mercoledì 23 marzo 2016

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Fosse pure stato il nano che non era, le sue disposizioni testamentarie basterebbero a dargli statura di gigante: Umberto Eco lascia scritto che per almeno dieci anni vorrebbe non si tenesse incontro, convegno, giornata di studi sulla sua persona e sulle sue opere, sul suo pensiero e sulla sua vita. Sarà stata pure una furbata, ma è divina.   

È possibile tenere a freno le passioni?

Dinanzi a un atto terroristico è disumano non provare pena, dolore, paura e rabbia. D’altra parte sono proprio queste le emozioni che i terroristi intendono suscitare, perché le vittime dei loro attentati sono solo un mezzo, mentre il fine immediato è quello di influenzare le opinioni pubbliche, che a sua volta mira a condizionare le politiche governative, per pressione che dunque è indiretta, ma che invariabilmente si fa diretta, perché listanza di sicurezza non ha bisogno di essere rinnovata per essere assunta dallo stato come obbligo primario.
Come acutamente è stato scritto da chi a lungo ne ha studiato la logica che lo muove, gli strumenti di cui si serve, le modalità che gli sono proprie, «il terrorismo è teatro» (Salustiano Del Campo), tanto più efficace, quanto maggiore è l’onda emotiva che le sue azioni sollevano in platea. Fosse possibile restare indifferenti, freddi, insensibili allo spettacolo che mette in scena, il terrorismo non avrebbe ragione di esistere, ma ovviamente questa è ipotesi impensabile, perché presupporrebbe unimpassibilità alla sofferenza e alla morte dei propri simili che non sarebbe poi troppo diversa da quella di chi progetta e realizza atti terroristici.
Sta di fatto che è proprio linsopprimibile pathos che la rappresentazione scatena a procurare vantaggio a chi ne ha scritto il copione, a chi ne ha curato la regia, a chi se nè fatto interprete. Per questa ragione, il terrorismo dev’essere considerato il mero innesco di un ordigno che ha proprio nelle conseguenze del terrore, in ciò che di irrazionale inevitabilmente suscita negli animi che intende scuotere, la sua massa esplosiva: può indubbiamente infondere sgomento, accentuare pena, dolore, paura e rabbia, infliggere un angoscioso senso di impotenza, ma si deve prendere atto che solo gli spettatori possono decretare il successo dell’evento teatrale.
È possibile tenere a freno le passioni che suscita l’azione terroristica per depotenziarla, in vista del neutralizzarla? Cosa può temperare le passioni – senza estinguerle, sia chiaro – al punto da evitare che si mettano a servizio di chi strumentalmente le sollecita per servirsene? La ragione, probabilmente. Probabilmente, il miglior omaggio che possiamo riservare alle vittime di un atto terroristico è cercare di comprendere il meccanismo che le ha rese tali, per disattivarlo. Questo è difficilissimo, ma occorre provare.
Occorre, innanzitutto, sottrarre al terrorismo ogni aggettivo, ogni attributo che miri a conferirgli una dignità politica, culturale, religiosa. Che il terrorista se la attribuisca, la rivendichi, ne faccia la ragione della sua azione, o al contrario ne faccia pretesto o paravento per altri moventi, deve essere considerato irrilevante. D’altronde le modalità dell’atto terroristico sono costanti anche al variare delle ragioni che gli danno movente e dell’ideologia che le trasfigura in giustificazioni. Solo un errore di analisi può farci ritenere specifico un suo carattere, com’è nel caso del terrorista che non esita a sacrificarsi pur di portare a termine il compito che si è prefisso: è nel calcolo di ogni progetto terroristico che l’esecutore materiale debba accollarsi il rischio di morire portando a termine il suo compito, e che tale rischio sia accettato come prezzo certo costituisce solo un dato di carattere tecnico, che impone un’adeguata metodologia di approccio al problema, ma che non cambia i termini della questione posta in sé dall’atto terroristico.
Da questo punto di vista, occorre ponderarne esclusivamente il reale potenziale offensivo: che a compiere una strage sia stato un militante dell’Isis, un Anders Breivik o lo studente del college americano, il problema è posto dagli strumenti di cui ha potuto farsi forte, dall’effettiva capacità di dare ad essi il voluto effetto letale, non già da quanto egli dichiara averlo motivato. Con ciò non voglio dire che un profilo criminale manchi di caratteri specifici che lo distinguono da un altro, fatto sta che questi andrebbero esclusivamente considerati elementi utili ad approntare soluzioni di natura tecnica, non già a investire il terrorista del ruolo di officiante di un credo.
In secondo luogo, occorre trattare il terrorismo al pari di una qualsiasi altra causa di morte violenta per mettere in evidenza l’enorme sproporzione tra il numero delle vittime che causa e l’impatto emotivo che genera. Questo non mira a banalizzare il problema che solleva, tanto meno a ricondurlo a evento fatale pari a quello delle morti per incidente stradale o rottura di aneurisma cerebrale, ma a sottrargli ogni aura che lo inscriva nelle suggestioni dei miti che aspira a incarnare.
Di pari passo, occorre decostruire la figura del terrorista, che anche quando è avvertita come persona spregevole, tende a conservare, almeno sul piano dell’immaginario meno avvertito, l’ombra del cieco esecutore di un Male tutto trascendente oppure, il che è ancora più insidioso, lo spettrale profilo del Barbaro. Occorre ridurre il terrorista a psicopatico, dichiararlo intrattabile.
La tendenza ad assecondare le passioni dinanzi all’atto terroristico, invece, gli conferisce un nefasto potenziale allegorico, mostrificando il terrorista come agente di un’entità sovrumana, aggravando il senso di insicurezza che il crimine intende infondere.


[segue]  

martedì 22 marzo 2016

Madonna, che spasso!

