lunedì 1 febbraio 2016
Non ci si può aspettare una risposta accettabile
Qualche
settimana fa ho riportato su queste pagine una frase tratta dalle
conversazioni di don Luigi Giussani con Robi Ronza raccolte da Jaka
Book in un volume dato alle stampe nel 1987: «La
realtà del rapporto uomo-donna –
diceva il pretino – trova compimento
nell’esperienza
coniugale e ha sostanziale funzione di arricchire di figli la
Chiesa». Se a darci il
raccapriccio, qui, è il fine ascritto alla procreazione, perché
giocoforza evoca lo
sprone a figliare per far più forte la Patria, che è tratto comune
di ogni regime totalitario, a darcelo riguardo al modo in cui
andrebbe correttamente inteso il mezzo è il
passaggio tratto dall’intervento
tenuto da Massimo Gandolfini alla kermesse del Circo Massimo qui
sopra riportato, che il tono categoricamente assertivo non basta a
rendere meno grottesco di un «non
lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio».
Dinanzi alle affermazioni di Giussani e di Gandolfini, che in
combinato disposto ci danno una
sintetica ma esaustiva sinossi della dottrina morale della Chiesa su
quanto attiene a sesso, procreazione, matrimonio e famiglia, mettere
al mondo un figlio per mero capriccio acquista un’enorme
dignità, ancor più se a fronte di ostacoli che richiedano l’impiego
di pratiche contro natura, mentre il coito ad esclusivo fine
edonistico, ludico o ricreativo libera il sesso dall’avvilente
giogo che lo riduce a una pratica del tutto impersonale, da officiare come una liturgia.
Questo, ovviamente, laddove si voglia rigettare la dimensione creaturale dalla quale a un maschio e a una
femmina non resti altro che elevare lode al Dio di Giussani e di
Gandolfini. E se appunto è questa la scelta di un cittadino
italiano? Resta ancora nella libertà di un individuo rigettare il magistero della Chiesa o è d’obbligo recepirlo? Se è il nucleo dottrinario che sta nelle affermazioni di Giussani e di Gandolfini a dare fondamento al modello antropologico cristiano, perché le
leggi di uno stato non confessionale dovrebbero recepirlo
disconoscendo il valore di famiglia, con tutto quanto ne consegue,
alle unioni che esprimono un modello alternativo? Non ci si può
aspettare una risposta accettabile: come sempre quando si viene alla resa dei conti coi prepotenti, la soluzione è nello scontro, costi quel che deve costare.
sabato 30 gennaio 2016
Si mandi in pagina
«Quale
esiste nelle nostre società, la famiglia coniugale non è
l’espressione
di un bisogno universale, né è inscritta nelle radici della natura
umana: è una soluzione intermedia, uno dei possibili stati
d’equilibrio
tra formule che ad essa si oppongono, e che altre società hanno
effettivamente accettato».
Chi sarà mai ’sta
bestia che osa mettere in discussione la trascendenza della famiglia tradizionale? È presto detto: si tratta di Claude
Lévi-Strauss.
Se stamane avete letto Il
Foglio,
sono certo che vi chiederete se per caso non si tratti di un omonimo
del Lévi-Strauss cui Antonio
Gurrado ha attribuito la «formidabile arringa in favore della “famiglia
naturale”» che ha pensato di poter cavare da La famiglia (ne Lo guardo la lontano, il Saggiatore 2010).
No, si tratta dello stesso Lévi-Strauss.
Un po’
manipolato, diciamo, ma questo non dovrebbe far troppo scandalo, in
fondo stiamo parlando di un articolo pubblicato su Il
Foglio,
per giunta a firma di chi qualche tempo fa provò a rifilarci un
«Voltaire
cattolico» (Lindau,
2013), e poco mancava
che «écrasez
l’infâme»
diventasse
il motto da apporre sotto la statua della Vergine
che col piede schiaccia il Serpente,
tutto a partire da un «grazie
a Dio, sono buon cattolico»
palesemente ironico (Proscritto al Trattato sulla tolleranza).
Stavolta?
Una robina senza troppe pretese: Gurrado dà valore di domanda
retorica a una domanda che non l’ha
per niente. «Se
l’universalità della famiglia non è effetto di una legge
naturale, come si spiega che la si trova dappertutto?»:
isolandola da ciò che viene prima e ciò che viene dopo, nel testo,
torna buona ad attribuire a Lévi-Strauss esattamente il contrario di
quanto afferma; e comunque, come vedremo, per «famiglia»
non si intende affatto «famiglia
tradizionale»
(intesa come relativa alla tradizione dell’occidente
cristiano).
Già
l’assunto
di partenza tende a scoraggiare ogni tentazione a postulare un
modello ideale cui la natura tenderebbe per sua intrinseca tendenza:
«Sarebbe
un errore addentrarci nello studio della famiglia con spirito
dogmatico».
E infatti: «Quando
si ripercorra l’immenso
repertorio delle società umane su cui abbiamo informazioni, tutto
quello che si può dire è che la famiglia coniugale vi è
frequentissima, e che, dove essa sembra mancare, si tratta in
generale di società molto evolute, e non, come ci si sarebbe potuto
aspettare, delle più rudimentali e semplici. Peraltro, tipi di
famiglie non coniugali esistono; e basta questo per convincerci che
la famiglia coniugale non proviene da una necessità universale».
Come si può fare di Lévi-Strauss un testimonial per il Family Day?
Impossibile. Impossibile da usare per spacciare la «famiglia
tradizionale»
come modello superiore. Impossibile da usare per sostenere la tesi
che i modelli alternativi ad essa siano «contronatura».
