Un
giubileo è di per se stesso – così fin dalle ragioni che Bonifacio VIII intese
dare all’istituto (Antiquorum habet,
22 febbraio 1300) – un dispensario di indulgenza. Possibile nessuno noti che c’è
franco pleonasmo nel definire «giubileo
della misericordia» quello
da venire?
lunedì 13 aprile 2015
16.10.1927 - 13.4.2015
Può
esser vero che di uno scrittore importi solo ciò che ha scritto e come l’ha
scritto, e che sia meglio quand’è del tutto invisibile fuor di ciò ha scritto, almeno
così si dice, e io inclino a ritenerlo giusto, tanto più giusto se di uno
scrittore si ama tanto un romanzo che tutto ciò che ha scritto dopo sembra scritto
solo per deludere le aspettative. Poi c’è da dire che i necrologi sarebbe
meglio riservarli a chi li merita, e cioè a chi ci dispiace se ne sia andato,
il che può renderli superflui nel caso della morte di uno scrittore di cui
abbiamo amato tanto un romanzo, e solo quel romanzo, perché alla fin fine è morto lo scrittore,
ma il romanzo resta. Vedi tu quante capriole sono costretto a fare per dire che la notizia della morte
dell’autore de Il tamburo di latta –
non voglio neanche nominarlo, ché non è affatto necessario – mi arriva, e non è giusto, e chissà come, ma perché, come una coltellata in pancia.
Suggerirei olanzapina e lamotrigina
Non
starò ad annoiare il mio lettore, che d’altronde è coltissimo, citando gli
autori che hanno descritto e analizzato la relazione funzionale che c’è tra
aggressività e vittimismo in quel vasto dominio della psicopatologia che dalle
algide vette del narcisismo digrada nei frastagliati fiordi del borderline: mi
limiterò a illustrare un caso clinico che mi pare sia emblematico di quella
relazione, per poi avanzare una diagnosi e infine suggerire una terapia. Per farlo, tuttavia,
sarà necessario, almeno in breve, fornire gli estremi di quello che sul piano della
narrazione clinica possiamo a buon ragione definire antefatto. [Per chi ha
voglia di circostanziare in dettaglio questi estremi rimando a Er Cecato e la cecataggine (Malvino, 5.12.2014), Mondo di mezzo (Malvino, 8.12.2014) e «Carminati
invoca giustizia» (Malvino,31.12.2014), dove si argomenta quanto qui la sintesi potrebbe far sembrare
apodittico.]
In breve, dunque, diciamo che qualche mese fa scoppia lo scandalo
di Mafia Capitale e – qui cito, poco oltre vedrete per quale ragione, Carlo
Bonini (la Repubblica, 11.4.2015) – «Il Foglio di Giuliano Ferrara […] deci[de] di insufflare, per sbertucciare tra il
semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe
Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini,
Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri».
Non è mafia, dice Giuliano Ferrara: la mafia ha la coppola e la lupara, spara e
usa il tritolo, qui si tratta di una banda di cravattari, topi nel formaggio,
millantatori di un potere criminale che si esauriva nel far scivolare una
mazzetta nella tasca di chi poteva favorire un appalto.
Sembrava sfuggisse – ma
come era possibile non sospettare volesse sfuggire? – che l’art. 416 bis del
nostro Codice Penale non descrive un’organizzazione denominata Cosa Nostra (o ’Ndrangheta,
o Camorra, o Sacra Corona Unita), ma un’organizzazione di «tipo» mafioso, ciò che sul piano pubblicistico ha trovato in «stampo» un sinonimo assai felice. E
quali sono, per il legislatore, gli elementi che consentono di identificare in
un’associazione a delinquere il suo carattere mafioso? «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno
parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo
di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi
pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri,
ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di
procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», rimarcando che «le disposizioni del presente articolo si
applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del
vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso».
Dopo aver letto le 1.228 pagine dell’ordinanza di
applicazione delle misure cautelari emessa dal gip a carico degli indagati, si
potevano aver dubbi che il «Mondo di
mezzo» cui aveva dato vita Massimo Carminati non rispondesse alla
fattispecie? D’altronde, qual era – peraltro neanche tanto occulto – il fine di
«sbertucciare» l’ipotesi accusatoria
basata sull’art. 416 bis? Negare la natura sistemica degli eventi delittuosi,
astrarli dalla matrice che li rende strutturati in mosse di una strategia che va
ben oltre l’arricchimento illecito, ma mira al controllo di un territorio,
rendendo così l’associazione a delinquere un attore fattualmente politico, perché
in grado di creare il luogo – e qui cito ancora Bonini (ibidem) – «dove gli appetiti
del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri
comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si
incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e
l’omertà, e dunque come ogni mafia degna di questo nome, non le forme, ma la
sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza
dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica».
Direi che la polemica cui Il Foglio
ha dato vita sulla questione di Mafia Capitale è solo uno degli episodi che ne
caratterizzano il tratto scettico sulla sostanza della democrazia, nel solco
dell’assunto che «un’oligarchia ben
organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile» (Il Foglio, 22.5.2008): l’altra – quella della
regolarità degli incanti pubblici, della trasparenza dell’agire amministrativo,
della libertà nella formazione della volontà politica – sarebbe quella impossibile.
Qual è, d’altra parte, il confine tra l’intimidazione, il ricatto e l’omertà
dell’organizzazione di stampo mafioso e gli strumenti di cui si serve un’«oligarchia ben organizzata»? C’è senza
dubbio, ma quanto è labile! Potremmo dire che si delinea solo nel rispetto
delle mere forme della democrazia, che tuttavia non impedisce di svuotarne la
sostanza.
Ecco il pericolo, dunque, nel riconoscere il metodo di tipo mafioso
nella join venture tra ceto politico e delinquenza di strada: viene a crearsi
un precedente che può tornare buono a incriminare l’«oligarchia ben organizzata» quando incorra in qualche sbavatura
procedurale. In buona sostanza, dal ritratto di Carminati come quello di un
delinquentello qualsiasi alla sua difesa come vittima di una tortura (sì, Il Foglio è arrivato pure a questo), non
abbiamo assistito al solito esercizio di sofistico spirito di patata che manda
in sollucchero gli amanti dell’eccentrico, ma un più subdolo tentativo di
liquidare il «Mondo di mezzo» come versione
grossolana, fin quasi patetica, di quella raffinata delinquenza che dà vita all’unica
«democrazia possibile». Certo, c’è
pure l’elemento ludico, quello che ha reso Il
Foglio un’officina dal marchio inconfondibile, qui espresso nello
spericolato garantismo in favore del fetente di turno, ma sul fondo era
evidente una posta in gioco assai più consistente, per la quale valeva la pena
farsi estremamente aggressivi.
