Fosse
pure stato il nano che non era, le sue disposizioni testamentarie
basterebbero a dargli statura di gigante: Umberto Eco lascia scritto
che per almeno dieci anni vorrebbe non si tenesse incontro, convegno,
giornata di studi sulla sua persona e sulle sue opere, sul suo
pensiero e sulla sua vita. Sarà stata pure una
furbata, ma è divina.
mercoledì 23 marzo 2016
È possibile tenere a freno le passioni?
Dinanzi
a un atto terroristico è disumano non provare pena, dolore, paura e
rabbia. D’altra parte sono proprio queste le emozioni che i
terroristi intendono suscitare, perché le vittime dei loro attentati
sono solo un mezzo, mentre il fine immediato è quello di influenzare
le opinioni pubbliche, che a sua volta mira a condizionare le
politiche governative, per pressione che dunque è indiretta, ma che
invariabilmente si fa diretta, perché l’istanza
di sicurezza non ha bisogno di essere rinnovata per essere assunta
dallo stato come obbligo primario.
Come acutamente è stato scritto
da chi a lungo ne ha studiato la logica che lo muove, gli strumenti
di cui si serve, le modalità che gli sono proprie, «il terrorismo è
teatro» (Salustiano Del Campo), tanto più efficace, quanto maggiore è l’onda emotiva
che le sue azioni sollevano in platea. Fosse possibile restare
indifferenti, freddi, insensibili allo spettacolo che mette in scena,
il terrorismo non avrebbe ragione di esistere, ma ovviamente questa è
ipotesi impensabile, perché presupporrebbe un’impassibilità
alla sofferenza e alla morte dei propri simili che non sarebbe poi
troppo diversa da quella di chi progetta e realizza atti
terroristici.
Sta di fatto che è proprio l’insopprimibile
pathos che la rappresentazione scatena a procurare vantaggio a chi ne
ha scritto il copione, a chi ne ha curato la regia, a chi se n’è
fatto interprete. Per questa ragione, il terrorismo dev’essere
considerato il mero innesco di un ordigno che ha proprio nelle
conseguenze del terrore, in ciò che di irrazionale inevitabilmente
suscita negli animi che intende scuotere, la sua massa esplosiva: può
indubbiamente infondere sgomento, accentuare pena, dolore, paura e
rabbia, infliggere un angoscioso senso di impotenza, ma si deve
prendere atto che solo gli spettatori possono decretare il successo
dell’evento teatrale.
È possibile tenere a freno le passioni che suscita l’azione terroristica per depotenziarla, in vista del neutralizzarla? Cosa può temperare le passioni – senza estinguerle, sia chiaro – al punto da evitare che si mettano a servizio di chi strumentalmente le sollecita per servirsene? La ragione, probabilmente. Probabilmente, il miglior omaggio che possiamo riservare alle vittime di un atto terroristico è cercare di comprendere il meccanismo che le ha rese tali, per disattivarlo. Questo è difficilissimo, ma occorre provare.
È possibile tenere a freno le passioni che suscita l’azione terroristica per depotenziarla, in vista del neutralizzarla? Cosa può temperare le passioni – senza estinguerle, sia chiaro – al punto da evitare che si mettano a servizio di chi strumentalmente le sollecita per servirsene? La ragione, probabilmente. Probabilmente, il miglior omaggio che possiamo riservare alle vittime di un atto terroristico è cercare di comprendere il meccanismo che le ha rese tali, per disattivarlo. Questo è difficilissimo, ma occorre provare.
Occorre,
innanzitutto, sottrarre al terrorismo ogni aggettivo, ogni attributo
che miri a conferirgli una dignità politica, culturale, religiosa.
Che il terrorista se la attribuisca, la rivendichi, ne faccia la
ragione della sua azione, o al contrario ne faccia pretesto o
paravento per altri moventi, deve essere considerato irrilevante.
D’altronde le modalità dell’atto terroristico sono costanti
anche al variare delle ragioni che gli danno movente e dell’ideologia
che le trasfigura in giustificazioni. Solo un errore di analisi può
farci ritenere specifico un suo carattere, com’è nel caso del
terrorista che non esita a sacrificarsi pur di portare a termine il
compito che si è prefisso: è nel calcolo di ogni progetto
terroristico che l’esecutore materiale debba accollarsi il rischio
di morire portando a termine il suo compito, e che tale rischio sia
accettato come prezzo certo costituisce solo un dato di carattere
tecnico, che impone un’adeguata metodologia di approccio al
problema, ma che non cambia i termini della questione posta in sé
dall’atto terroristico.