Ma impossibile da usare pure per dimostrare che il principio
coniugale possa necessariamente realizzarsi tra persone di sesso
diverso. Ed ecco, allora, che dopo un ampio ventaglio di modelli
familiari quanto mai distanti dalla «famiglia
tradizionale»,
si arriva a ciò che consiglia di tenere Lévi-Strauss a debita
distanza dal Circo Massimo: «Per
quanto strani ci appaiano, questi matrimoni tengono ancora conto
della differenza dei sessi, che ai nostri occhi è la condizione
essenziale (per quanto le rivendicazioni degli omosessuali comincino
a contestarla) per la fondazione di una famiglia. Ma in Africa donne
d’alto
rango avevano spesso il diritto di sposare altre donne, ingravidate
da amanti autorizzati; la nobildonna diventava “padre”
legale dei figli».
Ma Gurrado non si limita a questo: scrive che per Lévi-Strauss la famiglia è «fenomeno praticamente universale» (anche qui lasciando intendere che per «famiglia» sia da intendersi «famiglia tradizionale») per sostenere che debba necessariamente ritenersi fondata «sull’unione più o meno duratura, ma socialmente approvata, di due individui di sesso diverso che fondano una convivenza, procreano e allevano figli». Bene, questa definizione è solo quella che Lévi-Strauss pone in antitesi a quella di una «famiglia quale si osserva nelle società moderne» come «fenomeno relativamente recente, frutto di un’evoluzione lunga e lenta», per dire che in entrambi i casi si tratta di «posizioni estreme» che «peccano per semplicismo».
Ma Gurrado non si limita a questo: scrive che per Lévi-Strauss la famiglia è «fenomeno praticamente universale» (anche qui lasciando intendere che per «famiglia» sia da intendersi «famiglia tradizionale») per sostenere che debba necessariamente ritenersi fondata «sull’unione più o meno duratura, ma socialmente approvata, di due individui di sesso diverso che fondano una convivenza, procreano e allevano figli». Bene, questa definizione è solo quella che Lévi-Strauss pone in antitesi a quella di una «famiglia quale si osserva nelle società moderne» come «fenomeno relativamente recente, frutto di un’evoluzione lunga e lenta», per dire che in entrambi i casi si tratta di «posizioni estreme» che «peccano per semplicismo».
Sì, vabbè, ma chi volete che vada a controllare cosa davvero abbia scritto Lévi-Strauss? Si mandi in pagina.
[Si ringrazia Urzidil per la revisione.]
[Si ringrazia Urzidil per la revisione.]
giovedì 28 gennaio 2016
[...]
Il
trapezista, il lanciatore di coltelli, la contorsionista, ovviamente
l’elefante, e poi lo sputafuoco,
la scimmietta che sa far di conto, l’illusionista...
Numeri che da vent’anni
strappano l’applauso
a grandi e piccini, ma è quello dei pagliacci ad essere da sempre il
top del barnum fogliante.
Oggi, ad esempio, c’era
davvero da pisciarsi addosso allo sketch d’un
bagonghi seduto sulle spalle di un gigante del conservatorismo: «I
fautori delle nozze gay e delle unioni civili – strillava
schizzando lacrime da due tubicini collegati a una pompetta – sono
animati dagli stessi principi cardine che avevano spinto all’azione
più o meno sanguinaria i loro precursori – i giacobini – che al
posto della bandiera arcobaleno sfoggiavano la coccarda tricolore».
Numero spassosissimo, senza dubbio, ma si poteva anche far
meglio col richiamo alla comune radice di «culattone» e
«sanculotto».
Un punto a favore del marmo
Sul
caso delle statue impacchettate per non turbare l’ospite
in turbante, penso sia utile segnalare il confronto avutosi ieri, a
L’aria che tira, tra Alessandro Giuli e Matteo
Colaninno: mentre il primo definiva inescusabile la
premura nei confronti della sessuofobia che è di tutti i
fanatismi religiosi, e molto appropriatamente rammentava la furia
iconoclasta dei primi cristiani contro i nudi dell’arte
pagana, sebbene ancor più appropriato sarebbe stato rammentare i
braghettoni di Daniele da Volterra ai nudi del Giudizio Universale,
il secondo respingeva la contestazione – anche abbastanza
infastidito, occorre dire – esortando a porre l’attenzione
sul fatto che fosse in gioco una partita da 17 miliardi di dollari, e
che dunque nessuna premura fosse da ritenere eccessiva, con ciò
lasciando nel retrogusto della sua affermazione un che di
tremontiano, qualcosa del tipo «fossero
saltati gli accordi, ce mangiavamo du’
zinne de marmo?».
Lo
scambio avveniva poco prima che da Palazzo Chigi fosse licenziata la
nota ufficiale che declinava ogni responsabilità dell’accaduto,
scaricandola sugli addetti al Cerimoniale di Stato, che di lì a poco
l’avrebbero rimpallata agli uffici del Consiglio dei Ministri. Quella di Colaninno, in sostanza, sarebbe in
breve diventata una cazzuta excusatio non petita in nome e per conto
di un esecutivo che presto avrebbe mostrato di non avere alcuna intenzione di
sottoscriverla. Riaprendo la vecchia polemica rinascimentale su quale materiale abbia il primato nel rendere al meglio una figura, un punto a favore del marmo (del Museo Capitolino) sul bronzo (della faccia di Colaninno).
martedì 26 gennaio 2016
Fatte le debite proporzioni
Quali
differenze ci siano tra l’Iran
e la Città del Vaticano, lo so di mio, non c’è
bisogno che me le rammentiate, fatto sta che in entrambi i casi siamo
dinanzi a quella che tecnicamente è una teocrazia. Sì, la forma di
governo non è affatto simile, ma è perché l’Iran
è una repubblica presidenziale e la Città del Vaticano è una
monarchia assoluta, ma in fondo, via, in entrambi i casi il potere
politico sta in mano ad una autorità religiosa. Anche qui con
qualche differenza? Senza dubbio. In Iran, infatti, almeno
formalmente, il legislativo e l’esecutivo
spettano ad organi eletti dal popolo, anche se poi è la Guida
Suprema, oggi rappresentata dall’ayatollah
Khamenei, ad avere su di essi il pieno controllo; nella Città del
Vaticano, invece, fanculo all’ipocrisia,
al Papa è data
«potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla
Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente».