Ma ora? Qual è l’atteggiamento da assumere, ora
che «per la prima volta nella storia
repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis,
nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e
riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino
bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti
‘ndranghetisti, che sono e restano Mafi, ma che da ieri non la esauriscono»
(Bonini, ibidem)? Quello della vittima:
«la Cassazione ha dato ragione alla casta togata più
influente, quella della Capitale, perché […] l’informazione massificata e
orchestrata secondo un criterio di legalità culturalmente bacato, onnivoro e
non procedurale, stravolge la realtà» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 13.4.2015). E la Cassazione ci casca? Evidentemente, d’altra
parte «le pronunce giudiziarie hanno una
loro intrinseca autorevolezza, e si giustificano o si contraddicono mediante
altre pronunce giudiziarie», dunque non è detto un domani… Poi c’è che «non funziona una indagine giudiziaria annunciata
a sorpresa, pochi giorni prima delle ordinanze di cattura e dell’elevazione
delle accuse, dal suo massimo responsabile, il dottor Pignatone; non funziona
in ogni senso la sede dell’annuncio, un convegno del Partito democratico; non
funziona la spettacolare convergenza di tutti i giornali o quasi e di tutte le
televisioni senza eccezione nel definire il fenomeno secondo una specie di
lectio universalis desunta dalle carte e, trattandosi di centinaia di migliaia
di pagine, dalla selettiva illustrazione riservata delle carte lungo canali al
di fuori di ogni controllo, giorno dopo giorno, capitolo per capitolo».
Inoltre, «la sentenza della Cassazione
che “salva” per adesso il processo a venire del dottor Pignatone, e tiene in
galera preventiva gli accusati (il che secondo un certo modo di vedere le cose
è un caso di tortura), fa dei riconoscimenti in analogia patente con le nostre
obiezioni: non c’è nell’indagine e nei suoi risultati una catena estorsiva e
violenta di tipo mafioso; non ci sono delitti di mafia; c’è un’aria di malavita
e di deviazione dai canoni della legalità, e di corruzione, intestabile al
business della carità e dell’assistenza, a istituzioni tipiche di una
concezione solidarista della funzione pubblica nel campo del recupero dei carcerati,
dell’accoglienza e del volontariato». Insomma, «accanto a un mare di cose buone o di velleità redentive buoniste,
scegliete voi, c’è il sospetto, e molto più che il sospetto, di un
coinvolgimento corruttivo di pezzi dell’amministrazione capitolina, singoli
funzionari, [ma] mancano le famiglie,
i mandamenti, il linguaggio e le omertà della mafia, mancano gli arsenali,
insomma mancano tutti gli elementi tipici di un crimine organizzato di tipo
mafioso».
E tuttavia la Cassazione non dice che la mancanza di arsenali non
toglie tipologia mafiosa agli addebiti sollevati nei confronti di Carminati
& c.? Come non l’avesse detto: s’è fatta buggerare dalla campagna mediatica
e al momento – solo al momento, sia chiaro, ché aggressività e vittimismo
stanno bene insieme solo nell’irriducibilità di protervia e risentimento – le
tesi di Giuliano Ferrara vanno a farsi benedire. «Un giornalismo di minoranza che nega l’assunto di una procura e
argomenta in modo semplice i suoi dubbi deve essere tacitato senza esame
obiettivo delle sue tesi?». E chi lo tacita? D’altra parte, le sue tesi non
sono in tutto simili a quelle avanzate dai difensori di Carminati e che sono
state respinte dalla Cassazione? Non sono state esaminate? Sì, ma forse non in
modo obiettivo. L’obiettività è una prerogativa di Giuliano Ferrara, si sa.
Suppongo sia superfluo sottolineare i tratti del delirio di onnipotenza che anche in questo caso affligge il narcisista, qui mortificato dall’impatto con la realtà, che sappiamo essere evento catastrofico sul piano clinico: gli
elementi di natura clinica emergono in tutta l’emblematicità del quadro nosografico.
Resta la terapia, e qui vorrei tagliar corto perché mi sono pure dilungato troppo su un caso che sarà esemplare quanto si vuole, ma un caso resta: io suggerirei olanzapina e lamotrigina. Ma a dosi generose, e senza aspettarsi altro che una parziale remissione dei sintomi. Perché la patologia in questione – triste dirlo – è altrimenti incurabile. Peraltro alleviare la sofferenza del malato è un dovere inderogabile della buona medicina.
venerdì 10 aprile 2015
Cristo, è una strage!
Quando
monta l’isteria, si sparano imputazioni a cazzo di cane e, anche se qualcuno se
ne accorge, tanta è la delicatezza che tace. Così con l’evocazione del reato di
strage per l’omicidio plurimo che s’è consumato al Tribunale di Milano. È strage
quando ammazzi alla cieca, perché colpisci membri di una collettività che, per
quanto eterogenea, investi di un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio.
Qui, invece, la scelta delle vittime da parte dell’assassino aveva una ratio
che le individuava precipuamente in soggetti predeterminati: quel tal giudice,
quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc. E allora dove sta la strage? D’altronde
la sanzione penale per strage fa tanta differenza da quella per omicidio
plurimo con tutta la sfilza di aggravanti del caso? E allora perché nessuno – e,
quel che è peggio, nemmeno un magistrato – osa dire che parlare di strage è da
cretini? Così la parola corre, per la semplice ragione che sembra dare pienezza
al sentimento di sconcerto, sarà perché ha un suono che strepita come si deve. È
questione d’orecchio, probabilmente. Se esclamo «Gesù!», infatti, passo per
personcina mite, dolciastra, sostanzialmente inoffensiva, forse pure un po’ molliccia. Con «Cristo!» rimedio tutt’altra figura.
giovedì 9 aprile 2015
[...]
Un
infermiere stupra una paziente, chi deve dimettersi? Il primario dell’ospedale?
Il direttore dell’Asl? Il ministro della Sanità? Portiamoli in tribunale tutti
e tre, ovviamente insieme all’infermiere. Che viene condannato, mentre gli
altri tre sono assolti. Chi dei tre rimane comunque responsabile – moralmente,
se non penalmente – del reato commesso dall’infermiere? Chi dei tre deve
dimettersi anche se è dimostrato che non ha istigato a quel reato, né lo ha coperto, né è stato complice di chi lo ha commesso?
Certe volte io non mi capacito della logica corrente in cui vedo scorrere perfino persone che stimo, e stavolta la logica corrente sentenzia che De Gennaro è responsabile dei fatti della Diaz. Al terzo grado di giudizio è stato assolto pure dall’accusa di aver spinto qualcuno a mentire su quei fatti. E allora – lo confesso – ho le vertigini, vacilla in me ogni certezza. Sulla responsabilità penale, che è sempre personale, o almeno dovrebbe. Sulle pertinenze che in ogni grado di una catena di comando stanno sempre, e personalmente, tra la più ligia obbedienza e il più folle arbitrio. Sul bisogno istintivo – da orda, sarei portato a dire – di concentrare una pur disomogenea distribuzione di colpe su un solo capro espiatorio.
