui il genere non è faccenda cromosomica, ma psicologica: culturale assai più che biologica. Bene, giusto o no che sia, non si capisce bene allora cosa Susanna Tamaro abbia da temere da chi ritiene vorrebbe – scrive – «sequestra[rla], sottopo[rla] a interrogatori, avvia[rla] a un percorso di precisa definizione del [su]o stato interiore». Tutto il contrario: a chi sostiene la gender theory non passa neanche per l’anticamera del cervello di contestarle il fatto che da bambina – scrive – «detesta[sse] cordialmente tutto ciò che ricordava la femminilità, ma non per questo ama[sse] quello che esaltava la mascolinità» o che «gioca[sse] alla guerra e a calcio obtorto collo, perché er[a] circondata da maschi, ma [che] la violenza delle pistolettate e delle pallonate in faccia [le] facesse altrettanto orrore dei pizzi», tanto meno contestarle il fatto che «la diversità che chiedev[a] [fosse] legata a[l] poter indossare i pantaloni, [all’]avere i capelli corti, [all’]aspirare a mestieri allora proibiti alle donne». Tutte cose che fanno drizzare i capelli in testa a chi da una femmina, come biologicamente Susanna Tamaro è senz’alcun dubbio, pretenderebbe propensioni, attitudini e preferenze da femmina.
Capelli che senz’alcun dubbio dovranno già essergli drizzati in testa anche nel caso abbia letto l’intervista che ella concesse alcuni anni fa a Vanity Fair: in quella occasione, senza essere sopposta ad alcun sequestro, rivelava di «viv[ere] un’amicizia amorosa con una donna da 18 anni», dopo aver già avuto, nel corso dell’adolescenza, analoga esperienza con una donna «con la quale pensav[a] di costruire la [su]a vita», però finita male, per lasciar spazio a un uomo dal quale ella si allontanò appena questi le fece intendere di voler avere dei figli («l’idea di avere un bambino mi dava un senso di profonda inquietudine»). Cose che non fanno né caldo né freddo a chi sostiene la gender theory, chissà a chi è abbonato ad Avvenire.  

lunedì 6 ottobre 2014

«Di natura granitica, irta di guglie e creste…».


In attesa che la montagna partorisca il topolino, c’è un po’ di gente che accorre alle sue pendici. Neanche tanta, in verità, comunque più di quanta se ne veda di solito. Montanari, per lo più. Gente del luogo, solitamente rintanata nelle baite o nelle case a valle, che neanche penseresti abitate quando la montagna fa la montagna e non decide di far finta di essere un vulcano. Ma anche semplici curiosi attratti dai sordi brontolii delle sue viscere, come ogni tanto accade, come oggi. E turisti col binocolo a tracolla e seggiolino pieghevole. E geologi e sismologi col loro armamentario. E qualcuno che era di passaggio e ha deciso di fermarsi. Immancabile la troupe televisiva coll’aeroplanino che volteggia e il cronista che cita brani da Wikipedia: «Di natura granitica, irta di guglie e creste, la cima supera i duemila metri…».

Così, più o meno, il sinodo sulla famiglia. Date ascolto a chi conosce un pochino quell’inutile ingombro di pietra e di ghiaccio: non ci sarà eruzione, né terremoto, non ci sarà valanga, né slavina. La pastorale familiare – così vien detto il loro ficcar naso tra il solco balanoprepuziale di un marito e il fornice vaginale posteriore di una moglie – non cambierà di una virgola, tutto si risolverà nel mettere un asterisco accanto alla parola divorzio, scrivendo a pie’ di pagina che, se un matrimonio cattolico fallisce, vuol dire che non era un matrimonio valido, dunque può essere considerato nullo: pentitevi, teste di cazzo, e vi si darà l’ostia. Andate in letizia, ordunque, e levate in alto il giubilo, ché la Chiesa v’ha ammollato una gran bella mappazza di misericordia.  