Non mi
sfuggono neppure altre due o tre differenze, che pure sono di grande
importanza. In primo luogo, l’Iran
è una teocrazia dal 1979, anno in cui la rivoluzione islamica portò
al potere incontrastato dell’autorità
religiosa, allora rappresentata dall’ayatollah
Khomeini, sulla vita di oltre 77.000.000 di abitanti, mentre il
processo che ha portato all’unità
d’Italia
ha tolto allo Stato Pontificio un bel po’
di territorio, relegandone la sovranità in meno di mezzo chilometro
quadrato, abitato da meno di 1.000 anime (ammesso e non concesso che
ogni cittadino della Città del Vaticano ne possegga una). Del tutto
comprensibile, dunque, e questo è solo un esempio, che le forze armate iraniane contino 945.000
unità, mentre il papa ha solo 110 guardie svizzere.
In secondo, in
terzo e in quarto luogo, non mi sfugge neppure quanto consegue dalla disparità di
quello che potremmo definire – lato sensu – il potere temporale in
capo all’una e all’altra autorità
religiosa, che è enorme in Iran, dove la Guida Suprema se lo
tiene bello stretto, cosa di cui il Papa non si è dimostrato capace,
facendo, seppure a gran fatica, di necessità virtù l’esserselo fatto strappare. Quando (e se) questo accadrà anche in Iran, probabilmente avremo una replica di quanto è accaduto in Italia, quasi certamente rispettando la sequenza: raffiche di scomuniche, non expedit, poi expedit, e via con un cordiale concordato.
In sintesi,
potremmo dire che l’Iran
è una teocrazia in ottima salute, e perciò ganza e spaccona, mentre quella
del Papa è una teocrazia un po’
sfigata, che un tempo non era poi da meno nello sbarazzarsi di pervertiti
e apostati, nemici esterni e oppositori interni, ma di quel passato
conserva ormai solo una struggente e inconfessabile nostalgia, pudicamente
trattenuta in un assai ben compresso «vorrei ma non posso».
È per questo
che, fatte le debite proporzioni, se si bacia la mano al Papa, si può
tranquillamente stringerla a Rouhani.
Ridotta veramente male, non c’è che dire
Quando
Camillo Ruini esortò i cattolici italiani a disertare la
chiamata referendaria del 12 e 13 giugno 2005, il calcolo – poi
rivelatosi azzeccato – era che il quorum non fosse raggiunto e che
la legge n. 40 del 19 febbraio 2004 non fosse abrogata. Per quanto
sottoposta a limiti così pesanti da renderla un percorso ad
ostacoli, la fecondazione assistita non era tuttavia vietata da
quella legge, che infatti all’art.
1 recita: «Al
fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti
dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso
alla procreazione medicalmente assistita»,
venendo così a confliggere in modo irricomponibile col dettato che definisce «moralmente
inaccettabile»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2377)
il ricorso a qualsiasi tecnica di inseminazione artificiale. Sembrò
che la Cei si spendesse in difesa di un principio, mentre in realtà
lo sacrificava con grande disinvoltura, per uscire vincitrice da una
prova di forza che era tutta politica. Se, infatti, «vi
sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché
la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male
morale»
(ibidem,
1761) – e in questa fattispecie cade il ricorso a pratiche
procreative diverse da quelle naturali – la politica è pratica di
compromesso che non di rado costringe il principio entro i limiti del
possibile.
Così
accade con le unioni civili: tutte le dichiarazioni che in questi
giorni sono licenziate dai vari gradi della gerarchia ecclesiastica,
e che per la gran parte dei commentatori sono il legittimo esercizio
del magistero sulle coscienze dei fedeli, sono in grave difetto –
soprattutto omissivo, ma non solo – rispetto a quanto la dottrina
morale cattolica afferma come inderogabile. Nella difesa del
matrimonio, ad esempio, viene costantemente trascurato il richiamo al
fatto che «non
può sussistere un
valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso
sacramento»
(Codice
di Diritto Canonico,
can. 1055 § 2): in sostanza, il matrimonio civile non è «offesa
alla dignità del matrimonio» meno
di quanto lo siano tutte le forme di «libera
unione»,
degradate a «concubinato»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2390). Sembrano lontani i tempi in cui monsignor Pietro Fiordelli,
vescovo di Prato, bollava come «pubblici
concubini»
Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, sposatisi in municipio con rito
civile:
«Questo
gesto di aperto, sprezzante ripudio della religione –
scriveva sul giornale diocesano – è
motivo di immenso dolore per i sacerdoti e per i fedeli. Il
matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è
matrimonio, ma soltanto l’inizio di uno scandaloso concubinato».
Nessun prete si azzarderebbe a ripeterlo, oggi, ma nulla sul piano
dottrinario e canonico è mutato da allora: se non è sacramento, il
matrimonio non è vero matrimonio.