Io non ho alcun dubbio che alla Diaz si sia consumata un’immensa, atroce schifezza. De Gennaro, poi, mi sta pure antipatico, così, a pelle, sarà quella pettinatura. Ma davvero non capisco, e non ho alcuna difficoltà ad ammettere sia un mio limite, che cazzo c’entri ancora con quello che è successo alla Diaz dopo una sentenza di Cassazione che lo ha assolto. Sentenza ingiusta? Qualcuno mi spiegasse perché.
Certe volte io non mi capacito della logica corrente in cui vedo scorrere perfino persone che stimo, e stavolta la logica corrente sentenzia che De Gennaro è responsabile dei fatti della Diaz. Al terzo grado di giudizio è stato assolto pure dall’accusa di aver spinto qualcuno a mentire su quei fatti. E allora – lo confesso – ho le vertigini, vacilla in me ogni certezza. Sulla responsabilità penale, che è sempre personale, o almeno dovrebbe. Sulle pertinenze che in ogni grado di una catena di comando stanno sempre, e personalmente, tra la più ligia obbedienza e il più folle arbitrio. Sul bisogno istintivo – da orda, sarei portato a dire – di concentrare una pur disomogenea distribuzione di colpe su un solo capro espiatorio.
Io non ho alcun dubbio che alla Diaz si sia consumata un’immensa, atroce schifezza. De Gennaro, poi, mi sta pure antipatico, così, a pelle, sarà quella pettinatura. Ma davvero non capisco, e non ho alcuna difficoltà ad ammettere sia un mio limite, che cazzo c’entri ancora con quello che è successo alla Diaz dopo una sentenza di Cassazione che lo ha assolto. Sentenza ingiusta? Qualcuno mi spiegasse perché.
[...]
Ma
questo De Gennaro è quello che una sentenza della Cassazione ha assolto dalle
imputazioni relative ai fatti della Diaz? E allora dov’è la vergogna che sia alla
presidenza di Finmeccanica? La questione eventualmente sarebbe altra, e cioè se la
vergogna non sia per caso Orfini alla presidenza del Pd. Se non fosse che il Pd è quello che è, e che lì lo ha messo Renzi. Il che equivale a piena assoluzione per tutto ciò che Orfini dice.
martedì 7 aprile 2015
Parafrasi del fare il frocio col culo altrui
È la
seconda volta che Paolo Gentiloni annuncia un intervento armato dell’Italia
contro i miliziani dell’Isis e che in meno di ventiquattr’ore smentisce,
rettifica, chiarisce, puntualizza – dipende dai punti di vista – che in realtà
non ci sarà alcun intervento armato dell’Italia. Ok, fa parte di un governo che,
premier in testa, con gli annunci a effetto ha raccattato e cerca di non
perdere il consenso che gli concedono i sondaggi in attesa che gli possa esser
confermato dalle urne, quando sarà, tanto non c’è fretta, c’è ancora da perfezionare
il sistema per farne durare gli effetti per una ventina d’anni. Se tuttavia di
annuncio in annuncio si può anche avere la botta di culo che il gatto morto
faccia un bel rimbalzo da spacciare per ripresa alla vigilia di elezioni di cui
dar colpa a oppositori o ad alleati di governo, annunciare un intervento armato
dell’Italia contro i miliziani dell’Isis – poco importa se per tutelare i
nostri interessi economici in Libia o in difesa dei cristiani perseguitati
dalle truppe del califfo – espone inevitabilmente a seri rischi il paese.
Passi, si fa per dire, se questa è una decisione del governo, intenzionato a
scavalcare il parlamento in una decisione che la carta costituzionale non affida
a chi sta a Palazzo Chigi, tanto meno a chi sta alla Farnesina. Se però l’annuncio
è fatto tanto per farlo, e subito rimangiarselo, il suo prezzo diventa
estremamente alto rispetto a ciò che presume di ottenere, perché è chiaro che
un eventuale attentato ai danni di un paese che agli occhi di un terrorista
sembri imbarcato in una crociata colpirebbe più probabilmente cittadini inermi
che ministri protetti da una scorta. Insomma, siamo alla parafrasi del fare il frocio col culo altrui: per fare il simpatico con l’Eni e col papa, Paolo Gentiloni ci espone a un grosso pericolo, semmai per dimostrarci, dopo, che un intervento armato dell’Italia avesse un ottimo motivo.
[...]
Nel caso si dimostrasse che la pallottola ha
trapassato il corpo della vittima dal basso verso l’alto, con ciò avvalorando
quanto afferma chi l’ha esplosa, e cioè che abbia sparato perché lo stavano
pestando, e tra chi lo pestava, chino su di lui, a una distanza di mezzo metro
dalla canna della pistola, c’era pure chi poi è stato raggiunto dal colpo
rivelatosi mortale, andrebbe corretta la lettura che in queste ore si fa dello
striscione apparso sulle curve dello stadio Olimpico, lo scorso sabato, perché Ciro
Esposito non sarebbe affatto quel pezzo di pane che, pur comprensibilmente, sua
madre si ostina a ritenere sia morto per puro caso, essendosi accidentalmente trovato
sulla traiettoria della pallottola esplosa da un folle assassino che il 3
maggio dell’anno scorso era uscito di casa per ammazzare qualcuno, non importava
chi, e dunque avrebbe un senso che il manipolo di energumeni con svariati precedenti
penali coi quali abitualmente si accompagnava oggi lo rivendichino come un
caduto per una comune causa, considerando offesa alla sua memoria il dipingerlo
come estraneo alla guerriglia scatenatasi quel giorno, con ciò negandogli l’onore – perché proprio di questione di onore pare si tratti – che si dovrebbe ad uno che, partito per darle, le abbia avute. Certo, accusare la madre
di «lucrare» sulla morte del figlio è atrocemente assurdo, ma si sa che le
bestie non sanno calibrare bene le proprie reazioni: fosse vera l’ipotesi con
la quale ho aperto il post, e così pare che i rilievi autoptici e balistici
inducano a credere, si potrebbe capire – giustificare, no – il perché di una così
feroce aggressione verbale alla madre del giovane, e allo stesso modo si
potrebbe comprendere anche la reazione straordinariamente mite che questa ha
opposto a quello che è il peggiore insulto ad una donna che abbia perso un figlio.