Partiamo dalla coda: la sentenza è di gennaio, ma se ne ha notizia solo ora. A darle rilievo mediatico prima, qualcuno avrebbe potuto ricorrere in appello. Ora i termini sono scaduti, la sentenza è inappellabile, chi avrebbe potuto metterla in discussione non può farlo più. Già, ma chi avrebbe potuto, e a che titolo?
La sentenza ha concesso a un uomo ladozione di un bambino di cui il suo convivente, cui è sentimentalmente legato fin dalladolescenza, è padre biologico. Bambino nato in Canada, grazie alla pratica della gravidanza surrogata. La madre biologica si è prestata volontariamente a dare ai due uomini la possibilità di allevare un figlio donando ad un essi un ovulo, e così la donna che ha consentito a farsi impiantare in utero quellovulo dopo che questo è stato fecondato dal seme di uno dei due, in più tutto questo è da tempo legalmente consentito in Canada, come è legalmente consentito in Italia che un uomo o una donna possano adottare un bambino che sia figlio del proprio convivente: chi avrebbe avuto titolo ad appellarsi?
A ritroso: il Parlamento italiano ha partorito una leggina sulle unioni civili che solo in considerazione del suo bassissimo livello culturale può essere considerata una rivoluzione. Dopo estenuanti e risibili polemiche, si è arrivata a partorirla stralciandole il capitolo relativo alla stepchild adoption, rimandandone la discussione a uno dei prossimi 31 febbraio, lasciando che a decidere sui casi vivi, rimessi al giudizio dei tribunali, fosse la legislazione vigente in materia, che non ha bisogno di alcuna interpretazione creativa per consentire ladozione, proprio come è accaduto nel caso di questa sentenza. Come si può gridare allo scandalo per una magistratura che scavalcherebbe il dettato del legislatore? Non è forse sulla base di una legge che già esiste al riguardo che è stata scritta questa sentenza? E chi lha scritta, questa legge?
Ancora un passo indietro: la legge che in questo caso ha consentito al giudice di dichiarare ammissibile l’adozione è più o meno costituzionale di quella ancora da scrivere e che invece non l’avrebbe consentita? Per meglio dire: sarebbe costituzionalmente valida una legge che vietasse l’adozione a un individuo adottando un criterio discriminatorio legato al sesso, ma solo in relazione al sesso del suo convivente, sicché ne risultasse che l’adozione sia possibile solo a chi non sia omosessuale? No, eh? E allora di che si ciancia? Una legge del genere starebbe in piedi solo qualche anno, solo il necessario per infliggere qualche dispettuccio omofobo a una o due dozzine di famiglie omogenitoriali, poi farebbe la fine della legge 40.
Ancora un passo indietro: si è deciso di stralciare la stepchild adoption dal ddl Cirinnà perché altrimenti si sarebbe dato il via alla corsa di uteri da affittare all’estero, si è addirittura vaneggiato di poter dichiarare illegale la pratica della gravidanza surrogata su tutto l’orbe terracqueo. Deliri di cui si può essere capaci solo quando al posto del cervello si ha una cacca di prete stitico. Come intervieni nella giurisdizione di un altro paese? No – dice – che hai capito? Si punisce il cittadino italiano che all’estero abbia commesso il misfatto. Ok, ma allora è almeno un pochino improprio parlare di messa al bando universale. E poi come si fa a provare che vi sia stato misfatto? Chi autorizza il magistrato italiano a sottoporre al test del Dna la donna che ha partorito per constatare che non corrisponde a quello del neonato e così aver prova certa che l’ovulo non fosse suo? Come potrà essere smentita la puerpera che dichiari di essersi carnalmente congiunta col padre biologico del bambino, ma che dopo averlo partorito le sia venuto lo sghiribizzo di non riconoscerlo?
Ancora un passo indietro? Sia. All’omofobo medio italiano brucia il culo in modo impressionante all’idea che una famiglia possa non essere come quella che sta nel suo iperuranio, e pur di non essere costretto a vederne una seduta al tavolino che al bar sta accanto al suo non sa a cosa aggrapparsi: a Dio, alla Natura, alla Costituzione, ma niente gli offre presa valida. Soffre, poveraccio. Cogita ritorsioni. Veste di autorità i suoi spaventapasseri. Si consuma in biliosi sarcasmi sul frocio al quale manca l’utero, e con la stessa cattiveria con la quale all’asilo dava del quattrocchi a quello che portava gli occhiali. Soffre, poveraccio. Madonna, che spasso vederlo soffrire!

lunedì 21 marzo 2016

«Relazione»