Ma
il compromesso non si limita ad evitare di porre il distinguo tra
matrimonio celebrato con rito religioso e quello celebrato con rito
civile: purché sia fermo il punto che nessuna forma giuridica possa
(e dunque debba) essere attribuita al legame tra due persone che
abbiano lo stesso sesso, le gerarchie ecclesiastiche sono già da
tempo indulgenti sulle unioni di fatto tra un uomo e una donna,
omettendo la condanna morale a quanti «rifiutano
di dare una forma giuridica e pubblica a un legame che implica
l’intimità
sessuale» e
con ciò «distruggono
l’idea
stessa di famiglia»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2390), ed evitando ogni rampogna pubblica a chi abbia rapporti sessuali prematrimoniali, che restano grave offesa al VI comandamento, al pari – esattamente al pari – della masturbazione e dello stupro. Anche qui il principio è sacrificato a una partita tutta
politica, che impone, se non l’abbandono,
almeno un significativo disimpegno su una questione sempre meno
difendibile, per concentrare tutte le forze su quella che sembra
offrire qualche possibilità di successo. Anche qui, come nel caso
della condanna del matrimonio con rito civile negli anni Cinquanta, a
quei tempi celebrato in rarissimi casi, la scelta è quella di
battersi contro modelli socialmente minoritari, nella convinzione che
possano restar tali stigmatizzandoli come deleteri, consci del fatto
che il riconoscimento pubblico e giuridico di ogni modello
alternativo a quello cattolico (così d’altronde
era accaduto per il matrimonio con rito civile, contemplato dal
Codice Civile del 1942) lo rende, prima o poi, socialmente accettato.
In fondo è l’ammissione
che la legge umana fotte sempre quella divina, e che quest’ultima
non può più contare sull’autoevidenza
della sua superiorità, tutt’al più su qualche cattodem, su Gasparri, su Quagliariello. Ridotta veramente male, non c’è che dire.
lunedì 25 gennaio 2016
Un contributo
Julián
Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione,
scrive una lunga lettera al direttore del Corriere
della Sera,
che domenica 24 gennaio la manda in pagina titolandola Diritti
tradizionali e valori fondanti.
«Dopo
mesi di discussioni intorno alle unioni civili
– scrive il successore di don Luigi Giussani – il
disegno di legge Cirinnà approda in Parlamento,
scatenando una nuova manifestazione di piazza, anzi due, una a favore
e una contraria. Chi sostiene il progetto reclama il riconoscimento
di nuovi diritti; chi vi si oppone lo fa per difendere diritti
tradizionali».
È un incipit che fa pensare ad una riproposta degli pseudoargomenti
cari a chi si oppone al disegno di legge, perché è evidente che i
«diritti
tradizionali» non
sono affatto messi in discussione dai «nuovi
diritti»
(neppure il matrimonio tra due persone dello stesso sesso toglierebbe
valore a quello tra maschio e femmina, non si capisce quale sia
l’attacco
che gli sarebbe sferrato dal riconoscimento delle unioni civili), e
tuttavia qualcosa lascia intuire che nelle intenzioni vi sia
dell’altro,
perché la posizione che chi scrive si ritaglia sembra voler essere
terza rispetto a quella dei contendenti in campo, e di ciò pare
esservi conferma nella preoccupazione che viene espressa nel
successivo capoverso, dove lo scontro tra favorevoli e contrari al
ddl Cirinnà è detto foriero di «fratture
sociali e conflitti politici che sembrano insanabili».
«Sembrano
insanabili»,
dunque non è detto lo siano davvero: vuoi vedere – ti chiedi –
che questa terza posizione di Carrón
ha in sé il rimedio per sanarli? Se non sei prevenuto verso Cl, non
puoi far altro che continuare a leggere. E sbagli – meglio
chiarirlo subito – perché Carrón non offre soluzione: si limita a
dire che l’oggetto
del contendere è un falso problema (vedremo quale sia, a suo dire,
quello vero), e che dunque non ha senso stare a litigare.
Si ha la
sensazione che Carrón voglia interporsi tra i due litiganti perché
smettano di darsele, e invece non si tarda a scoprire che
l’intenzione
è quella di bloccarne uno, fingendo di abbracciarlo con affettuosa
premura, perché l’altro
possa menarlo meglio.
Ecco allora «la
testimonianza, in cui mi sono imbattuto di recente, di un
omosessuale, che si occupa di moda, ha un bel lavoro e una relazione
con un compagno. A una coppia di amici incontrati per caso confida
che non è felice e dice loro: “È
come se mi mancasse qualcosa, è come se vivessi la mia vita a
partire da una reazione, da una difesa. Ciò mi rende inquieto”.
Inquieto,
come tutti. Tutti tendiamo continuamente a ridurre il
nostro desiderio a una immagine creata da noi, perché così pensiamo
di avere la soluzione a portata di mano. Ma l’uomo reale non si
accontenterà mai. Anzi, il prezzo da pagare è molto alto: soffocare
dietro le sbarre della prigione che ci si è costruiti.
L’insoddisfazione può essere risanata con l’approvazione di una
legge? Tanti credono di sì. Questo spiega la lotta accanita per
approvarla. D’altra parte, chi ritiene che questo mini le basi
della società si oppone spesso con lo stesso accanimento, senza
riuscire a sfidare minimamente, anzi, alimentando, la posizione che
combatte».
In
soldoni, Carrón cerca di scoraggiare chi si batte in favore del ddl
Cirinnà cercando di fargli capire che quand’anche
ottenesse di vedersi riconosciuta dallo Stato l’unione
col proprio compagno – ma che dico, ammesso pure gli si consentisse
di sposarlo – non avrebbe certo trovato la serenità, come
d’altronde non è detto che un eterosessuale riesca necessariamente
a trovarla nel matrimonio.
È chiaro che la ricerca della serenità sia un lavoraccio che spetti a ciascun essere umano, omosessuale o eterosessuale che sia, ma non dovrebbe essere altrettanto chiaro che a
entrambi debbano essere date le stesse possibilità? Quando entrambi ritengono di poterla trovare nel riconoscimento da parte dello
Stato dell’unione con chi amano, negarla a uno e concederla
all’altro non pone qualche problemino?