Da questo punto di vista, occorre
ponderarne esclusivamente il reale potenziale offensivo: che a
compiere una strage sia stato un militante dell’Isis, un Anders
Breivik o lo studente del college americano, il problema è posto
dagli strumenti di cui ha potuto farsi forte, dall’effettiva
capacità di dare ad essi il voluto effetto letale, non già da
quanto egli dichiara averlo motivato. Con ciò non voglio dire che un
profilo criminale manchi di caratteri specifici che lo distinguono da
un altro, fatto sta che questi andrebbero esclusivamente considerati
elementi utili ad approntare soluzioni di natura tecnica, non già a
investire il terrorista del ruolo di officiante di un credo.
In
secondo luogo, occorre trattare il terrorismo al pari di una
qualsiasi altra causa di morte violenta per mettere in evidenza
l’enorme sproporzione tra il numero delle vittime che causa e
l’impatto emotivo che genera. Questo non mira a banalizzare il
problema che solleva, tanto meno a ricondurlo a evento fatale pari a
quello delle morti per incidente stradale o rottura di aneurisma
cerebrale, ma a sottrargli ogni aura che lo inscriva nelle
suggestioni dei miti che aspira a incarnare.
Di
pari passo, occorre decostruire la figura del terrorista, che anche
quando è avvertita come persona spregevole, tende a conservare,
almeno sul piano dell’immaginario meno avvertito, l’ombra del
cieco esecutore di un Male tutto trascendente oppure, il che è
ancora più insidioso, lo spettrale profilo del Barbaro. Occorre
ridurre il terrorista a psicopatico, dichiararlo intrattabile.
La
tendenza ad assecondare le passioni dinanzi all’atto terroristico,
invece, gli conferisce un nefasto potenziale allegorico,
mostrificando il terrorista come agente di un’entità sovrumana, aggravando il senso di insicurezza che il crimine intende infondere.
[segue]
martedì 22 marzo 2016
Madonna, che spasso!
Partiamo
dalla coda: la sentenza è di gennaio, ma se ne ha notizia solo ora.
A darle rilievo mediatico prima, qualcuno avrebbe potuto ricorrere in
appello. Ora i termini sono scaduti, la sentenza è inappellabile,
chi avrebbe potuto metterla in discussione non può farlo più. Già,
ma chi avrebbe potuto, e a che titolo?
La
sentenza ha concesso a
un uomo l’adozione
di un bambino di cui il suo convivente, cui è sentimentalmente
legato fin dall’adolescenza,
è padre biologico. Bambino nato in Canada, grazie alla pratica della
gravidanza surrogata. La madre biologica si è prestata
volontariamente a dare ai due uomini la possibilità di allevare un
figlio donando ad un essi un ovulo, e così la donna che ha
consentito a farsi impiantare in utero quell’ovulo
dopo che questo è stato fecondato dal seme di uno dei due, in più
tutto questo è da tempo legalmente consentito in Canada, come è
legalmente consentito in Italia che un uomo o una donna possano
adottare un bambino che sia figlio del proprio convivente: chi
avrebbe avuto titolo ad appellarsi?
A
ritroso: il Parlamento italiano ha partorito una leggina sulle unioni
civili che solo in considerazione del suo bassissimo livello
culturale può essere considerata una rivoluzione. Dopo estenuanti e
risibili polemiche, si è arrivata a partorirla stralciandole il
capitolo relativo alla stepchild adoption, rimandandone la
discussione a uno dei prossimi 31 febbraio, lasciando che a decidere
sui casi vivi, rimessi al giudizio dei tribunali, fosse la
legislazione vigente in materia, che non ha bisogno di alcuna
interpretazione creativa per consentire l’adozione,
proprio come è accaduto nel caso di questa sentenza. Come si può
gridare allo scandalo per una magistratura che scavalcherebbe il
dettato del legislatore? Non è forse sulla base di una legge che già
esiste al riguardo che è stata scritta questa sentenza? E chi l’ha
scritta, questa legge?