Un termine può essere usato in modo più o meno improprio, e questo può accadere in modo più o meno intenzionale, ma con ciò non perde quei caratteri che lo rendono comunque distinguibile dai suoi sinonimi, dandogli lo specifico che lo fa insostituibile nel contesto in cui è chiamato a esprimerlo. Io ho un modo tutto personale, e certamente tutto empirico,  so bene, per tentare di cavar fuori da una parola questo specifico che rende improprio, seppur impercettibilmente improprio, il sostituirla con un sinonimo: su un foglio, in alto, da sinistra a destra, trascrivo tutti i sinonimi che ne riportano i dizionari di riconosciuta autorevolezza (a volte cinque, a volte sei); poi incolonno sotto ciascuno i rispettivi sinonimi riportati dalle stesse fonti; quindi procedo a cassare con un tratto di penna tutti i termini che ricorrono immancabilmente in tutte le colonne; restano così quei termini che della parola presa in oggetto mi danno lo specifico in ciò che essi le negano, conferendole per lo più un senso figurato che ne distorce il significante, assegnandole un significato che riformula il suo etimo in una lettura che talvolta arriva ad essere grottesca.
Troppo complicato? Semplifico con un esempio, prendendo il foglio che ho compilato nel modo sopra descritto per cercare lo specifico di «relazione», che viene da «relatus», participio passato di «referre», che letteralmente significa «riportare», il che dà ragione di come anche «rapporto», come «relazione», rimandi a «connessione», «collegamento», «nesso», ma pure a «resoconto», «comunicato», «esposizione», trovando poi in «corrispondenza» la coincidenza tra ciò che rende reciproco il «relatus» che è in una «relazione» e ciò che connette due individui nellatto col quale uno dei due usa «referre» qualcosa allaltro.
In quale colonna il termine «relazione» trova la maggior perdita di specifico? In quella che sallunga sotto il suo sinonimo «legame», dove «connessione», «collegamento», «nesso», «rapporto» sono espressione del suo figurato, mentre per quello letterale troviamo «laccio», «cinghia», «corda», «filo», «cappio», che trasformano la «relazione», anche laddove non sia perso quanto di reciproco «riporta» l’uno all’altro, in un «vincolo» che include «obbligo» ed «impedimento». Direi che nel «legame» vada persa la libertà che muove alla «relazione» e, soprattutto, la libertà che muove a romperla: la rete di «relazioni» nel quale luomo si trova ad essere «sociale» smette di essere, laddove sia mai stata, prodotto del suo libero «corrispondere» (del suo responsabile «rapportarsi») per diventare il soffocante sviluppo di «corde» e «lacci» che «legano» ciascuno a tutti. «Noi siamo esseri sociali e relazionali», allora, dà a «società» e a «relazione» significati che conferiscono alla frase il senso di un richiamo che somiglia allo strattone che si dà al guinzaglio quando il cane prova a deviare dal cammino deciso dal suo padrone.
Non avevo intenzione di tirarla così a lungo. Mi ero riproposto di premettere solo sei o sette righe a commento dellintervista concessa dal cardinale Angelo Bagnasco ad Andrea Tornielli per La Stampa di domenica 20 marzo (pag. 9), ma tutto sommato va bene anche così: posso risparmiarmi di scendere nel dettaglio di ciò che Sua Eminenza afferma riguardo alleutanasia, limitandomi a segnalare che quanto gli fa dire che non si abbia pieno diritto sulla propria vita discende da unaccezione del «relazionale» assai più vicina alla «corda» che alla «corrispondenza». Niente di nuovo, dunque, se non la riproposta delluso improprio – intenzionalmente improprio, non cè alcun dubbio – di «relazione».
A parte, quasi a dare un tocco buffo al mostro organicista, la risposta a «che cos’è l’“accanimento terapeutico”», cui la Chiesa si dichiara «non favorevole: «Quando medicine e farmaci sono ormai “rigettati” dal corpo, si sospendono le cure che risulterebbero un accanimento». E quandè che un corpo li “rigetta”? Mai, quando è incosciente. Può farlo, come e quando crede, quando è libero e responsabile, oltre che cosciente. Sta di fatto che per “rigettarli” deve poter disporre di unautonomia che si traduce inevitabilmente sul controllo di una vita, la propria vita, che l’«essere sociale e relazionale», al modo in cui lo intende Sua Eminenza, gli nega. Daltro canto, a un cadavere è davvero complicato far scendere una flebo: diremmo la “rigetti”. Però è proprio quando è cadavere che un uomo si trova nella perfetta condizione di non poter disporre (più) della propria vita, come dovrebbe accettare anche da vivo. Peccato.

Sarebbe bastato pure un «m’è apparsa la Madonna»


Posseggo solo una trentina dei 163 volumetti della collana Cultura dell’anima che la casa editrice Rocco Carabba di Lanciano pubblicò a partire dal 1909 affidandone la cura a Giovanni Papini, ma fra quelli non mi manca Polemiche religiose, di cui qui sopra è riprodotta la chiusa della prefazione, che attacca in questo modo: «Non sembrerà, spero, atto buffo d’orgoglio pubblicare un volume mio in una collezione da me diretta. Dopo nove anni che scelgo le opere altrui mi sono accorto di avere scritto anch’io qualcosa che può entrare senza difficoltà nella Cultura dell’anima».
È da un articolo apparso ieri sul domenicale de Il Sole-24 Ore (Cesare De Michelis, Il canone mobile di Papini – pag. 28), nel quale si dà notizia della ristampa della collana, che apprendo quel che ignoravo: a rompere il sodalizio tra Carabba e Papini fu la ristampa di Polemiche religiose che il primo volle contro la volontà del secondo, che intanto si era convertito al cattolicesimo. Un vero e proprio atto di ripulsa (ripudio, in questo caso, mi pare suoni debole) per ciò che aveva scritto appena qualche anno prima.
Avrebbe potuto consentire la ristampa approfittandone per spiegare in una nuova prefazione le ragioni della sua conversione, cosa che peraltro fino ad allora non aveva mai fatto, né fece dopo, se non per vaghi accenni: quale migliore occasione per dar ragione del nuovo Papini rispetto al vecchio? «Ho cambiato idea – avrebbe potuto dire – su ciò di cui scrivevo nelle pagine che qui consegno alla ristampa, e per i seguenti motivi...»: sarebbe bastato pure un «m’è apparsa la Madonna», si sarebbe ritagliato silhouette più decorosa.
Non scelse a questo modo, sicché per sempre rimarrà mistero in quale categoria di cattolici avrebbe preferito esser sistemato. Ne elencava sette (pagg. 107-112): pinzocheri, per modo di dire, machiavellici, affaristi, modernisti, misticizzanti, belve. Premettendo che «cattolici puri e perfetti» non esistono («Esistono i cattolici? Dicon di sì. Io dico no»). 

domenica 20 marzo 2016

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Dopo un colpo al cerchio, uno alla botte: dopo aver deliziato i lettori di Avvenire spalancando ai loro avidi occhi tutta la sua perplessità riguardo la stepchild adoption, ecco una scosciata in minigonna che pareggia il conto sull’opposto fronte. Veramente brava, la Virginia. 