Non in quanto juventino

Di calcio capisco poco o niente, quindi non m’azzarderò a fare alcun commento sulla partita Juve-Roma di cui tanto si discute. A naso, tuttavia, senza aver visto neanche un video relativo alle azioni di gioco che sollevano proteste sulla conduzione dell’arbitraggio, senza aver buttato neanche un occhio alle consuete rubriche sportive del lunedì, direi si possa dar ragione a chi afferma che la Juve s’è rubata tre punti. Me ne dà motivo l’essere andato a controllare su Camillo cosa si fosse affrettato a scrivere Christian Rocca, e aver visto che non aveva scritto niente. Non in quanto juventino, ma in quanto Christian Rocca, penso si tratti di un dato dirimente. 

[...]


Se ancora può avere un senso non mandare a cagare il dio che ti chiede di portare il pupo su in montagna per sgozzarlo offrendoglielo in sacrificio, e obbedirgli, perché in fondo anche la paranoia ha un senso, che è quello di offrirci costruzioni letterarie in cui, a piacere, goderecciamente rabbrividire o amarognolamente sghignazzare, si fa fatica a trovarne uno, che almeno torni buono per costruirci una barzelletta, nel mettersi in ginocchio davanti a un sinodo di vescovi implorando lumi sul come far la moglie e la mamma, per giunta premettendo che qualunque cosa dicano andrà bene, per principio. A chi lo vai a chiedere, povera donnina, a chi del matrimonio e della maternità ha esperienza solo per sentito dire, e nel chiuso di un confessionale? Ma perché ti sei sposata, perché hai messo al mondo dei figli, se non sei in grado di assumerti la responsabilità di decidere in prima persona? E vabbe’ che ti senti pecorella, ma in certe cose anche gli ovini hanno una certa indipendenza.   

domenica 5 ottobre 2014

Caenorhabditis (elegans)



Non fosse che la nomenclatura binomiale gli dà l’epiteto di elegans, il Caenorhabditis sarebbe ottima metafora dell’IdV al suo ultimo stadio: poche cellule, pochissimi neuroni, difficile capire dove sia la testa e dove sia la coda, striscia, striscia e muore. Riuniti a Sansepolcro, a 16 anni dalla fondazione del partito, i pochi rimasti decidono di offrirsi al Pd. Com’è tipico di tutti i nematodi fasmidari, l’organulo che consente all’animaletto di relazionarsi all’ambiente corrisponde al culo. 

A spese di tutte le relazioni intermedie

Al momento, il vertiginoso calo degli iscritti al Pd viene letto da gran parte dei commentatori interni ed esterni al partito come la mutazione genetica subita da un corpo militante che fino a ieri era tra i più fidelizzati. Inevitabile, dunque, che si discuta in qual misura il dato sia da attribuirsi alla segreteria di Matteo Renzi, perché pare ovvio che una correlazione debba esservi, con l’ovvia discordanza nel giudizio di merito che è un dato costante quando si valuta quel che si attribuisce a una personalità dal forte tratto divisivo: di qua, chi pensa che l’emorragia di tessere sia il segno di una grave crisi del partito come comunità di uomini e donne condividenti una pur labile identità ideologica (ma sarebbe più corretto dire etico-estetica); di là, chi pensa che questo, tutto sommato, non sia affatto un dato negativo in vista della nascita di un «partito della nazione», fluido in superficie, ma in fondo assai più solido, proprio perché includente su un programma, piuttosto che su un modello antropologico. Può darsi che questo sia vero, in ogni caso non può essere interpretato come fenomeno che nel Pd trova la testa, quanto la coda: il calo degli iscritti ai partiti politici italiani è un dato costante e trasversale da almeno trent’anni. È che l’Italia non era fatta per il maggioritario, ancorché imperfetto: un bipolarismo basato sulla competizione ad acquisire consenso dal centro non poteva che accelerare il processo di deideologizzazione dei partiti tradizionali, d’altronde in atto già dagli anni Ottanta, portando alla personalizzazione della politica, prima, e alla confluenza dei due opposti schieramenti al venir meno di uno stabile equilibrio tra i carismi delle leadership, poi. Era un sistema destinato a erodere progressivamente le ali estreme per venire a creare un unico polo centripeto, lasciando all’opposizione solo l’astensionismo elettorale. Si verifica così un’inversione dello schema che ha caratterizzato la Prima Repubblica, quando l’astensionismo aveva tratti prevalentemente qualunquistici e il voto era a forte impronta ideologica (ma sarebbe più corretto dire etico-estetica): al centro va confluendo tutto ciò che non ha più un colore, mentre ciò che residua delle vecchie culture politiche si autoemargina, e questo è tanto più evidente nella quota che ne rappresentava la militanza. Su quanto questo implichi in termini di riconversione del potere, si può lasciare la parola a chi ha ben descritto il fenomeno (Colin Crouch, Postdemocrazia, Editori Laterza 2003 - pagg. 79-81):