Vedremo, di certo al momento sembra solo che Ciro Esposito fosse organico a un
gruppo di tifosi che allo stadio, in casa e in trasferta, si recava armato di
bastoni e di coltelli: lungi dall’insinuare che se la sia cercata, ma, per come
le istituzioni hanno consentito che gli stadi di calcio diventassero enclavi in
cui la legge trova troppe deroghe, è abbastanza per ritenere che abbia
accettato, più o meno coscientemente, il rischio al quale andasse incontro.
Poi, sì, chi è morto merita sempre pietà, ma tutto sta nel sapere quanto questa
pesi nell’impedire di fare chiarezza.
Gentilmente, però, in prima fila
«Una
rivoluzione culturale» (Claudio Cerasa) è cosa ben diversa da «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella
subìta» (Giuliano Ferrara), ma in entrambi i casi non è chiaro quale sia la
soluzione sul piano pratico. Cosa dovremmo fare per impedire che qui e lì nel
mondo i cristiani vengano uccisi a causa della loro fede, ammesso e non
concesso che sia giusto impedire loro di testimoniarla a prezzo della vita?
Cominciamo a esaminare la proposta di Cerasa. È chiaro che la sua «rivoluzione culturale» sia roba da
promuovere in casa nostra, perché immaginare di andare a promuoverla tra le
fila dell’Isis è da pazzi. Bene, cerchiamo di figurarcela al meglio, questa «rivoluzione culturale». Se è «rivoluzione», deve implicare il
sovvertimento di uno stato di fatto. Se è «culturale»,
lo stato di fatto dev’essere quello che casa nostra non si dichiara più
cristiana.
Questa interpretazione è forzata? Non mi pare. Pur avendo rinunciato
al cristianesimo come religione di stato, a casa nostra vige una discreta
tolleranza verso il cristianesimo e verso ogni altra religione, anzi, a dire il
vero, verso il cristianesimo la tolleranza è tale da riuscire a farci
sopportare con pazienza da martiri le sue insistenti e pesanti molestie che si
sostanziano nella pretesa di imporci i suoi dettami, anche quando non ne
condividiamo la ratio.
Ma, quand’anche questa «rivoluzione culturale» ci rendesse fieri di dirci cristiani (anche
senza esserlo, sennò si tratterebbe di «conversione»,
e dovrebbe essere forzata, cosa che ci auguriamo di poter escludere), come
basterebbe – per sé sola – a interrompere lo stillicidio di una decina di cristiani
uccisi pro die? Questa «rivoluzione
culturale» è per caso intesa come premessa alla difesa di un nostro
interesse in casa altrui? Fosse così, non ci sarebbe troppa differenza con la
proposta avanzata da Ferrara, la quale avrebbe un unico difetto rispetto a
quella avanzata da Cerasa, quello d’essere intempestiva, precipitosa, mal
preparata.
Ma forse non è così, forse Cerasa ha in testa qualcos’altro, se ce l’ha.
Infatti pare che anche per lui quella dei cristiani uccisi a causa della loro
fede sia questione urgente, e che non si risolva solo con «parole, parole, parole», e tuttavia anche lui non sembra sappia
offrire altro, perché una «rivoluzione
culturale» in grado di armare le democrazie occidentali a difesa dei
cristiani in terre ad esse ostili, ancorché finalizzata ad un’impresa che
sarebbe costosissima e dai risultati assai poco certi, esigerebbe tempo, molto
tempo. Poi, certo, se la «rivoluzione
culturale» di cui parla non deve rivoluzionare le maggioranze dei paesi
occidentali, ma solo le élites che possono decidere crociate anche contro il
parere delle opinioni pubbliche, il discorso è diverso. Diverso, però, solo
fino a un certo punto, perché, dacché mondo è mondo, le crociate devono promettere
un buon ritorno, e qui «ritorno» sia
inteso in tutti i sensi.
Di sicuro, anche qui, c’è un papa che chiama gli «uomini di buona volontà» a tutelare i
suoi interessi, d’altronde sembra che la storia sia più bidella che maestra, ma
l’ostilità verso i cristiani che nutre in vario modo una parte del mondo
islamico – dalla diffidenza al massacro – non trova proprio nelle crociate il miglior
alibi per darsi come legittima difesa ad un colonialismo che si fa braccio
armato del proselitismo?
A parte, poi, risulta incomprensibile – ma solo fino a
un certo punto – l’ostinazione a non voler leggere quello che accade in gran
parte dei paesi di cultura islamica per ciò che veramente è: assistiamo ad un
conflitto tutto interno all’islam – interno ai contrapposti interessi che sono
andati a costruirsi sui diversi e contrapposti filoni religiosi e culturali
dell’islam – e i morti cristiani sono solo – triste dirlo, ma è così – un effetto
collaterale e – insieme – un tentativo di allargare il conflitto all’occidente.
Anche soltanto immaginare un intervento armato in difesa dei cristiani che si
ostinano a restare in terre ad essi ostili, peraltro esortati a restarvi dallo
stesso papa che poi ne lamenta il massacro, è benzina sul fuoco. E un titolare
della Farnesina che si lascia andare ad amenità del tipo «fermiamoli, anche con le armi» (Corriere della Sera, 7.4.2015) dovrebbe chiedersi se il solo dirlo
non sia inopportuno. Poi, nel caso, sarebbe bello vederlo, assieme al papa e a Ferrara, affrontare le armate del califfo. Gentilmente, però, in prima fila. Perché ci siamo rotti il cazzo di interventisti che muoiono nel loro letto a novant’anni o a cento.
lunedì 6 aprile 2015
domenica 5 aprile 2015
Una precisazione, così, una tantum
Devo una risposta all’obiezione che un lettore (si firma col nickname di max cady) rivolge a quello che presume sia il senso che io abbia voluto dare al post qui sotto (Primato del cristianesimo sull’islam – Malvino, 3.4.2015), rimproverandomi, come d’altronde fanno in molti, da sempre, di attenuare in qualche modo il giudizio negativo da me comunque espresso in più occasioni sull’islam, in generale, e su molte delle sue epicriticità, in dettaglio, col richiamo costante – maniacale, si direbbe – al fatto che il cristianesimo non sia affatto da meno, con ciò commettendo due gravi errori: in primo luogo, il non tener conto del fatto che ormai da secoli i cristiani si sono dati una ripulitina dagli orrori di cui invece molti musulmani ancora vanno fieri; di poi, del sottovalutare il fatto che i crimini commessi dai cristiani sarebbero meri effetti collaterali dell’evangelizzazione, mentre ai musulmani sarebbero prescritti dal Corano come prove di salda e genuina fede.