Conformismo è ancor dir poco / 1

Lapplauso che nel talk show arriva in coda a ogni intervento, senza eccezioni, può avere molte spiegazioni, che però dipendono dalla composizione del pubblico presente. Nel caso in cui a ogni partecipante sia consentito di portarsi appresso una claque, la spiegazione non solleva problema. Né lo solleva il caso in cui la claque sia in dotazione al talk show, con la consegna di applaudire a tutto, in modo equanime. Anche escludendo queste evenienze, tuttavia, non è strano che in un talk show ogni intervento sia seguito da un applauso, perché è nella natura di un uditorio dividersi in sostenitori di unopinione e di quella opposta. Il problema, invece, è posto da quei casi in cui si può essere ragionevolmente certi che il pubblico non sia assoldato: comè possibile che quel tizio in terza fila applauda al politico che predica la caritatevole accoglienza dei migranti e appena tre minuti dopo a quello che propone di affondare il gommone che ne è stracarico?
La domanda sorge nel corso di una ricerca che mi ha tenuto per parecchie ore su Youtube a guardare spezzoni di tv, dalle antidiluviane edizioni del Maurizio Costanzo Show alle ultime puntate di Ballarò, ma non ho intenzione di parlare di talk show, né di migranti, né di quello che era oggetto della ricerca, che troverà spazio in altra occasione: qui mi interessa il tizio in terza fila, cui voglio concedere di essere in buona fede, ora pienamente convinto dalle ragioni che sostengono una tesi, poi altrettanto convinto delle ragioni che ne sostengono una opposta, poi ancora in favore della prima tesi, e poi dellaltra, dando limpressione di cambiare idea di continuo. È evidente non ne avesse alcuna prima, è probabile non se ne sia fatta una dopo, ma indubbiamente le due opposte tesi l’hanno entrambe persuaso, sia pure per il breve lasso di tempo in cui ciascuna veniva argomentata.
Quello che mi interessa, insomma, è quella piena adesione a una tesi – voglio dare per scontato che un applauso ne sia il segno – che si ha esclusivamente nel ristretto spazio datole per essere argomentata: mi interessa quel settore dell’opinione pubblica che è permanentemente ondivago tra ben distinti e perfino opposti richiami (se-duzioni, etimologicamente intese). È evidente che il consenso stabilizzato in fidelizzazione costituisca solo il fondo del letto in cui scorre il fiume di questa massa.

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sabato 19 marzo 2016

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Non sempre un buon argomento è comunque spendibile, non sempre due argomenti sono meglio di uno. Si prenda il caso dellinvito allastensione che il Pd di Matteo Renzi sembra aver scelto come posizione ufficiale sul referendum del 17 aprile.
Per la validità dellesito referendario la Costituzione prevede un quorum, dunque ogni iniziativa tesa a evitare che questo sia raggiunto è pienamente legittima, sostanzialmente equiparabile a quella del sostegno al «no»: ottimo argomento, ma poco spendibile da un partito che si dice «democratico», e che dunque nel voto dovrebbe vedere il più alto momento di partecipazione popolare alla vita pubblica e alle decisioni di interesse nazionale, perché lastensione rende indistinguibile il rigetto della proposta referendaria dal mero disinteresse per il problema posto dal quesito, che per un partito che si dice pure «di sinistra» darebbe somma inammissibile di due categorie, quella dei «partigiani» e quella degli «indifferenti», politicamente e moralmente irriducibili.
Secondo argomento in favore dellastensione prodotto dal Pd di Matteo Renzi, anzi, da Matteo Renzi in persona: sarebbe un modo per dichiarare insofferenza allo spreco del denaro pubblico necessario per tenere la consultazione referendaria. Argomento spendibile dopo aver scorporato il referendum da un possibile election day con le amministrative di giugno? Si è detto che lo scorporo aveva come scopo quello di evitare che le Comunali avessero un effetto di trascinamento sul voto referendario, che era più giusto chiamasse alle urne solo chi davvero interessato alla questione che solleva. Bene, ma questo come si concilia con linvito allastensione?

giovedì 17 marzo 2016

Geniale

Ma è vero quel che si dice? Possibile che chi sostiene Giorgia Meloni nella sua corsa al Campidoglio ha pensato bene di intestarle il titolo di Mamma Roma? Pensando all’omonimo film di Pier Paolo Pasolini? Quello in cui Anna Magnani interpreta una puttana cui alla fine della storia muore il figlio? Geniale.