Ancora
un passo indietro: la legge che in questo caso ha consentito al
giudice di dichiarare ammissibile l’adozione
è più o meno costituzionale di quella ancora da scrivere e che invece
non l’avrebbe consentita? Per meglio dire: sarebbe
costituzionalmente valida una legge che vietasse l’adozione a un
individuo adottando un criterio discriminatorio legato al sesso, ma
solo in relazione al sesso del suo convivente, sicché ne risultasse
che l’adozione sia possibile solo a chi non sia omosessuale? No,
eh? E allora di che si ciancia? Una legge del genere starebbe in
piedi solo qualche anno, solo il necessario per infliggere qualche
dispettuccio omofobo a una o due dozzine di famiglie omogenitoriali,
poi farebbe la fine della legge 40.
Ancora
un passo indietro: si è deciso di stralciare la stepchild adoption
dal ddl Cirinnà perché altrimenti si sarebbe dato il via alla corsa
di uteri da affittare all’estero, si è addirittura vaneggiato di
poter dichiarare illegale la pratica della gravidanza surrogata su
tutto l’orbe terracqueo. Deliri di cui si può essere capaci solo
quando al posto del cervello si ha una cacca di prete stitico. Come
intervieni nella giurisdizione di un altro paese? No – dice – che
hai capito? Si punisce il cittadino italiano che all’estero abbia
commesso il misfatto. Ok, ma allora è almeno un pochino improprio
parlare di messa al bando universale. E poi come si fa a provare che
vi sia stato misfatto? Chi autorizza il magistrato italiano a
sottoporre al test del Dna la donna che ha partorito per constatare
che non corrisponde a quello del neonato e così aver prova certa che
l’ovulo non fosse suo? Come potrà essere smentita la puerpera che
dichiari di essersi carnalmente congiunta col padre biologico del
bambino, ma che dopo averlo partorito le sia venuto lo sghiribizzo di
non riconoscerlo?
Ancora
un passo indietro? Sia. All’omofobo medio italiano brucia il culo
in modo impressionante all’idea che una famiglia possa non essere
come quella che sta nel suo iperuranio, e pur di non essere costretto
a vederne una seduta al tavolino che al bar sta accanto al suo non sa
a cosa aggrapparsi: a Dio, alla Natura, alla Costituzione, ma niente
gli offre presa valida. Soffre, poveraccio. Cogita ritorsioni. Veste
di autorità i suoi spaventapasseri. Si consuma in biliosi sarcasmi
sul frocio al quale manca l’utero, e con la stessa cattiveria con
la quale all’asilo dava del quattrocchi a quello che portava gli
occhiali. Soffre, poveraccio. Madonna, che spasso vederlo soffrire!
lunedì 21 marzo 2016
«Relazione»
Un termine può essere usato in modo più o meno improprio, e questo può
accadere in modo più o meno intenzionale, ma con ciò non perde quei
caratteri che lo rendono comunque distinguibile dai suoi sinonimi,
dandogli lo specifico che lo fa insostituibile nel contesto in cui è chiamato a esprimerlo. Io ho un modo tutto
personale, e certamente tutto empirico, so bene, per tentare di cavar fuori da una parola
questo specifico che rende improprio, seppur impercettibilmente
improprio, il sostituirla con un sinonimo: su un foglio, in alto, da
sinistra a destra, trascrivo tutti i sinonimi che ne riportano i
dizionari di riconosciuta autorevolezza (a volte cinque, a volte
sei); poi incolonno sotto ciascuno i rispettivi sinonimi riportati
dalle stesse fonti; quindi procedo a cassare con un tratto di penna
tutti i termini che ricorrono immancabilmente in tutte le colonne;
restano così quei termini che della parola presa in oggetto mi danno lo specifico in
ciò che essi le negano, conferendole per lo più un senso figurato che
ne distorce il significante, assegnandole un significato che
riformula il suo etimo in una lettura che talvolta arriva ad essere
grottesca.