Chissà quanto
intenzionalmente, a Carrón
sfugge il problemino: «Solo
Cristo, come avvenimento presente nella vita delle persone, è in
grado di liberare l’uomo dalla sua riduzione e di fargli desiderare
e sperimentare quella pienezza per cui è fatto. “Sarebbe
bello vivere il lavoro e i rapporti come li vivete tu e tua moglie”.
Senza una simile esperienza di liberazione, qualunque risposta
cosiddetta “concreta”
sarà sempre insufficiente. Ciascuno di noi ne ha prova diretta nella
sua vita».
Bene, ma questo basta a liquidare come superflua la richiesta di
parità di trattamento da parte dello Stato? In sostanza, sì, o
almeno così parrebbe, perché quale sarebbe il «contributo
che
ciascuno di noi cristiani è chiamato ad offrire al
dibattito in corso»?
Prima di copiarlo dal Corriere
della Sera
per incollarlo qui, via, cercate di indovinare quale possa essere, ’sto contributo.
Non riuscite a immaginarlo? Eccolo: «Noi
sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere
umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’Ecce homo
di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona,
salva».
Come so’
brutti ’sti
lupi che ululano nelle piazze per il riconoscimento di un diritto
che, quand’anche
fosse riconosciuto, sarebbe sempre insufficiente a dar loro l’agognata pienezza. Orsù, prendessero esempio dal Gesù flagellato e coronato di spine, che non
recrimina.
domenica 24 gennaio 2016
Niente di nuovo
Quanto
le cronache ci hanno fin qui rivelato degli ingegni e dei maneggi di
Tiziano Renzi e di Pier Luigi Boschi basta e avanza, ben oltre ogni
ulteriore ed eventuale istruttoria, per ridarceli come esemplari
carotaggi di quella provincia italiana che da sempre vanta come sua
massima virtù, non di rado con compiaciuta fierezza, quel familismo
di stampo clanico che va dall’arrangiarsi
al fottere alla grande, nell’instancabile
tessitura di reciproci favori in microsistemi di potere che spesso
non esorbitano dalla cinta di un paesello di poche migliaia d’anime,
ma che quasi sempre sono prima o poi costretti a tentare di allargare gli ambiti
in cui sono gemmati come forme degradate della gens, della casata,
della consorteria corporativa, per arrivare ad assumere quelle del
consorzio, del cartello, della loggia, della cosca, più spesso per
resistere agli attacchi della concorrenza, con ciò trovandone
ragione nell’istinto
di sopravvivenza, che per smaniosa insaziabilità.
Nell’incoazione
il fine sta tutto nell’agiatezza
economica e nella rispettabilità sociale, nell’assumere un ruolo
di rilievo nella comunità locale, nel coltivare le amicizie giuste, nell’appuntarsi al petto un titolo, nel saper essere alla bisogna cliens o patronus, con capillare
conoscenza del territorio, accorta scelta delle frequentazioni,
accorta costruzione del profilo pubblico, costante presenza nei
momenti che rinsaldano i vincoli sociali attorno a valori ampiamente
condivisi, meglio se incarnati con la disinvoltura che promuove
il cognome a quell’antonomasia che va a incastonarsi a meraviglia nell’aneddotica da tavolata.
Al maneggione di provincia non
basterebbe altro, ma con quanto ha messo in gioco di energie, con
quanto ne ha lucrato in quella particolare forma esperienza che sta
nel sapere come gira il mondo, è inevitabile che in seconda o al
massimo in terza generazione gli scappi la mutazione sul cromosoma
giusto e metta al mondo un figlio che trasfiguri l’arte di aprire e
chiudere scatole cinesi nei giochi di prestigio di una manovra di
stabilità o la concessione del mutuo in cambio di un trattamento di
favore su una compravendita nella sapiente gestione di una
maggioranza parlamentare.
Fanfani, La Pira, Gelli... Quante cazzate.
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi non hanno avuto altri maestri che i loro
babbi, che per tempo li
hanno costruiti nel modo che poi, per botta di culo, si sarebbe rivelato utile.
Quando babbo si becca sette condanne tra cause civili e del lavoro
per contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, lavoro
irregolare e roba simile, non hai bisogno di ispirarti alla Thatcher
per il tuo modello di flessibilità. Né hai l’angoscia della copertura finanziaria per il cadeaux elettorale, quando è babbo che ti ha fatto andare alla Ruota della Fortuna ed è a babbo che hai consegnato i soldi della vincita per diventare socio dell’azienda di famiglia: è così che il denaro nasce dal niente.
Quando
babbo fa slalom alla grande tra una turbativa d’asta
e un riciclaggio, a che ti serve la lezione del trasformismo dell’età giolittiana per trattare con Verdini e farti dare i voti che ti
mancano in Parlamento? Basta un leggero fondotinta che a tutti sembrerà acqua e sapone, e
via. Dai, ridillo: «Mio padre è una persona perbene», puoi metterci tutta l’innocenza di una Vergine da presepio vivente, tanto a certificarlo c’è tanto d’archiviazione del consulente del governo di cui sei membro.