Bene, comincio col dire che queste osservazioni sono assai poco pertinenti alla questione che sollevo io. Io non faccio alcuna fatica a constatare che, per imporre la loro fede al mondo intero, i cristiani non facciano più uso della violenza fisica (su quella che si esercita con mezzi non cruenti sarebbe un discorso lungo e qui sorvolerò), ma sia ben chiaro che, se hanno smesso di farlo, non è perché d’un tratto hanno imparato a leggere i Vangeli come si deve, ma solo perché glielo si è impedito, non senza pagare un grosso prezzo, pagato per lo più da chi il cristianesimo sentì e trattò da nemico. Tra i martiri dei suoi primi tre secoli e quelli che oggi il cristianesimo – insieme – vanta e lamenta c’è un millennio e mezzo che solo un incosciente o un disonesto può pensare non conti niente o possa essere cancellato con due scuse, peraltro neanche rivolte alle vittime, ma a Dio, e soprattutto continuando a godere di ciò che si è conquistato coi mezzi che oggi si rimproverano a chi ha come fine lo stesso genere di conquista. Non riusciamo ad essere indulgenti davanti a ricchi o a nobili che abbiano acquistato ricchezze e titoli con nefandezze che a stento son celate da modi estremamente fini e stemmi meravigliosamente decorati, e poi dovremmo dimenticare cosa sia stato il cristianesimo prima di ritrovarcelo dinanzi, e solo in apparenza, così mite?
Il richiamo costante – maniacale, si direbbe – al passato di chi oggi lamenta di essere perseguitato ha il ben preciso compito di dare il dovuto contesto alle persecuzioni, non di giustificarle. Si tratta di un contesto che non ha il diametro di anni o di decenni, ma di secoli e secoli, e il contesto che lo interseca nel punto in cui i cristiani arrestano la loro conquista e arretrano è quello di un islam che ci offre una ripassatina di storia, con la sua personale riedizione delle guerre di religione col quale il cristianesimo ci diede milioni di morti, sui quali ancora glissa come su spiacevoli ma insignificanti sbavature di un salmo cantato a Dio.
In quanto al fatto che il Corano detti al musulmano il compito di sgozzare gli infedeli, gli detta pure di non uccidere nessuno. Come accade per tutti i libri sacri, che per sfidare i secoli devono per forza essere ambigui e contraddittori, tutt’è aspettare l’interpretazione che ci dia una religione di pace, in fondo ci sono voluti secoli perché il «qui non est mecum contra me» non fosse più letto come un’esortazione al massacro.
Dispiacersi per i cristiani perseguitati e uccisi da alcuni musulmani? Ma è naturale, ci mancherebbe altro. Certo, pensare che per mettere fine alla loro sofferenza sia necessaria «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella subita» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 4.4.2015), oltre che poco coerente con il dettato evangelico, è soluzione folle, in ultima analisi equivalente ad un invito a suicidarsi dopo aver fatto fuori quanti più nemici: fatte salve le differenze di modalità, la stessa logica dello jihadista.
E allora quale sarebbe la soluzione? Temo non ci sia. Per meglio dire, temo che quella possibile non sia facilmente attuabile da chi professa un credo che fa obbligo di manifestare pubblicamente la propria fede, ed anzi non riesce ad ipotizzare altro tipo di esperienza religiosa che non sia comunitaria. Anche in ciò, il cristiano e il musulmano (anche il musulmano che afferma di ripudiare lo strumento della violenza fisica) si somigliano, per questo è irrimediabile che lo spazio pubblico sia per entrambi una posta in gioco, fatto sta che per terre da sempre sotto il tallone dell’islam la soluzione del «cuius regio, eius religio», con la quale si mise fine allo scannatoio europeo del XV e del XVI secolo, sarebbe mal tollerabile da chi ritiene che la testimonianza della propria fede debba farsi carico anche dell’effusione del proprio sangue. Lo effondesse pure, allora, tanto più se spalanca le porte del Paradiso ed è semenza di nuovi cristiani, ma in terre dove è sparuta minoranza non pretenda che gli riservi trattamento diverso da quello che i cristiani hanno riservato a quanti definivano infedeli.
La soluzione inaccettabile sarebbe quella dei lapsi, peraltro già adottata sotto le persecuzioni dei primi secoli del cristianesimo: vivere la propria fede nell’intimo del proprio cuore senza darne alcun segno esteriore. Tuttavia mi rendo conto che tale soluzione potrebbe andar bene solo a chi tenga di più alla propria pelle che alla propria anima, e dunque, a ben vedere, non resta che stare a guardare i cristiani ammazzati dai musulmani con l’umana compassione che non deve mai venir meno alla morte violenta anche di un solo uomo, anche se appartenente ad una cosca mafiosa perdente e fatto fuori da killer di una cosca mafiosa vincente. Vorrei tranquillizzare chi non me ne ritiene capace: questa compassione io la provo.
In quanto al post qui sotto, non aveva alcuna attinenza al massacro di cristiani consumatosi nel college keniota: l’oggetto erano le pratiche devozionali cruente del Venerdì Santo. In quanto a sangue, intendevo dire, ne spreme più un cattolico che uno sciita.
Bene, comincio col dire che queste osservazioni sono assai poco pertinenti alla questione che sollevo io. Io non faccio alcuna fatica a constatare che, per imporre la loro fede al mondo intero, i cristiani non facciano più uso della violenza fisica (su quella che si esercita con mezzi non cruenti sarebbe un discorso lungo e qui sorvolerò), ma sia ben chiaro che, se hanno smesso di farlo, non è perché d’un tratto hanno imparato a leggere i Vangeli come si deve, ma solo perché glielo si è impedito, non senza pagare un grosso prezzo, pagato per lo più da chi il cristianesimo sentì e trattò da nemico. Tra i martiri dei suoi primi tre secoli e quelli che oggi il cristianesimo – insieme – vanta e lamenta c’è un millennio e mezzo che solo un incosciente o un disonesto può pensare non conti niente o possa essere cancellato con due scuse, peraltro neanche rivolte alle vittime, ma a Dio, e soprattutto continuando a godere di ciò che si è conquistato coi mezzi che oggi si rimproverano a chi ha come fine lo stesso genere di conquista. Non riusciamo ad essere indulgenti davanti a ricchi o a nobili che abbiano acquistato ricchezze e titoli con nefandezze che a stento son celate da modi estremamente fini e stemmi meravigliosamente decorati, e poi dovremmo dimenticare cosa sia stato il cristianesimo prima di ritrovarcelo dinanzi, e solo in apparenza, così mite?
Il richiamo costante – maniacale, si direbbe – al passato di chi oggi lamenta di essere perseguitato ha il ben preciso compito di dare il dovuto contesto alle persecuzioni, non di giustificarle. Si tratta di un contesto che non ha il diametro di anni o di decenni, ma di secoli e secoli, e il contesto che lo interseca nel punto in cui i cristiani arrestano la loro conquista e arretrano è quello di un islam che ci offre una ripassatina di storia, con la sua personale riedizione delle guerre di religione col quale il cristianesimo ci diede milioni di morti, sui quali ancora glissa come su spiacevoli ma insignificanti sbavature di un salmo cantato a Dio.