venerdì 3 ottobre 2014

«Si ha ragione di voler avere sempre ragione»



Non si ha ragione se non di qualcuno. È in questa constatazione, ovvia solo quando sia palese il carattere asservente della persuasione, che sta il riconoscimento della natura bellica della retorica, d’altronde in premessa ad ogni sua trattazione sistematica. Anche il folle che parlotta da solo combatte contro un avversario, ancorché immaginario, anche il più duro cammino del saggio verso un’affermazione che egli possa ritenere rettamente argomentata è un farsi largo tra ostilità che hanno una pur aleatoria titolarità in fantasmatiche figure di contraddittori. Non c’è ragionamento, senza che il foro sia campo di battaglia. E non v’è scrittura che ne dia conto, senza che il suo registro sia – più o meno riconoscibilmente – diario militare. Andrebbe scoraggiata, dunque, in chi la nutre, l’idea che la meditazione intima e la discussione pubblica – tra di loro assai più simili di quanto solitamente si pensi – siano officine in cui si costruisce pensiero: si tratta, in realtà, di spazi in cui si consumano duelli, e non è affatto detto che la vittoria premi chi meglio conosca la topica aristotelica o la logica formale, anzi, tutt’altro.
Poco più di un anno fa mi sono già intrattenuto sulla questione (Πολεμική τέχνηMalvino, 27.9.2013), oggi ci ritorno perché in Petit traité à l’usage de ceux qui veulent toujours avoir raison di Georges Picard (Librairie José Corti, 1999; qui in Italia: Archinto, 2002) trovo uno straordinario equivalente di ciò che Il Principe di Niccolò Machiavelli rappresentò per la scienza del governo, a rigettare la tesi che chi dia consigli senza farsi assistere dall’etica, in fondo, e neanche tanto in fondo, sia un moralista che fa dell’ironia. Può valere per L’arte di ottenere ragione in 38 stratagemmi di Arthur Schopenhauer, non per Georges Picard. In questo delizioso libricino non v’è traccia alcuna di biasimo morale per l’uso del più delinquenziale armamentario retorico, anzi, v’è il monito a considerare l’onestà intellettuale un grave handicap: se «è cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre, quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati, o non biasimati; ma, quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è l’errore et il biasimo» (Il Principe, III), il fine ultimo è la persuasione, cioè la conquista dell’uditorio, ed ogni mezzo si misura sulla capacità di ottenerla, buono solo se efficace, quand’anche sia scorretto: «l’errore et il biasimo» solo nell’inadeguatezza al fine.
Per trovare assennata la lezione di Georges Picard, bisogna considerarne incontestabili le premesse: «si ha ragione di voler avere sempre ragione, non conosco una sola postulazione più attraente e produttiva» (pag. 19); «non è affatto necessario aver ragione per pretendere d’aver ragione» (pag. 31); «soltanto gli ingenui possono credere che le discussioni mirino a risolvere un problema o a chiarire questioni, in realtà la loro unica giustificazione è di mettere alla prova la capacità dei partecipanti nel disarcionare gli avversari» (pag. 41); «una volta liberati dal pregiudizio di credere che occorra possedere una parte di verità per avere ragione, ci si sente più leggeri per affrontare il combattimento» (pag. 45). Ora, se «la polemica non è che la continuazione del duello con altri mezzi», come scrivevo poco più di un anno fa, nel sostenere che l’importante è vincere, Georges Picard scoraggia dal nutrire scrupoli, alla faccia delle candide mammolette che la denunciano come pretesa che rivela malattia mentale, velleità dispotica o entrambe le cose, perché pretendere di aver ragione per il solo fatto di aver ragione è altrettanto folle, né è immune da intento