Troppo
complicato? Semplifico con un esempio, prendendo il foglio che ho
compilato nel modo sopra descritto per cercare lo specifico di
«relazione», che viene da «relatus», participio passato di
«referre», che letteralmente significa «riportare», il che dà
ragione di come anche «rapporto», come «relazione», rimandi a
«connessione», «collegamento», «nesso», ma pure a «resoconto»,
«comunicato», «esposizione», trovando poi in «corrispondenza»
la coincidenza tra ciò che rende reciproco il «relatus» che è in
una «relazione» e ciò che connette due individui nell’atto
col quale uno dei due usa «referre» qualcosa all’altro.
In
quale colonna il termine «relazione» trova la maggior perdita di
specifico? In quella che s’allunga
sotto il suo sinonimo «legame», dove «connessione»,
«collegamento», «nesso», «rapporto» sono espressione del suo
figurato, mentre per quello letterale troviamo «laccio», «cinghia»,
«corda», «filo», «cappio», che trasformano la «relazione»,
anche laddove non sia perso quanto di reciproco «riporta» l’uno
all’altro, in un «vincolo» che include «obbligo» ed
«impedimento». Direi che nel «legame»
vada persa la libertà che muove alla «relazione» e, soprattutto,
la libertà che muove a romperla: la rete di «relazioni» nel quale
l’uomo
si trova ad essere «sociale» smette di essere, laddove sia mai
stata, prodotto del suo libero «corrispondere» (del suo
responsabile «rapportarsi») per diventare il soffocante sviluppo di
«corde» e «lacci» che «legano» ciascuno a tutti. «Noi siamo
esseri sociali e relazionali», allora, dà a «società» e a
«relazione» significati che conferiscono alla frase il senso di un
richiamo che somiglia allo strattone che si dà al guinzaglio quando
il cane prova a deviare dal cammino deciso dal suo padrone.
Non
avevo intenzione di tirarla così a lungo. Mi ero riproposto di
premettere solo sei o sette righe a commento dell’intervista
concessa dal cardinale Angelo Bagnasco ad Andrea Tornielli per La
Stampa di
domenica 20 marzo (pag. 9), ma tutto sommato va bene anche così:
posso risparmiarmi di scendere nel dettaglio di ciò che Sua Eminenza
afferma riguardo all’eutanasia,
limitandomi a segnalare che quanto gli fa dire che non si abbia pieno
diritto sulla propria vita discende da un’accezione
del «relazionale» assai più vicina alla «corda» che alla
«corrispondenza». Niente di nuovo, dunque, se non la riproposta
dell’uso
improprio – intenzionalmente improprio, non c’è
alcun dubbio – di «relazione».
A
parte, quasi a dare un tocco buffo al mostro organicista, la risposta
a «che cos’è l’“accanimento terapeutico”», cui la Chiesa
si dichiara «non favorevole: «Quando medicine e farmaci sono ormai
“rigettati” dal corpo, si sospendono le cure che risulterebbero
un accanimento». E quand’è
che un corpo li “rigetta”? Mai, quando è incosciente. Può
farlo, come e quando crede, quando è libero e responsabile, oltre
che cosciente. Sta di fatto che per “rigettarli” deve poter
disporre di un’autonomia
che si traduce inevitabilmente sul controllo di una vita, la propria
vita, che l’«essere
sociale e relazionale», al modo in cui lo intende Sua Eminenza, gli
nega. D’altro
canto, a un cadavere è davvero complicato far scendere una flebo:
diremmo la “rigetti”. Però è proprio quando è cadavere che un
uomo si trova nella perfetta condizione di non poter disporre (più)
della propria vita, come dovrebbe accettare anche da vivo. Peccato.
Sarebbe bastato pure un «m’è apparsa la Madonna»
Posseggo
solo una trentina dei 163 volumetti della collana Cultura
dell’anima
che la casa editrice Rocco Carabba di Lanciano pubblicò a partire
dal 1909 affidandone la cura a Giovanni Papini, ma fra quelli non mi manca Polemiche
religiose,
di cui qui sopra è riprodotta la chiusa della prefazione, che
attacca in questo modo: «Non
sembrerà, spero, atto buffo d’orgoglio pubblicare un volume mio in
una collezione da me diretta. Dopo nove anni che scelgo le opere
altrui mi sono accorto di avere scritto anch’io qualcosa che può
entrare senza difficoltà nella Cultura dell’anima».