No, niente di nuovo in questi fenomeni spacciati per prototipi
di una nuova razza: sono i figli di una
provincia che continua a produrre mascalzoni indorati di decoro,
furbastri che spacciano lo scilinguagnolo per dialettica, parvenu che
spendono la loro vita tra commercialisti e avvocati, la domenica a
messa e il lunedì a spremere occasioni dalla Gazzetta Ufficiale. La reputazione d’essere dei dritti come bussola e sestante, la raccolta dei proverbi
come orizzonte esistenziale, l’orologio di marca come feticcio.
venerdì 22 gennaio 2016
Corrispondenze
Ti
risulta, come a me pare, che l’accentuazione di Dio come amore,
fino a dire che l’essenza stessa di Dio è amore, sia una questione
relativamente recente. Voglio dire, so bene che una teologia
dell’amore è presente, almeno in nuce, già negli scritti
giovannei, e che tutta la faccenda dell’amor dei è uno dei cardini
della mistica cristiana e della teologia che ne deriva.
Però
mi pare che nei scoli scorsi si ponesse più l’accento su quelle
che potremmo chiamare le “qualità oggettive” di Dio: perfezione,
giustizia, onnipotenza, eternità e così via, e che si facesse
riferimento al suo essere summum bonum più che alla sua
amorevolezza. Insomma, la concezione metafisica era ben salda e la
centralità di Dio era affermata dall’ordine stesso dell’esistente.
Mi pare che di recente, a seguito del crollo dell’edificio
metafisico della creazione e alla sua sostituzione con una
spiegazione scientifica dell’universo, la Chiesa sia passata, nei
fatti anche se non nella dottrina ufficiale, a un generico deismo per
quanto riguarda la creazione (un Dio che dà il la al Big Bang, non
certo uno che presiede attivamente alla conservazione dell’essere),
per costruire un rapporto con il divino che si gioca tutto sulla
devozione e sul sentimento, non potendo più fondarsi su una
necessità ontologica.
Ora,
se la mia ricostruzione ha un senso (e ti prego di corroborarla o
smentirla), mi pare che ci si trovi di fronte a una bella strettoia:
se l’universo resta comunque una creazione divina, ne possiamo
ammirare senz’altro la perfezione (e mi pare che una certa
inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il
principio della finalità), ma che non trabocca certo di amore. La
natura si presta molto più a una descrizione hobbesiana che a una
narrazione dell’amore divino: un Dio la cui essenza sia l’amore
potrebbe, nella sua onnipotenza, aver creato qualcosa di diverso
dalla catena alimentare.
Insomma,
la mia è un’ipotesi, anzi, un abbozzo di ipotesi: porre l’accento
tutto sull’amore è un modo per tenere in piedi la devozione
uscendo dalle costrizioni della metafisica, ma è solo un modo per
mettere la polvere sotto il tappeto, visto che comunque l’edifico
metafisico, per quanto lo si nasconda, deve sempre reggere tutto. Se
pensi che la cosa abbia un senso, e se hai qualche riscontro, ti
prego di farmelo sapere.
Nane
Cantatore
Una
religione che postula l’ipostasi
di Dio è giocoforza sottoposta a un inesorabile processo di
immanentizzazione: non per attacco esterno, ma per erosione interna.
Quando poi pretende che Fede e Ragione debbano andare a braccetto, è
inevitabile che il dogma si metaforizzi e la dottrina si riduca a
precettistica: dal greco al latino, il Logos di Giovanni diventa
Verbum, e segue il destino della Parola, che nel tempo subisce
l’ineluttabile
trasformazione cui è soggetta per le sue declinazioni e
coniugazioni. Il fenomeno che tu descrivi, insomma, era già tutto
nel cristianesimo nel momento in cui incontrava l’ellenismo,
e la tua ipotesi è anche la mia, d’altra
parte mi pare di averla anche illustrata in molte occasioni. Due soli
rilievi rispetto a quanto mi scrivi: a) non mi pare che «una certa
inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il
principio della finalità»: direi che questo accada solo col
travisamento della teoria di Darwin, in special modo col suo
travisamento strumentale ad opera di chi sostiene la tesi del Disegno
intelligente; b) «la natura [che] si presta molto più a una
descrizione hobbesiana che a una narrazione dell’amore
divino» scioglie la sua contraddizione nella costruzione di una
cosmogonia in cui peccato originario e libero arbitrio danno
soluzione a ogni teodicea. Infine, e a cornice del tutto, il collasso
dei sistemi metafisici (non solo di quello cristiano), che sposta il
fuoco della dottrina morale dalla conquista della vita eterna alla
ricetta dell’anodino
quotidiano.
Ti abbraccio,
L.
Sul
punto b) non credo che la soluzione possa ricondursi al libero
arbitrio: la questione che vorrei proporre a un ipotetico apologeta
del Deus sive amor sarebbe proprio quella della sofferenza pura che
pervade il creato, anche al di fuori del libero arbitrio. Per
sviluppare la questione: il problema è che, se l’essenza
di Dio è amore, come diceva l’emerito
BXVI, se l’amore
non è attributo ma appunto essenza, allora la creazione, in quanto
manifestazione di questa essenza, dovrebbe essa stessa essere
amorevole, e a questo punto vorrei capire in che modo si spiega una
natura fatta di predatori, di violenza e di sofferenza: perché il
leone non giace con l’agnello,
se nessuno dei due ha libero arbitrio? La faccenda regge abbastanza
bene con la concezione classica, per esempio la quarta e la quinta
via di Tommaso (gradi di perfezione e finalità), ma regge proprio
perché qui si tratta di un’architettura
razionale e non di un atto di amore e basta, che dovrebbe produrre
semmai un mondo di minipony e cucciolotti, non certo di zanzare e
squali.
N.
Sbaglio
o stai chiedendomi di vestire i panni di un “apologeta
del Deus sive amor”?
Non ho alcuna difficoltà: il copione è di una semplicità estrema.
Il creato è pervaso dalla sofferenza come conseguenza del peccato
che l’uomo
ha liberamente scelto. Sì, mi dirai, ma il leone non giace con
l’agnello.