prevaricatore: vantare il diritto di redarguizione sugli argomenti invalidi o erronei, infatti, e per il solo merito di muoversi a proprio agio tra la topica aristotelica e la logica formale, non implica un fine diverso dall’«avvicinare o conquistare il potere e soddisfare l’inclinazione per il dominio materiale, ma anche per imporre al mondo dei valori intellettuali, un’idea di giustizia, una concezione della vita sociale, delle simpatie estetiche» (pag. 27), e pensare di poterne avanzare la pretesa con armi inappropriate a persuadere l’uditorio non dà esito diverso da quello che si ottiene con fallacie inefficaci.
Potrà sembrare una tautologia, ma ha in sé la forza del più inoppugnabile realismo: la vittoria spetta a chi vince, e la posta in gioco non è proporzionata alla resistenza che l’uditorio oppone alla persuasione, ma alla capacità competitiva dell’avversario, perché, se è vero che voler avere sempre ragione non consente mai di trovare piena soddisfazione, è altrettanto vero che ogni vittoria dà abbrivio alla competizione, come è illustrato dal paradigma del «pallido notaio di provincia […] [che], vedendo crescere il suo ascendente sui compagni di aperitivo, […] [prova a] imporre le sue vedute in materia di politica e di morale [ad una cerchia sempre più ampia che] si trasformerà in club, poi in partito, inarrestabile nel quartiere, più tardi nella città e, un giorno, chissà, nel dipartimento, nell’intero paese» (pag. 28). E qui, a ben vedere, siamo al punto in cui la πολεμική τέχνη assume i caratteri di campagna militare, articolandosi in segmenti di una strategia: è il punto in cui la natura mobile e contraddittoria di ogni uditorio di notevole ampiezza impone uno straordinario controllo di momento e contesto. In altri termini, siamo al livello in cui la persuasione produce un consenso che implica una fidelizzazione. Siamo al discorso politico.
Non importa quanto il sillogismo sia corretto, d’altronde Georges Picard non pretende che lo sia ma che ci persuada, e bisogna ammettere che è estremamente persuasivo: «La politica – dice – è l’arte di far prendere ai cittadini lucciole per lanterne. Visto che in questo mondo ci sono più lucciole che lanterne, è stato ragionevole definire la politica l’arte del possibile. È così che la necessità obbliga i politici in buona fede ad agire al di qua delle loro promesse, mentre quelli in mala fede agiscono in modo opposto. E sono proprio questi ultimi a persuaderci, mentre i primi agiscono considerando la realtà delle cose e l’irrealtà delle menti. Accade che, di solito, i cittadini pretendano l’impossibile in tempi irrealistici. In una società di saggi, i governanti si accontenterebbero di sviluppare i loro programmi senzamai nascondere le lacune […] I saggi ne terrebbero conto senza pretendere interessi di sorta, […] [ma] tanta franchezza sembra azzardata in una moderna società democratica dove gli elettori continuano a credere […] nell’efficacia quasi magica dell’azione pubblica sulla felicità di ciascuno e di tutti. […] Si capisce perché la maggior parte dei dibattiti politici si riducano a semplici esercizi di contabilità sociologica, dove gli argomenti sono scelti in base a ben precise mire elettorali. I partiti non cercano affatto d’aver ragione in assoluto: vogliono piuttosto aver ragione di una ben determinata categoria di votanti» (pagg. 57-59). E qui possiamo aggiungere: categoria in continuo rimodellamento plastico. Con quanto ne consegue sulla scelta degli argomenti e sui modi e i tempi di proporli: la vittoria spetterà a chi vincerà, e toccherà a chi meglio sappia usare mezzi efficaci in un determinato momento, ma inefficaci prima o dopo, e per un lasso di tempo di estensione congrua a farsi stagione. 