È da un articolo apparso ieri sul domenicale de Il
Sole-24 Ore (Cesare
De Michelis, Il canone
mobile di Papini
– pag. 28), nel quale si dà notizia della ristampa della collana,
che apprendo quel che ignoravo: a rompere il sodalizio tra Carabba e
Papini fu la ristampa di Polemiche
religiose
che il primo volle contro la volontà del secondo, che intanto si era
convertito al cattolicesimo. Un vero e proprio atto di ripulsa
(ripudio, in questo caso, mi pare suoni debole) per ciò che aveva
scritto appena qualche anno prima.
Avrebbe potuto consentire la
ristampa approfittandone per spiegare in una nuova prefazione le
ragioni della sua conversione, cosa che peraltro fino ad allora non
aveva mai fatto, né fece dopo, se non per vaghi accenni: quale
migliore occasione per dar ragione del nuovo Papini rispetto al
vecchio? «Ho cambiato idea – avrebbe potuto dire – su ciò di
cui scrivevo nelle pagine che qui consegno alla ristampa, e per i
seguenti motivi...»: sarebbe bastato pure un «m’è apparsa la
Madonna», si sarebbe ritagliato silhouette più decorosa.
Non scelse
a questo modo, sicché per sempre rimarrà mistero in quale categoria
di cattolici avrebbe preferito esser sistemato. Ne elencava sette
(pagg. 107-112): pinzocheri, per modo di dire, machiavellici,
affaristi, modernisti, misticizzanti, belve. Premettendo che «cattolici puri e perfetti» non esistono («Esistono i cattolici? Dicon di sì. Io dico no»).
domenica 20 marzo 2016
[...]
Dopo
un colpo al cerchio, uno alla botte: dopo aver deliziato i
lettori di Avvenire
spalancando ai loro avidi occhi tutta la sua perplessità riguardo la stepchild adoption, ecco una
scosciata in minigonna che pareggia il conto sull’opposto fronte. Veramente brava, la Virginia.
Conformismo è ancor dir poco / 1
L’applauso
che nel talk show arriva in coda a ogni intervento, senza eccezioni,
può avere molte spiegazioni, che però dipendono dalla composizione
del pubblico presente. Nel caso in cui a ogni partecipante sia
consentito di portarsi appresso una claque, la spiegazione non
solleva problema. Né lo solleva il caso in cui la claque sia in
dotazione al talk show, con la consegna di applaudire a tutto, in
modo equanime. Anche escludendo queste evenienze, tuttavia, non è
strano che in un talk show ogni intervento sia seguito da un
applauso, perché è nella natura di un uditorio dividersi in
sostenitori di un’opinione e di
quella opposta. Il problema, invece, è posto da quei casi in cui si
può essere ragionevolmente certi che il pubblico non sia assoldato:
com’è possibile che quel tizio
in terza fila applauda al politico che predica la caritatevole
accoglienza dei migranti e appena tre minuti dopo a quello che
propone di affondare il gommone che ne è stracarico?
La
domanda sorge nel corso di una ricerca che mi ha tenuto per parecchie
ore su Youtube a guardare spezzoni di tv, dalle antidiluviane
edizioni del Maurizio Costanzo Show alle ultime puntate di
Ballarò, ma non ho intenzione di parlare di talk show, né di
migranti, né di quello che era oggetto della
ricerca, che troverà spazio in altra occasione: qui mi interessa il
tizio in terza fila, cui voglio concedere di essere in buona fede,
ora pienamente convinto dalle ragioni che sostengono una tesi, poi
altrettanto convinto delle ragioni che ne sostengono una opposta, poi
ancora in favore della prima tesi, e poi dell’altra,
dando l’impressione di cambiare
idea di continuo. È evidente non ne avesse alcuna prima, è
probabile non se ne sia fatta una dopo, ma indubbiamente le due
opposte tesi l’hanno entrambe persuaso,
sia pure per il breve lasso di tempo in cui ciascuna veniva
argomentata.
Quello che mi interessa, insomma, è quella piena
adesione a una tesi – voglio dare per scontato che un applauso ne
sia il segno – che si ha esclusivamente nel ristretto spazio datole
per essere argomentata: mi interessa quel settore dell’opinione
pubblica che è permanentemente ondivago tra ben distinti e perfino
opposti richiami (se-duzioni, etimologicamente intese). È evidente
che il consenso stabilizzato in fidelizzazione costituisca solo il
fondo del letto in cui scorre il fiume di questa massa.