Qui, da copione, sorrido paternamente e ti invito a non considerare
l’uomo
e l’animale
sullo stesso piano, e ti rimando al Libro della Genesi. Tu,
ovviamente, ti incazzi un pochino e mi dici, sì, ma i bambini? Non
sono innocenti, i bambini? Rischiando un cazzotto in faccia, io ti
rispondo che il peccato originario si eredita al momento della
nascita, e che le sofferenze di quanti ti sembrano innocenti – qui
calco un po’
su “sembrano”
– sono parte essenziale di un progetto del quale non ci è dato
sapere il fine, ma sulla cui bontà comunque non è dato sollevare
dubbi, anzi, sarà proprio nel discioglimento
di questo mistero che vi sarà la ricompensa per chi avrà voluto
considerarlo divina provvidenza. E qui che cazzo potrai mai
rispondermi? Ogni idea di amore che porterai a obiezione non sarà
mai commensurabile a quella del sommo bene che è Dio. No, caro Nane,
non c’è verso: la fede è un labirinto di specchi, e dall’esterno
si capisce che non c’è
via d’uscita, mentre all’interno sei sempre in così buona
compagnia che della via d’uscita neanche sai che fartene.
L.
Concordo
in pieno sulla generale insensatezza della fede, ma ho qualche dubbio
che il copione ben noto, che tu hai così efficacemente recitato, sia
oggi non dico sostenibile (ché non lo è mai stato), ma praticabile.
Quello
che salta agli occhi è che tutta la fregnaccia del Deus sive amor
dovrebbe servire a trascendere in qualche maniera la classica
architettura metafisica in un mondo che ha una concezione
dell’universo
difficilmente sostenibile, anche rispetto al suo target, a partire
dal resoconto di Genesi, e che fatica un po’
a immaginare che miliardi di galassie esistano solo perché la
signora Pina capisca l’amore
divino e porti i nipotini al Family day.
Insomma,
tu mi riporti alla spiega classica del libero arbitrio, che è presa
pari pari anche dalla catechesi di sempre; a me sembra che la menata
dell’amore
come essenza di Dio renda ancora più difficile tutta la faccenda,
che dovrebbe invece semplificare.
N.
Sono
pienamente concorde, tranne nelle conclusioni: rende più difficile
la cosa a me e a te, ma la cosa non è stata costruita così com’è
per me e per te: serve a chi in passato aveva il dogma (tutto intero:
modo e topos) e oggi ne ha solo ciò che del contenuto non è
diventato del tutto inservibile alla mitopoietica di un Dio
immanentizzato, a una catechesi che ormai si è quasi del tutto
psicologizzata, a una dottrina indistinguibile da un vademecum, a una
teologia perennemente ondivaga tra mera glossa e licenza eretica.
Dell’inferno
si parla pochissimo, di Satana quasi soltanto per mantenere il punto,
e della Trinità quasi per niente. Mai tanto poco come in questi
ultimi decenni si è parlato del destino transmondano dell’anima,
la sua salvezza si è ridotta alla conquista della serenità, mentre
il timor di Dio s’è
esaurito nel senso di colpa. Vedi? Sono lamentele sovrapponibili a
quelle che i cattolici più oltranzisti scaricano nei loro
claustrofobici forum, e infatti il loro è l’unico
cattolicesimo che resiste. Ormai serve a ben poco decostruire
l’edificio:
è già decostruito.
L.
Sì,
certo, a prendere sul serio la Chiesa siamo rimasti solo noialtri
atei, e i conservatori più oltranzisti, nei cui confronti condivido
la tua simpatia. Ormai è chiaro che tutta la vecchia baracca è
un’accozzaglia
di sentimentalismo condito da una spiritualità che se fosse un po’
più accentuata sarebbe quasi new age, di consigli della nonna e di
abitudini e tic identitari, inglobato nella più grande ONG di
servizi sociali al mondo, che come ogni ONG si specializza
nell’opacità
dei bilanci e nella veemenza dell’azione
lobbystica. Da questo punto di vista il buon Bergoglio, che ogni
giorno somiglia di più a Giovanni Rana, è il testimonial perfetto.
Però,
visto che le ubbie teologiche sono un passatempo innocuo, un po’
come i cruciverba o la filatelia, mi diverto ancora a vedere come si
inventino toppe che peggiorano il buco: la vecchia teodicea riusciva
in qualche maniera a venire a capo del problema del male nella
creazione, o per lo meno a fare ammuina in modo passabile, ma tutta
questa faccenda dell’amore
come essenza mi pare che finisca per porre in modo inedito il
problema della forma
del
creato, che è evidentemente inconciliabile.
N.
Un tempo la baracca produceva rompicapo sfiziosi, ora ’sta manica di assistenti sociali del cazzo è capace solo di sofismi fessi. Ancora con Ratzinger riuscivi ad arrabbiarti, ora è noia senza fine. D’istinto, per riflesso condizionato, ti verrebbe di commentare ogni uscita di Bergoglio, ma, appena ci metti mano, ti senti più cretino di quanto lui si sforza di essere. Caro Nane, è finita un’epoca:
L.
[...]