[segue]

mercoledì 1 ottobre 2014

[...]

Per il cadavere di cui si sia ormai estinto anche il ricordo di quanto già puzzasse di morto quand’era ancora in vita, il parce sepulto dovrebbe valere doppio, se non fosse che di tanto in tanto qualcuno va a scoperchiarne la tomba, dalla quale allora si sprigionano entrambi i fetori, che affievoliscono ogni pietas. Quand’è per dar riassetto ai resti, operazione che il necroforo esperto sbriga in poche ore, si è disposti a chiudere un occhio, anche se forse sarebbe più corretto dire che si è disposti a chiudere una narice, così com’è nel caso in cui si faccia indispensabile un pur tardivo esame necroscopico del medico legale e, se non si lesina sull’incenso, perfino all’ostensione della carogna, una volta canonizzata. Tutt’un altro paio di maniche quando a scoperchiare la tomba è il necrofilo, e tira fuori il morto, e lo sbaciucchia, e lo stropiccia, e se lo scopa: lì il voltastomaco è d’obbligo, sennò vuol dire che si ha qualcosa di marcio dentro.
Fuor di metafora: che Benedetto Croce fosse già morto prima di morire, e che in vita puzzasse del più putrefatto degli hegelismi, è stranoto; che la macchina mediatica degli anniversari non possa fare a meno di sostituirgli il coperchio della bara, passi; che qualche avanzo di biblioteca possa concedergli qualche attenzione, perché no; che qualche nostalgico dell’idealismo nostrano vada a sniffarne le esalazioni mollemente appoggiato alla lapide, e vabbe’; ma che si organizzino convegni come sedute spiritiche per rievocarlo, rianimarlo e incularselo romanticamente, è cosa schifosa. Se poi fra tanti depravati si fa l’errore di invitare pure uno che abbia uno stomaco da persona sana, c’è il rischio che lo dica.

lunedì 29 settembre 2014

[...]


Il corsivo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di lunedì 29 settembre (Della Valle faccia solo l’imprenditore) chiude in questo modo: «Robert Musil ha narrato nell’Uomo senza qualità le velleità politiche del magnate dell’industria Arnheim nella costruzione di una maestosa “Azione Parallela”. Finì male: facile profezia». Tre perplessità. La prima è relativa al fatto che Arnheim comincia a frequentare le riunioni in casa Tuzzi, dove si discute dell’organizzazione dell’“Azione Parallela”, solo perché è invaghito di Diotima: quello che cerca di sfruttare l’impresa, di cui peraltro è il promotore, per assecondare le sue velleità politiche è il conte Leinsdorf. La seconda è relativa a quel «finì male»: in realtà Robert Musil morì prima di portare a termine L’uomo senza qualità e al punto in cui lasciò la narrazione degli eventi non c’è traccia di alcun fallimento, né del progetto dell’“Azione Parallela”, né dei disegni personali del conte Lainsdorf. Ma la perplessità più forte è relativa a quel «© RIPRODUZIONE RISERVATA» in calce al corsivo: chi si sognerebbe mai di appropriarsi delle cazzate scritte da Pierluigi Battista?