In quanto al fatto che il Corano detti al musulmano il compito di sgozzare gli infedeli, gli detta pure di non uccidere nessuno. Come accade per tutti i libri sacri, che per sfidare i secoli devono per forza essere ambigui e contraddittori, tutt’è aspettare l’interpretazione che ci dia una religione di pace, in fondo ci sono voluti secoli perché il «qui non est mecum contra me» non fosse più letto come un’esortazione al massacro.
Dispiacersi per i cristiani perseguitati e uccisi da alcuni musulmani? Ma è naturale, ci mancherebbe altro. Certo, pensare che per mettere fine alla loro sofferenza sia necessaria «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella subita» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 4.4.2015), oltre che poco coerente con il dettato evangelico, è soluzione folle, in ultima analisi equivalente ad un invito a suicidarsi dopo aver fatto fuori quanti più nemici: fatte salve le differenze di modalità, la stessa logica dello jihadista.
E allora quale sarebbe la soluzione? Temo non ci sia. Per meglio dire, temo che quella possibile non sia facilmente attuabile da chi professa un credo che fa obbligo di manifestare pubblicamente la propria fede, ed anzi non riesce ad ipotizzare altro tipo di esperienza religiosa che non sia comunitaria. Anche in ciò, il cristiano e il musulmano (anche il musulmano che afferma di ripudiare lo strumento della violenza fisica) si somigliano, per questo è irrimediabile che lo spazio pubblico sia per entrambi una posta in gioco, fatto sta che per terre da sempre sotto il tallone dell’islam la soluzione del «cuius regio, eius religio», con la quale si mise fine allo scannatoio europeo del XV e del XVI secolo, sarebbe mal tollerabile da chi ritiene che la testimonianza della propria fede debba farsi carico anche dell’effusione del proprio sangue. Lo effondesse pure, allora, tanto più se spalanca le porte del Paradiso ed è semenza di nuovi cristiani, ma in terre dove è sparuta minoranza non pretenda che gli riservi trattamento diverso da quello che i cristiani hanno riservato a quanti definivano infedeli.
La soluzione inaccettabile sarebbe quella dei lapsi, peraltro già adottata sotto le persecuzioni dei primi secoli del cristianesimo: vivere la propria fede nell’intimo del proprio cuore senza darne alcun segno esteriore. Tuttavia mi rendo conto che tale soluzione potrebbe andar bene solo a chi tenga di più alla propria pelle che alla propria anima, e dunque, a ben vedere, non resta che stare a guardare i cristiani ammazzati dai musulmani con l’umana compassione che non deve mai venir meno alla morte violenta anche di un solo uomo, anche se appartenente ad una cosca mafiosa perdente e fatto fuori da killer di una cosca mafiosa vincente. Vorrei tranquillizzare chi non me ne ritiene capace: questa compassione io la provo.
In quanto al post qui sotto, non aveva alcuna attinenza al massacro di cristiani consumatosi nel college keniota: l’oggetto erano le pratiche devozionali cruente del Venerdì Santo. In quanto a sangue, intendevo dire, ne spreme più un cattolico che uno sciita.
venerdì 3 aprile 2015
Primato del cristianesimo sull’islam
Avvertenza
per gli stomaci delicati:
il
video mostra pratiche devozionali.
giovedì 2 aprile 2015
[...]
Do
per scontato che Massimo D’Alema sia persona moralmente irreprensibile, proprio perciò
non mi capacito del perché sia incazzato come una bestia per la pubblicazione
delle intercettazioni telefoniche in cui si fa il suo nome. C’è una cooperativa
che ha acquistato cinquecento copie di un suo libro e duemila bottiglie del suo
vino? Bene, mi pare non ci sia nulla di male, dunque perché gli dà fastidio che
si sappia? Un buon libro e un buon vino non smettono d’essere tali se a
comprarli sia stata una cooperativa oggi indagata per questo o quel reato, né
chi ha scritto quel libro e prodotto quel vino ha da rimproverarsi nulla se ad
acquistarli sia stato chi per questo o quel reato dovesse eventualmente essere
condannato. Diciamo che a far nascere l’odioso sospetto che quegli acquisti non
fossero motivati dalla qualità dei prodotti, che qui voglio dare per scontato sia indiscutibile, quanto piuttosto da una sorta di
disobbligo clientelare, è solo ciò che Francesco Simone, responsabile delle
relazioni istituzionali della cooperativa indagata, afferma in una delle
telefonate intercettate, quando, quasi certamente millantandone la protezione, testualmente dice:
«D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle
cose». La frase prova che quelle «cose» siano state date in cambio dell’acquisto
delle copie del libro e delle bottiglie di vino, o che si trattasse di
favori illeciti per il solo fatto che ad esse sia stata allegata l’immagine del «mettere
le mani nella merda»? A me non pare, e tuttavia comprendo che la frase possa prestarsi a una lettura errata, soprattutto da chi intenda mettere in discussione l’indiscutibile rettitudine di Massimo D’Alema, il quale, dunque, prima di querelare chi voglia tessere ingiuste
insinuazioni su quella frase, dovrebbe querelare Francesco Simone. L’ha
fatto? Può darsi mi sia sfuggito, ma non ne ho notizia.
martedì 31 marzo 2015
[...]
È Antonio Socci (Libero, 29.3.2015), e non è tutto.
Sciacallaggio,
senza dubbio, e senza il benché minimo cenno al fatto che Andreas Lubitz fosse
cattolico. Certo, fosse stato musulmano, il pezzo sarebbe venuto meglio.
Dinanzi a quanto ci fa orrore sentiamo
l’istintivo bisogno di tenercene a distanza, fuggendolo, se ci è troppo
d’accanto. Quando però l’orrore nasce da quanto ci è assai prossimo, la fuga
impone come l’abbandono di qualcosa che a torto o a ragione pensavamo ci
appartenesse, e che d’un tratto ci appare estraneo. Lì torna utile immaginarlo come contaminato, e il primo esempio che mi viene in mente è quello del piede che
con orrore scopriamo ci stia andando in gangrena: per salvarci siamo costretti
ad accettare ci sia amputato, perdita comprensibilmente dolorosa ma altrettanto
comprensibilmente necessaria, che però assumiamo come scelta di separarci da
qualcosa che già non sentiamo più nostro, ma del Clostridium perfrigens.
