In
Io e Annie (Usa, 1977) c’è una scena
che ho utilizzato mille volte per un sogno ad occhi aperti. Alvy (Woody Allen)
e Annie (Diane Keaton) sono in coda per entrare al cinema e proprio dietro di
loro c’è un tizio insopportabile che, parlando ad alta voce con la tizia che le
è affianco, spara senza sosta sentenze su sentenze – sui film di Fellini, sul
teatro di Beckett, sulle tesi di Marshall McLuhan – irritando visibilmente Alvy,
che finisce per sbottare: «Che cosa non darei
per avere un’enorme palata di cacca di cavallo», provocando così le
proteste del tizio: «Ma per caso è
vietato esprimere le proprie opinioni?». E Alvy: «No, ma deve esprimerle ad alta voce? Insomma, non si vergogna di
pontificare così? E la cosa più buffa è Marshall McLuhan… Ma lei sa niente di
Marshall McLuhan?». Al che il tizio ribatte che insegna alla Columbia
University, tiene un corso su Tv, media e
cultura. «Beh, poco male –
risponde Alvy – perché il signor McLuhan
è qui». E Marshall McLuhan – proprio lui in persona – appare all’improvviso
e al tizio dice: «Ho sentito quello che
ha detto. Lei non sa niente del mio lavoro. Come sia arrivato a tenere un corso
alla Columbia è cosa che desta meraviglia». E Alvy chiosa: «Ah, ragazzi, se la realtà fosse così!».
Non
è un caso, penso, che Woody Allen abbia scelto un critico come deus ex machina, perché un artista poteva
uscirsene con qualcosa del tipo: «Credo
che nel mio lavoro il signore abbia visto quello che forse già pensava di suo,
che non è assolutamente la verità,
perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si
parla di problematiche così complesse come quelle che affronto io. Quello che
so è che il mio lavoro è stato accolto bene da chi ci ha visto una cosa, ma
anche il suo contrario. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema
di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio».
È che all’artista
interessa più essere apprezzato che essere capito? Se si accetta che egli non
debba porsi il problema di cosa voglia dire ciò che crea, anzi non debba
neanche porsi il problema di capire cosa esattamente abbia intenzione di fargli dire,
questo non è affatto grave: l’importante è che la sua creazione trovi
apprezzamento, poco importa che sia tanto ambigua da trovarlo presso chi la
legge in un modo e presso chi la legge in modo opposto – anzi, tanto più
ambigua, tanto meglio – perché l’unico modo sbagliato di leggerla sarà quella che
non le farà trovare apprezzamento, unico caso, questo, in cui l’artista potrà lamentare
un fraintendimento. Ma a questo punto mi auguro che il lettore abbia colto l’ironia
nell’uso del termine artista, mentre
mi auguro che l’artista non l’abbia
colta, perché questo di bello ha l’ironia: mette d’accordo chi capisce e chi
fraintende.
Forse, però, è meglio ricorrere a un esempio.
Qual
è il messaggio che vi pare trasmetta questo corto? Una «esplosiva verità», cioè che l’Italia sia piena di gioventù «improduttiva, cazzeggiona, scioperaiola,
protetta, corporativa, e per di più travestita da organismo protestatario
minaccioso violento radicale antagonista»? Se l’avete inteso a questo modo,
siete d’accordo con Giuliano Ferrara, al quale proprio perciò è piaciuto tanto
e dice che «dovrebbe essere premiato, trasmesso
nelle scuole, e ritrasmesso in tv a cura della Presidenza del Consiglio, con abbondanti
sovvenzioni pubbliche e di Confindustria perché le menti libere che lo hanno
concepito e realizzato possano insistere nel filone d’oro della presa per il
culo dei miti italiani poveraccisti».
O
pensate piuttosto che il corto volesse essere un ironico ribaltamento di quella
realtà di fatto che in Italia sta bruciando un’intera generazione tra
disoccupazione e precarietà? Vi verrebbe voglia di chiederlo all’autore, vero?
Beh, non lo fate, potreste rimanere delusi, e poi l’ho fatto io per voi.
Capirete che, col miraggio di abbondanti sovvenzioni dalla Presidenza del
Consiglio e dalla Confindustria, l’ironia, se c’era al momento di scrivere la
sceneggiatura, ora può anche andare a farsi benedire. E allora, sì, «non è stato accolto come un video che
sfotte i bamboccioni, anzi, molti hanno scritto di non sapere se ridere o
piangere, lo hanno definito divertente e drammatico, comico e triste», però
«potrebbe anche essere vero che certi
giovani sono sfaticati e mammomi», e tuttavia «ciò non toglie che lo stato è assente, il lavoro è precario e mal
pagato, ecc.». Insomma, «credo che nel mio lavoro Ferrara abbia visto quello che forse già pensava di suo, che non è assolutamente la verità, perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si parla di problematiche così complesse. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio. L’ironia era
solo il mezzo per raccontare qualcosa di vero, qualsiasi cosa sia».
«Qualunque cosa sia»: e poi c’è pure qualche
cretino che afferma che i giovani italiani non siano ormai disposti a tutto pur
di portare a casa qualche soldo?