Da fetenti

Il 78% dei napoletani è dell’idea che Luigi De Magistris farebbe bene a dimettersi, ma l’attenzione va posta al restante 22%, solidale al suo fottersene di una legge dello Stato che invece gli impone di farlo. Tra chi pensa faccia bene dev’esserci chi ha apprezzato le sue parole al funerale di Ciro Esposito, quando deplorando chi sospettava proprio ciò che le indagini avrebbero successivamente accertato, e cioè che il giovane fosse del manipolo di ultras che alla finale di Coppa Italia era arrivato armato di bastoni e di coltelli, intenzionato a provocare disordini, prese le difese della teppaglia e lanciò un’accusa ai responsabili dell’ordine pubblico: «Ciro si è messo tra l’odio e chi voleva solo vedere una partita… Chi non ha garantito l’ordine paghi». Ma in quel 22% ci sarà pure chi ha apprezzato l’elogio funebre in morte di Davide Bifolco: «È inaccettabile che un ragazzo possa morire in questo modo, a 17 anni. Non accetto la teoria colpevolista, fondata sul fatto che il ragazzo fosse napoletano e provenisse da un quartiere difficile. Il sindaco è vicino ai suoi familiari e ai suoi amici». Da fetenti, come non essere solidale al caro Giggino che ha sempre trovato una parola buona per i fetenti? Aspettiamo che al decreto di sospensione dica: «A me ’u Prefette m’adda fa’ sule ’nu bucchine», e sentiremo un’ovazione. 

sabato 27 settembre 2014

La vista da lì


Lo schema riprodotto qui sopra è tratto da Elementi per una teoria dei media (1970) di Hans Magnus Enzenberger (insieme ad altri saggi, in: Palaver, Einaudi 1976 – pagg. 79-113), e costringe a un riso amaro: ai tempi in cui internet non c’era, si immaginava che qualcosa come internet avrebbe emancipato le masse. Prima di ogni altra considerazione, però, c’è da chiedersi se questa inferenza sia lecita. È un medium, internet? Mi pare sia impossibile negarlo. Risponde alle caratteristiche descritte nella colonna a destra nello schema? Direi di sì. Bene, ha emancipato le masse? Qui la risposta non può essere altrettanto scontata. In fondo, è solo da vent’anni che internet è alla portata di chi voglia servirsene, dunque potrebbe essere troppo presto per escludere che sia in grado di farlo. Ma si ha qualche indizio che lo stia facendo o che almeno stia preparando il terreno? E poi: emancipare le masse da cosa? Qual è il mancipium dal quale dovrebbe/potrebbe liberarci? C’è da attendersi che possa favorire la democrazia?
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A me basta questo per chiudere La vista da qui di Massimo Mantellini (minimum fax, 2014) con la netta convinzione che l’ottimismo che parrebbe voler infondere al lettore – ottimismo temperato da un sano realismo, ovviamente, perché l’autore è persona amabilmente posata – sia lo stesso di Hans Magnus Enzenberger. Per star lì, più di quaranta anni dopo, a consigliarci di aver fiducia nell’irresistibile pulsione che la plebe avrebbe a farsi popolo, è da considerare libro più che coraggioso: direi quasi temerario.    