Le
cose stanno messe un po’ diversamente quando il corpo è quello sociale e
l’orrore nasce dal constatare che chi fino a ieri abbiamo considerato simile a noi,
in realtà, non lo sia affatto: stanno messe un po’ diversamente perché quello
sociale è corpo solo in modo figurato (è solo una figura retorica, infatti, a
ridarcelo come organismo) ed è nostro con molta confusione circa la titolarità
dell’appartenenza (dovremmo, eventualmente, essere noi ad appartenergli, ma
un’altra figura retorica, la metonimia, troppo spesso riesce a darci l’illusione
che esso ci appartenga: concepirlo come vorremmo fosse, dunque, ce lo ridà come
proiezione del nostro corpo).
Direi che sia per questo che la scoperta che il
nostro vicino di casa è un mostro che nel frigo colleziona teste di bambini sia
destinata a darci tanto più orrore quanto più l’abbiamo percepito simile a noi,
cosa possibile solo se l’attenzione che gli abbiamo potuto dedicare era
giocoforza limitata al poco che egli ci mostrava di se stesso, ma nello stesso
tempo ci sembrava potesse bastare ad assumerlo come nostro proiettato. In altri
termini, ci vuol poco per inorridire all’idea di un terrorista salafita che si
faccia saltare in aria in una moschea yemenita, ma ce ne vuole assai di meno
per inorridire all’idea di un copilota tedesco che mandi un aerobus imbottito
di passeggeri a sfracellarsi contro una montagna francese: l’orrore sarà tanto
maggiore quanto minore sarà la distanza che immaginavo esistesse tra me e l’autore
della strage.
Centocinquanta morti in entrambi i casi, ma solitamente io vado
in aereo, non in moschea, e poi Andreas Lubitz mi somiglia molto di più
rispetto a quel cazzo d’un Mohamed o di un Alì di cui non so neanche il
cognome: sempre gangrena è, ma quando il piede è mio, consentirete, l’orrore
sarà più intenso. Per la stessa ragione, le atrocità commesse in Iraq da un
foreign fighter che viene da Verona mi turberanno assai di più di quelle
commesse da uno che viene da Londra, e ancor di più di quelle commesse da uno
che viene da Tunisi. Direi che, quando le ragioni che motivano una strage hanno
preso le mosse da un universo che ritengo estraneo al mio, l’orrore mi turba,
ma non mi dà troppi problemi. Quando, al contrario, l’autore della strage è uno che fino a ieri avrei detto mio fratello, non mi basta sapere che fosse folle: ho bisogno di appioppargli una gangrena metafisica.
lunedì 30 marzo 2015
Renzi è peggio di Berlusconi
Una frase pronunciata da Landini nel corso del discorso tenuto sabato scorso in Piazza del Popolo ha trovato sintesi giornalistica in un’affermazione sulla quale in molti hanno storto il muso: dopo aver elencato i provvedimenti di natura economica fin qui adottati dall’esecutivo attualmente in carica – i riferimenti erano quasi interamente relativi al cosiddetto Jobs Act – il segretario generale della Fiom-Cgil ha detto che «il governo Renzi sta proseguendo come i governi precedenti Monti e Letta e anche con un peggioramento rispetto al governo Berlusconi», ma la concisione imposta dalle esigenze dello strillo hanno trasformato la frase in «Renzi è peggio di Berlusconi», che è suonata come giudizio complessivo sulla persona del premier, e giudizio assai poco lusinghiero, soprattutto tenuto conto del termine di paragone, sicché in molti hanno storto il muso, anche fra quanti a Renzi non hanno fatto mai sconto di nulla.
Peggio di Berlusconi, insomma, nessuno: «un piazzista piduista con capitali dalle origini molto torbide, che inizia il suo business ungendo amministratori pubblici per vendere case agli enti locali, poi continua legandosi mani e piedi al peggior potere politico e stringendo rapporti con la mafia, quindi fa costruire il suo partito da un mafioso usando il suo capitale e le sue televisioni per andare al governo, continuando intanto un’opera mai interrotta di corruzione ed evasione fiscale, dopo aver corrotto anche un giudice per prendersi una casa editrice non sua, infine trascorrendo l’ultima legislatura di governo a fabbricare leggi incostituzionali per salvare se stesso dai processi [e] questo per tacer del resto, mignotte minorenni incluse», così nel memento di Alessandro Gilioli, che renziano non è, e che nel definire i termini della questione non manca di porre in rilievo la differenza tra quel che Landini ha realmente detto e quel che invece i cronisti gli hanno fatto dire.
Bene, io l’ho già scritto poco più di un mese fa e non ho alcuna difficoltà a ripeterlo: «Renzi è peggio di Berlusconi». A dire il vero, non mi esprimevo proprio in questi termini, ma, visto che la frase nasce orfana e nessuno la vuole, l’adotto io. Ammetto sia bruttina, ma lasciarla indifesa non mi pare giusto. Ed eccomi a difenderla, cominciando dal togliergli le virgolette.
Renzi è peggio di Berlusconi, perché Berlusconi non è ancora morto, ma non sarà mai più pericoloso quanto lo è stato, senza peraltro riuscire a far varare dalla sua maggioranza parlamentare tutte le schifezze di cui fin qui Renzi si è dimostrato capace. Se fosse necessario per azzoppare Renzi, il che al momento non è alle viste, votare Berlusconi esigerebbe uno stomaco foderato d’un pelo alto un palmo, ma, avendocelo, potrebbe anche essere eccitante. Nessuno è peggio di Renzi, perché nessuno – qui e ora – è altrettanto pericoloso, neppure Berlusconi.
Renzi è peggio di Berlusconi, perché Berlusconi non è ancora morto, ma non sarà mai più pericoloso quanto lo è stato, senza peraltro riuscire a far varare dalla sua maggioranza parlamentare tutte le schifezze di cui fin qui Renzi si è dimostrato capace. Se fosse necessario per azzoppare Renzi, il che al momento non è alle viste, votare Berlusconi esigerebbe uno stomaco foderato d’un pelo alto un palmo, ma, avendocelo, potrebbe anche essere eccitante. Nessuno è peggio di Renzi, perché nessuno – qui e ora – è altrettanto pericoloso, neppure Berlusconi.
domenica 29 marzo 2015
[...]
Almeno
per Der Spiegel, che in Germania non
è voce irrilevante, «l’incidente mette
fine al mito della sicurezza tedesca»: «Non
erano gli altri, quelli cui accadevano le grandi tragedie? Attentati, incidenti
con centinaia di morti, catastrofi che accadevano sempre lontano da noi. Da
martedì è diverso. Finisce l’illusione che noi siamo più sicuri degli altri
finché ci affidiamo a quello che ci fa tedeschi. Una tracotanza che è durata
troppo a lungo».