Leggo, rileggo, rileggo ancora, e ancora, ma poi ancora no

Avrei voluto prendere in considerazione uno per uno gli argomenti che Claudio Magris espone in Non è giusto trasformare ogni desiderio in diritto (Corriere della Sera, 16.3.2016), se non fosse che alla seconda rilettura di ciò che scrive mi rendo conto di non riuscire a capire contro cosa stia argomentando. Contro il matrimonio gay, contro le unioni civili tra persone dello stesso sesso o addirittura contro la convivenza di una coppia omosessuale? Contro la gravidanza surrogata, contro la stepchild adoption o contro la sola evenienza che un bambino possa essere allevato da una coppia di persone dello stesso sesso? Colpa mia, naturalmente, e allora rileggo ancora.
Primo: condanna della «trasformazione delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto titillamento pulsionale», e qui il concetto di «desiderio» diventa enormemente estensivo, perché a fronte delle «autentiche e umane visioni del mondo», intese come concluso orizzonte antropologico, diventa un «indistinto titillamento pulsionale» tutto ciò che Claudio Magris ritiene poco «autentico» o non del tutto «umano», peraltro senza stilarcene la lista. Per esempio: ho una grave insufficienza mitralica; vorrei vivere altri ventanni; il cardiologo mi propone un intervento chirurgico per sostituire la valvola difettosa con una di maiale o con una protesi in caucciù e fibra di carbonio, robe che di «autentico» e di «umano» manco a parlarne; che faccio, mi titillo o ci rinuncio?
Secondo: condanna di quel «relativismo nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a merce di scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di vita e di pensiero», che costringe inevitabilmente a chiederci cosa debba intendersi per «scambio» e per «unità forte di vita e di pensiero». Amare solo se si è ricambiati configura una dimensione merceologica? E in cosa va indebolirsi l«unità di vita e di pensiero» con ladattarsi dei sentimenti e dei valori alle mutate relazioni tra soggetti di cui la storia non smette mai di rimodellare profili e ruoli? Perché Claudio Magris ci lascia sospesi nel vago e invece non ci indica dovè che la storia dovrebbe fermarsi, sazia di aver raggiunto il top di ciò che è «autentico» e di ciò che è «umano»?
Terzo: «La famiglia tradizionale può essere e molte volte è stata anche violenta, soffocante e nemica del libero sviluppo della persona», certo, ma questo ci consente di considerarne illegale il modello? «È ovvio che persone capaci di intelligente e attento amore possano far crescere un bambino meglio di genitori carnali incoscienti e snaturati o anche solo ottusamente incapaci di intelligente amore», certo, ma questo è possibile se i genitori sono dello stesso sesso? «Ho conosciuto e conosco omosessuali bravi genitori del loro figlio», perfetto, e allora perché vuoi negar loro il pieno riconoscimento che sono famiglia? Perché non sarebbe giusto trasformare il loro desiderio in famiglia? Perché «il protagonista – dice Claudio Magris – non è il desiderio della coppia né omo né eterosessuale, bensì il bambino, che comunque nasce da un uomo e da una donna e la cui maturazione è verosimilmente arricchita dalla crescita non necessariamente con i genitori naturali ma con un uomo e una donna, espressione per eccellenza di quella diversità (culturale, nazionale, sessuale, etnica, religiosa e così via) che è di per sé più creativa e formativa di ogni identità a senso unico». E da quali studi si evincerebbe questa norma aurea? Primancora: la maturazione di un bambino sarebbe necessariamente più arricchita quando la mamma sia esquimese e il babbo filippino? Quando il babbo sia musulmano e la mamma scintoista? Ce nè abbastanza per vietare di allevare figli a genitori che abbiano la stessa nazionalità o che appartengano alla stessa confessione religiosa: sul piano nazionale e su quello religioso la coppia non rispetterebbe quei requisiti di diversità che sul piano sessuale ci dovrebbero consentire di vietarlo a una coppia omosessuale.
No, senza dubbio devessermi sfuggito qualcosa nellarticolo di Claudio Magris per darmi l’impressione che abbia scacazzato un mucchio di stronzate, e questo non può essere. Sì, ma chi mi dà la forza di leggere l’articolo per la quarta volta? No, rinuncio a scrivere il post che avrei voluto scrivere. 

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mercoledì 16 marzo 2016

Bertolaso e il Toxoplasma

Google non mi ha dato alcun riscontro in merito, ma non ho dubbi che Guido Bertolaso abbia davvero detto quanto gli attribuisce Daniela Ranieri, e cioè che abbia spiegato linvito rivolto a Giorgia Meloni («deve fare la mamma», sottinteso: non deve candidarsi a sindaco di Roma) mosso da benevolente istinto di protezione, «in quanto medico e maschio, dunque in pieno diritto di dire a una donna cosa fare affinché la gestazione proceda e il lattante non contragga la toxoplasmosi a contatto coi sorci capitolini» (La protezione mammaria dei due B. – Il Fatto Quotidiano, 16.3.2016): do per scontato che si sia espresso proprio in questo modo perché, a naso, Daniela Ranieri mi dà limpressione di una assai precisina.
E qui, allora, sorge il problema. Perché è vero che il Toxoplasma può trovarsi in molti animali, gatti e cani soprattutto, ma perfino rettili e molluschi, e topi pure, ma di regola il passaggio delle sue ovocisti alluomo avviene per ingestione di tessuti animali che siano stati infettati dal parassita (carne suina e ovina, per lo più) o di vegetali (verdure e ortaggi, solo raramente frutta) sporchi delle feci di animali che ne siano portatori.
Ora viene spontaneo chiedersi: il problema dei «sorci capitolini» può essere risolto solo con la partecipazione attiva del sindaco di Roma alle operazioni di disinfestazione? Ammesso e non concesso così sia, e in sovrappiù che tutti i «sorci capitolini» siano portatori di Toxoplasma, è statisticamente più alto il rischio di contrarre linfezione da sindaco o da gravida alla quale possa capitare a tavola la fettina di prosciutto o il piatto di insalata sbagliati? Se il sindaco non ha lo sghiribizzo di festeggiare ogni mille topi uccisi con le proprie mani arrostendone uno per mangiarselo, per giunta senza averlo cotto bene, perché lo gradisce al sangue, il rischio è senza dubbio più alto per la gravida. Se la gravida, poi, esibisce un Toxotest che documenti la sua avvenuta immunizzazione per aver già contratto linfezione in passato, il problema cade?
Più di tutto, cosè che ci costringe a domande così balzane? Semplice: il link che Guido Bertolaso ha creduto fosse estremamente forte tra la gravidanza di Giorgia Meloni e l’emergenza dell’infestazione murina che di recente si è aggiunta alle croniche emergenze della Capitale. Link estremamente forte sul piano della suggestione, quanto estremamente debole su quello dellepidemiologia. 