venerdì 26 settembre 2014

mercoledì 24 settembre 2014

Più tonto che tondo

Ancora una volta il chierico dimostra la sua superiorità sul laico nell’arte di infinocchiare i gonzi, per averne prova basta porgere l’orecchio al coro di lodi che si leva in queste ore per l’arresto di Wesolowski deciso da Bergoglio. Parliamo del tizio che da nunzio nella Repubblica Dominicana commise abusi sessuali su minori, così recita la sentenza di primo grado emessa dal tribunale canonico che qualche mese fa gli comminò il massimo della pena, e cioè – tenetevi forte, ché potrà cogliervi un brivido di orrore – la dimissione dallo stato clericale. Sul reato la Repubblica Dominicana aveva già avviato un procedimento penale, però destinato a rimanere lettera morta per il tempestivo richiamo di Wesolowski a Roma, e questo alla faccia della «cooperazione con le autorità civili» prescritta dalla Lettera circolare della Congregazione per la Dottrina della Fede del 3 maggio 2011 (I, 2, e), uno di quei fluviali documenti ufficiali in cui l’ipocrisia vaticana ama sciacquarsi le palle. Già condannato in primo grado al massimo della pena, dunque, e in attesa del processo d’appello, ma non soggetto ad alcun provvedimento di restrizione della libertà, il Wesolowski, almeno fino a ieri. Nell’impossibilità di inquinare le prove o di procurarsene di false perché era lontano migliaia di chilometri da dove si erano svolti i fatti, nell’impossibilità di reiterare il reato perché di sua spontanea volontà aveva deciso di aspettare il processo di secondo grado standosene buonin buonino in un convento dove al massimo poteva molestare i puttini che incorniciavano labside, nell’impossibilità di sottrarsi con la fuga al peggio del peggio che poteva essere al massimo una conferma della sentenza, che da cittadino della Città del Vaticano non gli avrebbe comportato ulteriore aggravamento della sua condizione, ecco che gli arriva tra capo e collo il provvedimento che un mondo più tonto che tondo strombazza come arresto, e che probabilmente consta del trasferimento da un convento a un altro convento. Evento storico, si strepita, come se tanta severità fosse inaudita, e parliamo del Vaticano, dove la pena di morte è stata formalmente abolita solo nel 2001. Un botto mediatico di grande effetto, senza dubbio, e alla vigilia di un Sinodo che per Bergoglio si annunciava pieno di incognite, comunque assai tosto. Ora potrà affrontarlo molto più serenamente, forte del plauso generale che ammansirà chi minacciava di rovinargli il giocattolo. E tutto questo – onestamente bisogna riconoscerglielo – con un piccolo grande colpo di genio, che per giunta non gli costa nulla. Perché, «in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, can. 331), e perché «non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» (ibidem, can. 333, § 3), in culo ad ogni dettato procedurale: è l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, tutto insieme, e nessun Parlamento, nessuna Corte Costituzionale, nessun Tribunale del Riesame può rompergli il cazzo. Ad illustrare al mondo che l’esser figlio di puttana dà i migliori risultati solo quando hai completamente libere le mani. In questo, il laico parte sempre con l’handicap.    

martedì 23 settembre 2014

Due rilievi

Dopodomani torna Servizio Pubblico e l’homepage del suo website offre un’anticipazione della prima puntata della nuova stagione televisiva con un breve estratto da Napoli senza casco, un servizio firmato da Luca Bertazzoni, accompagnato dal seguente sommario: «Napoli piange ancora Davide Bifolco, ma a meno di 20 giorni dalla morte del ragazzo niente sembra essere cambiato al Rione Traiano: mentre non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto – la versione dei carabinieri e della famiglia non collimano – ragazzi di 13 anni continuano a girare senza casco, patente e assicurazione. “Non abbiamo i soldi per farla. È normale girare senza casco: lo Stato m’adda fa nu bucchin”», riprendendo in virgolettato la colorita espressione di uno degli indigeni.
Due rilievi mi sembrano opportuni. Il primo è relativo allo scarso rispetto per l’ortografia del dialetto napoletano. Infatti, «m’adda fa» («deve farmi») letteralmente sta per «ha da fare a me» («mi ha da fare»), e dunque «fa» vuole l’apostrofo che indica il troncamento della sillaba finale («-re»): la forma corretta è «fa’» o eventualmente quella pur impropria ma largamente invalsa con l’accento («fà»). Di poi, quel «nu» manca dell’apostrofo di aferesi, infatti è articolo indeterminativo (sta per «unu»), dunque la sua forma corretta è «’nu». Per finire, i sostantivi che finiscono con vocale muta la esprimono graficamente con una «e». Insomma, la frase va corretta in questo modo: «lo Stato m’adda fa’ ’nu bucchine» (volendo rendere in dialetto anche «lo Stato»: «’o State m’adda fa’, ecc.»).
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».