Sul
caso che ha visto per protagonisti Sarri e Mancini pare vada
acquistando un certo peso l’opinione che Sarri abbia sbagliato, è
vero, ma che Mancini abbia sbagliato anche di più, perché quanto
accade su un campo di calcio è meglio che rimanga lì. Nessuno aveva sentito, Mancini avrebbe fatto meglio a non sollevare il polverone. Peraltro le sue lamentele hanno un tono che sembra eccessivamente vittimistico, insinuando il sospetto che almeno in parte siano strumentali. Se si volessero applicare al calcio le regole
del vivere civile – si argomenta – si ammazzerebbe la poesia del
gioco, si violerebbe il suo statuto di extraterritorialità rispetto
al mondo che sta oltre i tornelli, nel quale d’altronde
galateo
e codice penale faticano comunque nell’ottenere il rispetto che pretendono:
dovremmo star di continuo a biasimare il terzino che sputa
sull’erbetta la saliva resa densa dai suoi picchi di cortisolo e
adrenalina, e su ogni sputo che riceve in faccia dal centrocampista
che si è rotto il cazzo per il suo marcamento troppo stretto
dovremmo sollecitare l’apertura di un fascicolo in Procura per il
reato d’ingiuria, peraltro aggravato dall’essersi consumato in
presenza di più persone. Tra insulti, minacce, pestoni e gambe tese,
alla fine di ogni partita dovrebbero scendere in campo dozzine di
avvocati? Nello specifico, poi, Mancini non è gay, dunque avergli dato del
«frocio», peraltro nel vivace battibecco di prammatica a bordocampo, non ha gli
estremi dell’offesa
dalla valenza discriminatoria, tutt’al più stava per l’ellissi di «questo non è un gioco da signorine».
È
argomentazione che non mi convince e che ritengo addirittura
pericolosa nella sua implicita pretesa di dare legittimità
all’eccezionalità
di un contesto:
può darsi che io esageri – sono disposto a concederlo – ma il
fatto che quello del calcio sia diventato un mondo sempre più
ingovernabile, così spesso legibus solutus, non può trovare origine nell’aver
dato per scontato che dare del «cornuto»
all’arbitro
non implicasse diffamazione della di lui signora?
martedì 19 gennaio 2016
L’apocatastasi bergogliana
Cercherò
di renderla semplice e breve, perché, a trattarla come si dovrebbe,
la questione dell’apocatastasi
prenderebbe
pagine e pagine, mentre qui la evoco solo per la sua relazione con la
peraltro controversa faccenda dell’illimitatezza
della
misericordia divina, che troverebbe una insanabile aporia nel limite
impostole dal fatto che Dio sarebbe anche somma giustizia, con quanto
di inesorabile v’è
nella somministrazione della pena, soprattutto se eterna.
C’è
chi afferma, in realtà, che l’apocatastasi
sia da intendersi come il compiersi della definitiva sovranità di
Dio sulla totalità dell’Essere, nella quale, dunque, non avrebbe
senso rappresentare alcun genere di contraddizione o, ancor peggio,
di conflitto tra piena giustizia e infinita misericordia. Di fatto,
tuttavia, pare di piana evidenza che il Sommo Bene non possa
esercitare la sua piena sovranità sulla totalità dell’Essere
senza che il Male sia annullato nelle cause e negli effetti, e che in
sostanza non possa esservi apocatastasi laddove il peccato lasci
traccia di sé fosse pure nella sola espiazione della colpa. Tanto
basterebbe a quanto ci serve, ma nel
caso vogliate approfondire, vi suggerisco quanto ne ha scritto Vito
Mancuso ne L’anima
e il suo destino
(Raffaello Cortina, 2007) e quanto ne ha detto monsignor Manfred
Hauke in una lectio
che non faticherete a trovare su Youtube (Apocatastasi
della Chiesa antica),
meglio se dopo aver dato una scorsa al lemma su Wikipedia,
tutto sommato abbastanza precisa e con un discreto corredo
bibliografico a supporto.
A renderla semplice e breve, invece, qui
basterà dire che, se fosse mantenuta la promessa che alla fine dei
tempi vi sarà una restaurazione (αποκαταστασεως)
di tutti e tutto in Dio (At
3, 21), dovremmo aspettarci una redenzione universale che escluda
ogni possibilità di dannazione eterna: per quanto a lungo possano
durare, infatti, i sæcula
sæculorum
sono tempo di cui è certo si avrà una fine, oltre la quale, perché
la promessa sia mantenuta, anche il più grave peccato dovrà trovare
perdono, al punto che lo stesso
Satana si ravvederà e si convertirà, sicché l’inferno
che il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce come «separazione
eterna da Dio»
(1035) non
avrebbe senso se non nei sæcula
sæculorum che
danno la misura di una «eternità»
che è comunque un concetto temporale,
ma non dopo di essi, quando i tempi avranno avuto la loro fine.
Volendo, ve ne sarebbe abbastanza per dare una solida base teologica
all’infinita
misericordia divina che è il gonfalone di questo pontificato, e che
fa impazzire gli orfani di Ratzinger, nutriti per otto anni dalla
solida certezza che a ogni peccato debba necessariamente
corrispondere una pena, salvo il pentimento che ristabilisca la
perfetta coincidenza di Buono, Giusto e Vero: un misericordia
infinita rende superfluo il pentimento, con quanto ne consegue in
detrazione alla Verità, in sospensione della Giustizia e, ciò che è
peggio, in perdita di quella cogenza precettistica che sta nel Bene
come retta via da seguire per evitare punizioni. Che fine potranno
mai fare i comandamenti di un Dio che, dovendo reintegrare tutti
nella totalità dell’Essere
di cui sarà sovrano, sappiamo che perdonerà comunque ogni peccato?
Se non è vuoto, l’inferno
dura appena per l’eternità che precede l’apocatastasi? E chi
sarà dissuaso dal peccare, o persuaso al pentirsi dopo aver peccato,
sapendo che un Dio infinitamente misericordioso alla fine dei tempi
chiuderà un occhio?
Il problemino – perché un problemino c’è –
nasce dal fatto che l’apocatastasi è un’eresia ripetutamente
condannata nel corso della storia della Chiesa, ma nessuno riesce a
costruire per Bergoglio un capo d’accusa che la additi a substrato
della sua pastorale. Probabilmente neanche sanno cosa sia.
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