martedì 15 marzo 2016

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Fra i tanti guasti che il cristianesimo ha arrecato alla nostra salute cè quellinfliggerci da soli una pena pari a quella che merita un assassino per il solo aver desiderato la morte altrui, che pure gli studenti al primo anno di Psicologia sanno essere cosa innocente, del tutto fisiologica, e poi di grande compagnia. Malfamato dappertutto, condannato in mille modi, crudelmente perseguitato, perciò costretto a nascondersi, travestirsi, rinnegarsi, fino a ingaglioffirsi e farsi vile, l’odio è così diventato un sentimento irriconoscibile, perfino un po’ ridicolo a dispetto della sua lirica grandezza, corrotta in egual modo quando va ad estinguersi in violenza, dove trova la caduta per calo di tensione, o in perdono, dove si consuma tutta per sublimazione. Non sappiamo più odiare in modo nobile, ecco. Non sappiamo star seduti in riva al fiume concentrando cuore e mente in quella delicata e laboriosa pazienza che può impegnare anni e anni per darci quel che desideriamo: o smaniamo, e finiamo per scivolare in acqua, per lo più affogando, o ci stanchiamo, e leviamo le tende, e per andare dove, poi? A costruirci un mondo parallelo dove chi odiamo non ne turba l’armonia. Questo è brutto, molto brutto. Anche per questo, maledetto il cristianesimo.

[11.6.1984]

[...]

Ogni tanto torna il refrain di Luigi Petroselli miglior sindaco di Roma di ogni tempo (variante: insieme a Ernesto Nathan). Tenuto conto degli altri, può esser vero, ma giacché a Roma lo sfascio è ormai sistema, e ha radici nello sperpero di risorse pubbliche per nutrire clientele dogni risma, torni utile la testimonianza di Franco Ferrarotti, che allofferta di un assessorato fattagli da Luigi Petroselli pose «come condizione la rescissione dei contratti che legano il Comune di Roma a duemila piccole ditte che fanno buchi e poi li riempiono, e non si capisce cosa fanno», riavendone in risposta un «ah, no, non possiamo, quella è la nostra base elettorale». Placcare doro il passato è inevitabile, ma poi basta ununghiata.

lunedì 14 marzo 2016

La signora ne ha bisogno

Un mio amico ritiene che l’articolo sia delirante, dice sia un esempio di quella pornografia informativa che dell’attacco alla privacy altrui fa lo strumento per lucrare attenzione. Parlo l’articolo che apre il numero de la Lettura da ieri in edicola, quello nel quale Marco Santagata raccoglie indizi sparsi nei romanzi della scrittrice che si cela dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante per arrivare a formulare un’ipotesi sulla sua reale identità. Io non condivido: l’ho trovato interessante, ben costruito, ben scritto, ma soprattutto penso sia decisamente fuori luogo apparentarlo, come fa il mio amico, ai blitz di Striscialanotizia.
Decisamente fuori luogo anche il paragone col fotoreporter che viola la privacy di Salinger fotografandolo mentre fa la spesa al supermercato: esagerazione per esagerazione, sarebbe più corretto dire che l’articolo è un saggio di filologia che prova a dare attribuzione certa all’opera di un anonimo. Esagero, ripeto, ma è che ritengo pienamente legittimo che si indaghi sulla reale identità di chi pubblichi i suoi libri usando uno pseudonimo: direi che faccia parte del gioco cui è l’autore stesso ad aver dato il via.
Altra cosa che molestare chi pubblichi col proprio nome, ma intenda lasciare tutto il resto nel privato: qui è corretto denunciare l’intrusione, non nel caso di chi proprio sull’anonimato conta - può sembrare un paradosso, ma in tutta evidenza non lo è nel caso di Elena Ferrante - per dar enfasi alla qualità del prodotto, avvolgendolo nella fascinosa nube del mistero.
Qui però sarà il caso che confessi che a me i romanzi di Elena Ferrante fanno cagare, e che l’unico interesse che in me sollevano - peraltro assai blando - è proprio quello relativo alla reale identità di chi si nasconde dietro lo pseudonimo, sicché mi azzardo a dire che ho trovato più interessante l’articolo di Marco Santagata che le ultime pagine de L’amore molesto.
Non sono in grado di stabilire quanto il suo gioco al rimpiattino contribuisca ad esaltare il piacere della lettura in chi trova belli suoi mattoni, ma ritengo naturale che neanche lei abbia interesse a scoprirlo. Smettiamola dunque di immaginarcela importunata da insopportabili ficcanaso: la signora ne ha bisogno.