Può
darsi che questa riflessione non nasca dallo «Schettinen» che l’altrieri il
Giornale sparava in prima pagina, d’altronde lo stesso Der Spiegel, con ammirevole misura, lo ha definito discutibile («fragwürdigen») e inopportuno («unangebracht»), miserabile pan per
focaccia («Retourkutsche») per ciò che
il settimanale tedesco aveva scritto sulla vicenda della Costa Concordia (*). Una
cosa, tuttavia, mi pare degna di nota: sul principio di responsabilità, l’opinione
pubblica tedesca ha riflessi assai più nobili della nostra. Si direbbe che lì vi sia popolo, e qui gente.
sabato 28 marzo 2015
[...]
Quando
la nave colerà a picco, quelli che oggi lodano il capitano saranno al sicuro su
una scialuppa sulla quale non ci sarà posto per chi lo critica. Per alcuni è un
posto che si guadagna lodandolo, ma per la gran parte è un posto che spetta per
privilegio, del tutto naturale che questi ritengano inutile ogni critica. Le lodi, insomma, stanno al colare a picco come le mosche alla merda.
[...]
Arriva
a conclusione una vicenda giudiziaria che fin da subito ha mostrato, con uno
dei più dissennati modi di condurre un’indagine, l’incredibile d’una
eccezionale mostrificazione degli imputati a fronte di una sconcertante
inconsistenza delle prove a loro carico, ma ansa.it osa sparacchiare che la
sentenza è a sorpresa. Hanno rubato anni di vita a due ragazzi che un pm si è
ostinato a credere non potessero non essere che colpevoli – oggi s’è visto
quanto a ragione – e ansa.it si stupisce che la Cassazione lo definisca un
furto: «Tra chi immaginava una sentenza definitiva di condanna e chi puntava ad
un processo d’appello-ter con annullamento del verdetto della Corte d’assise di
secondo grado di Firenze, la Suprema Corte ha scelto una terza via, forse la
più difficile». Perché «la più difficile», se quelle che si riteneva essere
prove erano in realtà solo gracili stampelle a sostenere una più che zoppicante
tesi preconcetta? Neanche si è mai riusciti a dimostrare che Sollecito e Knox fossero sul luogo del delitto, fanculo ai colpevolisti.
giovedì 26 marzo 2015
Se un giorno me ne venissi con un post del genere
Tenetevi
forti, ché sto per darvi un’affascinante lettura de The Comedy of Errors di William Shakespeare. Cominciamo col dire
che compie quindici anni il saggio col quale il professor Martino Iuvara cercò
di dimostrare che Shakespeare non fosse nato a Stratford-upon-Avon, ma a
Messina, e che il suo vero nome fosse Michelangelo Florio Crollalanza, fuggito
in Inghilterra per sfuggire alla Santa Inquisizione a causa della sua fede
calvinista. Tesi un po’ a cazzo di cane, questo è vero, ma come si spiega che
ben 15 delle 37 tragedie shakesperiane sono ambientate in Italia e La Commedia degli Errori proprio in
Sicilia? Be’, sia come sia, suppongo non vi saranno sfuggite le analogie che
intercorrono tra la poetica di Shakespeare e l’opera pittorica di Giuseppe
Albino detto il Sozzo (1550-1611), siciliano pure lui. Vero è che sono analogie d’un esile, ma d’un
esile, che manco le definirei analogie, e tuttavia una cosa è indiscutibile: il
Bardo e il Sozzo avevano in comune una fastidiosissima allergia alla Parietaria officinalis. Bene, ora qui il
discorso si farebbe complesso, sfiancante, perciò, via, lasciamo perdere.
Dite
la verità: se un giorno me ne venissi con un post del genere, direste che mi
sono bevuto il cervello? Non saprei darvi torto. Bene, sappiate che mi limitavo
a parodiare Marco Bona Castellotti (Giordano
Bruno non era solo antisemita, ce l’aveva con l’intera tradizione – Il Foglio, 25.3.2015).
«Compie quarant’anni
l’interessante saggio di Irving Lavin nel quale è adombrato che la prima
versione del “San Matteo con l’angelo” di Caravaggio, già in san Luigi dei
Francesi, non venne rifiutata per ragioni di decoro – gambe accavallate, piedi
sporchi – come tramandano le fonti storiche, bensì perché la rappresentazione
del soggetto nasconderebbe una componente eterodossa. Le lettere scritte in
ebraico, che compaiono sul libro tenuto in mano da Matteo (Levi d’Alfeo),
corrispondono infatti alla trascrizione della genealogia di Cristo, compiuta
nel 1582 da un giudaista protestante d’origine ebraica, Sebastian Münster, e
respinta dalla chiesa cattolica. A dire il vero, lo stralcio del testo
evidenziato da Caravaggio poteva risultare accettabile tanto agli occhi dei
cattolici che dei protestanti, in quanto collimava con la “Vulgata” di san
Gerolamo. Ciò non di meno il dipinto fu respinto, facendo precipitare il
pittore nello sconforto. Se l’ipotesi di insinuazioni filoprotestanti fosse fondata
– il che non è per nulla certo – sarebbe l’indice di un atteggiamento
provocatorio dei committenti, forse condiviso dal Merisi».
Stai
per parlare dell’antisemitismo di Giordano Bruno e attacchi con una tesi sul
Caravaggio che tu stesso affermi d’essere bislacca? Dove mi vuoi portare?
«Due anni prima di quel
dipinto caravaggesco, nel 1600, Giordano Bruno era stato arso vivo in Campo de’
Fiori, colpito dall’accusa di eresia. In un importante studio per taluni aspetti
condivisibile e per altri no, Argan prospetta alcune analogie fra Bruno e
Caravaggio, ma va subito sottolineato che la spiritualità immateriale, esoterica,
ermetica, panteista, lulliana, ficiniana e soprattutto gnostica del Nolano è agli
antipodi della visione della realtà di Michelangelo Merisi. […] I due muovono
da matrici culturali diversissime, essendosi l’uno formato in ambiente napoletano
tomista, l’altro in ambiente lombardo borromaico. In conclusione, tra Bruno e
Caravaggio i punti di contatto sono assai pochi ».
Perfetto,
ma allora perché imbastisci il parallelo? Perché in entrambi c’era l’antisemitismo
– ma forse è meglio definirlo antigiudaismo – che a quei tempi era un
pregiudizio diffusissimo? Ok, in Giordano Bruno c’era, ma in Caravaggio? Non un cenno.
Va bene, passi per il Caravaggio messo nel
corpo dell’articolo per rimpolparlo, ma almeno vogliamo scandagliare nel fondo
dell’antigiudaismo bruniano, lì dove sembra dare argomento anche all’attacco «denigratorio che concerne, direttamente o
per allusione, Cristo, la chiesa, i santi, in specie san Paolo, e i gesuiti»?
No, «il discorso è estremamente complesso
e presuppone un affondo nella letteratura bruniana a dir poco sfiancante». Per carità di Dio, sfiancare il Castellotta, mai.
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