sabato 12 marzo 2016

Zompapérete

Contrariamente a quel sembra suggerire limmagine evocata dal termine, zompapérete (più frequentemente usato al femminile: zompapéreta) è solo in senso figurato chi procede sobbalzando (zompando) sulle proprie scoregge (pérete), perché invece è il risultato della crasi di onna (donna, qui inteso al pari del don preposto a un nome proprio maschile, come attributo di persona autorevole o rappresentativa, secondo il largo uso che ancora residua in gran parte dellItalia meridionale) e di Péreta (con attribuzione al termine dellantonomastico per la donnetta sciocca e supponente, incarnata dal personaggio che la tombola napoletana allega al numero 43 con limmagine di Onna Péreta for o balcone, la popolana che dispensa le sue presunte perle di saggezza al vicinato e a chiunque le passi sotto casa).
Appena qualche settimana fa, su queste pagine, abbiamo dedicato un fuggevole commento a un tizio che dal suo balcone sentenziava che «i fautori delle nozze gay e delle unioni civili sono animati dagli stessi principi cardine che avevano spinto all’azione più o meno sanguinaria i loro precursori [i giacobini] che al posto della bandiera arcobaleno sfoggiavano la coccarda tricolore» (Il Foglio, 28.1.2016). Pensavamo si trattasse di zompapérete occasionale, ma già due giorni dopo, quando labbiamo sentito dire che Lévi-Strauss ci avesse lasciato una «formidabile arringa in favore della “famiglia naturale”» (Il Foglio, 30.1.2016), a dispetto dellesatto contrario come siamo stati costretti a documentare, abbiamo avuto il sospetto che si trattasse di zompapérete professionale. Oggi, la conferma.
Recensendo un «pamphlet» (in realtà un sermone) di Jonathan Swift che le Edizioni Dehoniane hanno da poco mandato in libreria, Antonio Gurrado dice che il libriccino sarebbe il non plus ultra per «per smontare chi fa sarcasmo su chiesa e cristianesimo» (Il Foglio, 11.3.2016). Inutile correre a comprarlo, in lingua originale è online già da diversi anni: si tratta di On sleeping in church, lo trovate su gutenberg.org, che ospita lopera omnia di Swift (Vol. IV).
«Finalmente un pamphlet – scrive Gurrado – in cui vengono sbertucciati coloro che “con grande impegno e molto sarcasmo si fanno una scorta di battute umoristiche” per esercitare il disprezzo della fede e proclamare la propria superiorità cerebrale a un mondo che altrimenti li ignorerebbe; finalmente lo smascheramento di individui che “parlano in modo scortese e irriverente” per celare di essere “così ottusi da non darci altro che noiose ripetizioni e meschini, volgari luoghi comuni, così triti, così logori, così banali”. Di costoro viene denunciata “la rozza, evidente, inescusabile ignoranza degli stessi principii fondamentali della religione”, curiosa a trovarsi “in persone che attribuiscono tanto valore alla propria cultura” ma che in realtà “imparano meccanicamente una serie di buffonate che possono essere usate in tutte le occasioni”, “hanno un assortimento fisso di sarcasmi e riescono a essere estremamente spiritosi servendosi sempre degli stessi pretesti” per colpire il cristianesimo. Questi sarcastici che si ritengono eccezionali e illuminati dovrebbero apprendere che “chiunque è capace di immaginare un berretto da buffone sulla testa dell’uomo più saggio, per poi ridere della propria stessa trovata”.
In realtà, non è chiaro quali sarebbero gli argomenti coi quali Swift annichilirebbe la «sbruffoneria degli atei», anche perché afferma che, «of all misbehaviour, none is comparable to that of those who come here to sleep», a conferma del fatto che anche per lui, come per ogni pastore, il più temibile nemico della fede non è lateismo militante, ma lindifferenza che già ai suoi tempi serpeggiava nel gregge.
A parte occorrerebbe dire che un capolavoro come Gulliver’s travels e un gioiellino come A modest proposal sono di qualità molto al di sopra della media del corpo swiftiano, che per gran parte è grigio ciarpame nel quale non si trova molta traccia della straordinaria forza letteraria che la critica ha giustamente riconosciuto in quelle due opere dalla cifra estremamente originale, dalla scrittura eccezionalmente brillante, dalla vena sapidissima e arguta, dalla mirabile misura di paradosso e iperbole che ne è il tratto distintivo. Diremmo che di swiftiano Swift ha scritto solo Gulliver’s travels e A modest proposal, e che On sleeping in church può sembrare swiftiano solo a chi sappia che l’ha scritto Swift.
In definitiva, sembrerebbe che anche con Swift, come già con Lévi-Strauss, Gurrado abbia il vizietto di attribuire ad un autore quanto presume di poter leggere in quello che in questo caso definisce «livello esoterico», e che in realtà sarebbe il piano sul quale gli sembra legittimo conferirgli intenzioni né dichiarate né in altro modo rese esplicite, fino a distorcerne, come abbiamo visto nel caso di Lévi-Strauss, addirittura il contenuto: pérete, diremmo, che gli fanno correre il rischio di zompare giù dal balcone. 

giovedì 10 marzo 2016

Er Porchetta

Come ai craxiani preferivo Craxi, e i craxiani più fanatici, mossi da un craxismo quasi mistico, agli scaltri opportunisti dalla fredda e calcolata fedeltà a scadenza, sotto la quale costruivano una reputazione di craxiani per necessità storica, così preferisco Renzi ai renziani, e i renziani più ottusi, quelli che gli hanno venduto tutto il sangue e i due etti di cervello che si ritrovavano, a un tizio come Giachetti. Niente di personale, è una scelta - scusate la parola grossa - esistenziale: al furbetto bravo a cucirsi addosso la pelle del simpatico a tutti, che salta da una fedeltà all’altra lasciandosi dietro una tiepida scia di sorrisi, preferisco l’uomo di merda fiero di esserlo, il fetente buono per una sola stagione, capace di bruciarsi per poi rinascere dalle sue ceneri. Preferisco l’arrosto andato in fumo al paziente uomo di mondo che sa procurarsi quella deliziosa crosticina da porchetta rosolata a puntino, con le spezie giuste aggiunte al momento giusto.

mercoledì 9 marzo 2016

[...]

Solo chi è in malafede può negare la gravità di quanto è stato ampiamente e incontestabilmente documentato da Fanpage, ma per affermare che il risultato delle Primarie tenutesi a Napoli debba comunque ritenersi fuori discussione non basta la malafede: occorre una robusta faccia tosta per negare levidenza e un fiero disprezzo per le più elementari regole democratiche, doti che non difettano agli sgherri di Matteo Renzi, nelle cui dichiarazioni a commento del ricorso presentato da Antonio Bassolino riverbera larroganza di chi si sente padrone del Pd e non tollera che si sollevino obiezioni sullesito di un voto che era proprio quello desiderato: a Valeria Valente saranno andati i voti di cosentiniani, di cuffariani, di poveracci che non ne conoscevano neppure il nome prima che li si portasse ai seggi mettendogli un euro in mano, ma quel che importa è che abbia vinto, non importa come, perché era la candidata gradita a Matteo Renzi. Lo scarto di voti che le ha dato la vittoria su Antonio Bassolino è così esiguo da porre seri dubbi sulla validità del risultato? Non importa, dice Matteo Orfini. Fa niente, gli fa eco Lorenzo Guerini. E in due non fanno un grammo di pudore. 

martedì 8 marzo 2016

Non c’è teoria, non c’è modello


La psicologia sociale piscia come un colabrodo, però, detto così, il concetto suona male. Diciamo, allora, che per la natura stessa del sociale, prodotto di fattori molto spesso assai difficilmente quantificabili e quasi sempre solo assai approssimativamente qualificabili, sembrerebbe ampiamente giustificato lo scetticismo sullefficacia del metodo scientifico applicato allo studio dei suoi svariati ambiti, e in primo luogo di quelli in cui il sociale si offre come oggetto di ricerca psicologica, dove i risultati, quandanche consentano la costruzione di modelli spesso assai suggestivi, di regola non rispondono ai requisiti di oggettività, affidabilità, verificabilità, condivisibilità e predittività, sui quali comunemente si misura il metodo scientifico, tuttal più rispondendo a quello di inficiabilità (termine che ritengo sia da preferire a quello di falsicabilità, la popperiana Fälschungsmöglichkeit, che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti), se non fosse che è questione ancora aperta se sia scienza solo ciò che permanentemente inficiabile (Karl Popper, Logik der Forschung, 1934) o ciò che di un modello riesce a fare un solido paradigma (Thomas Kuhn, The structure of scientific revolutions, 1962).
Così, forse, suona meglio, resta di fatto che, nonostante Gustave Le Bon (Psychologie des foules, 1895), Gabriel Tarde (Lopinion et la foule, 1901), Floyd Allport (Social psychology, 1924), Theodore Newcomb (Personality and social change, 1943), Solomon Asch (Social psychology, 1952) e Stanley Milgram (Obedience to authority, 1974), sul conformismo la psicologia sociale piscia come un colabrodo: ne sappiamo tutto, tranne come si realizza. Sappiamo cosa ne causa la propensione, cosa ne regge la tensione, cosa ne induce la precipitazione, cosa ne favorisce la diffusione, cosa ne rende possibile la cristallizzazione, tanto per riprendere lo schema proposto da Neil Smelser (Theory of collective behavior, 1963), ma non abbiamo alcun modello scientificamente valido per rappresentarcene il divenire, solo profili che potremmo dire letterari (in fondo pure il caso clinico e la storiografia sono generi letterari), che per lo più ricalcano il ritratto dellindividuo o la descrizione della massa affetti da pulsione gregaria (Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dellIo, 1921). È così che del conformismo sappiamo cause ed effetti, forme e modi, ma poco più di niente sappiamo sul come si realizza. Per meglio dire, ci manca una teoria del suo sviluppo: a fronte di innumerevoli esperienze individuali e collettive che per emblematicità ci illudono di poterne ricavare una, ci manca.
Così, guardando Barbara DUrso che intervista Matteo Renzi, si ha limpressione di poterne costruire un idealtipo – «il conformismo – ci si azzarda a dire – si realizza come resa per sfinimento della capacità critica» – ma subito si è costretti a una rettifica – «il conformismo – ci si corregge – si realizza come voluttà di resa» – ma pure così non si va più in là dellempirico: ad ogni applauso il mostro cresce, ma su ciò che accade sotto le file di scaglie che scivolano luna sullaltra distendendosi a ventaglio – su ciò che ingrossa questa ributtante bestia che ciclicamente esce dalla preistoria per esigere il tributo che ciclicamente la storia gli elargisce – non cè teoria, non cè modello.

lunedì 7 marzo 2016

[...]

Da oltre un secolo sappiamo che solo in un ambito relativamente ristretto possiamo permetterci di continuare a fare un uso della rappresentazione del tempo come quella classica, valida in assoluto, in ogni punto dell’universo e lungo tutto il suo divenire: basta provare a uscire da quest’ambito, conservando del tempo l’idea che continua a funzionare alla perfezione quando vi si è dentro, per constatare quanto sia inappropriato ritenere, ad esempio, che la sua continuità sia omogenea: il tempo smette di essere un’entità autonoma, si dilata o si contrae in relazione agli stati della materia, per la quale, fuori dall’ambito relativamente ristretto dal quale tuttavia non ci è indispensabile esorbitare, vale quanto abbiamo detto per il tempo: la materia non è quello che ci appare: come provano a spiegarci i divulgatori scientifici nel loro eroico tentativo di aprirci al contro-intuitivo, «è fatta di onde».
Perché possiamo permetterci di non aggiornare i concetti di tempo e di materia? Perché la nostra vita può tranquillamente eludere la realtà sub-atomica e quella extra-galattica, restando nellambito relativamente ristretto in cui le leggi della fisica classica continuano a funzionare come sempre. In generale: per evitare la fatica di aggiornare un concetto, dobbiamo accontentarci di limitarne luso ad un ambito che però la conoscenza tende a restringere sempre di più. Volendo, potremmo tranquillamente riadottare il sistema tolemaico, ma a patto di non tentare viaggi interplanetari, necessariamente destinati al fallimento rinunciando a programmarne le rotte sulla base di quanto è implicito nel sistema copernicano. In definitiva, possiamo concludere in questo modo: solo lignoranza può rendere inscalfibile un concetto.