[...]
sabato 19 marzo 2016
[...]
Non
sempre un buon argomento è comunque spendibile, non sempre due
argomenti sono meglio di uno. Si prenda il caso dell’invito
all’astensione
che il Pd di Matteo Renzi sembra aver scelto come posizione ufficiale
sul referendum del 17 aprile.
Per la validità dell’esito
referendario la Costituzione prevede un quorum, dunque ogni
iniziativa tesa a evitare che questo sia raggiunto è pienamente
legittima, sostanzialmente equiparabile a quella del sostegno al
«no»:
ottimo argomento, ma poco spendibile da un partito che si dice
«democratico»,
e che dunque nel voto dovrebbe vedere il più alto momento di
partecipazione popolare alla vita pubblica e alle decisioni di
interesse nazionale, perché l’astensione
rende indistinguibile il rigetto della proposta referendaria dal mero
disinteresse per il problema posto dal quesito, che per un partito
che si dice pure «di
sinistra»
darebbe somma inammissibile di due categorie, quella dei «partigiani»
e quella degli «indifferenti», politicamente e moralmente
irriducibili.
Secondo argomento in favore dell’astensione
prodotto dal Pd
di Matteo Renzi, anzi, da Matteo Renzi in persona: sarebbe un modo
per dichiarare insofferenza allo spreco del denaro pubblico
necessario per tenere la consultazione referendaria. Argomento
spendibile dopo aver scorporato il referendum da un possibile
election day con le amministrative di giugno? Si è detto che lo
scorporo aveva come scopo quello di evitare che le Comunali avessero
un effetto di trascinamento sul voto referendario, che era più
giusto chiamasse alle urne solo chi davvero interessato alla
questione che solleva. Bene, ma questo come si concilia con l’invito
all’astensione?
giovedì 17 marzo 2016
Geniale
Ma è vero quel che si dice? Possibile che chi sostiene Giorgia Meloni nella sua corsa al Campidoglio ha pensato bene di intestarle il titolo di Mamma Roma? Pensando all’omonimo film di Pier Paolo Pasolini? Quello in cui Anna Magnani interpreta una puttana cui alla fine della storia muore il figlio? Geniale.
Leggo, rileggo, rileggo ancora, e ancora, ma poi ancora no
Avrei
voluto prendere in considerazione uno per uno gli argomenti che
Claudio Magris espone in Non
è giusto trasformare ogni desiderio in diritto
(Corriere
della Sera,
16.3.2016), se non fosse che alla seconda rilettura di ciò che
scrive mi rendo conto di non riuscire a capire contro cosa stia argomentando. Contro il matrimonio gay, contro le unioni civili tra
persone dello stesso sesso o addirittura contro la convivenza di una
coppia omosessuale? Contro la gravidanza surrogata, contro la
stepchild adoption o contro la sola evenienza che un bambino possa
essere allevato da una coppia di persone dello stesso sesso? Colpa
mia, naturalmente, e allora rileggo ancora.
Primo:
condanna della «trasformazione
delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto
titillamento pulsionale»,
e qui il concetto di «desiderio»
diventa enormemente estensivo, perché a fronte delle «autentiche
e umane visioni del mondo»,
intese come concluso orizzonte antropologico, diventa un «indistinto
titillamento pulsionale»
tutto ciò che Claudio Magris ritiene poco «autentico»
o non del tutto «umano»,
peraltro senza stilarcene la lista. Per esempio: ho una grave
insufficienza mitralica; vorrei vivere altri vent’anni;
il cardiologo mi propone un intervento chirurgico per sostituire la
valvola difettosa con una di maiale o con una protesi in caucciù e
fibra di carbonio, robe che di «autentico»
e di «umano»
manco a parlarne; che faccio, mi titillo o ci rinuncio?
Secondo:
condanna di quel «relativismo
nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a merce di
scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di vita e
di pensiero»,
che costringe inevitabilmente a chiederci cosa debba intendersi per
«scambio»
e per «unità
forte di vita e di pensiero».
Amare solo se si è ricambiati configura una dimensione merceologica?
E in cosa va indebolirsi l’«unità
di vita e di pensiero»
con l’adattarsi
dei sentimenti e dei valori alle mutate relazioni tra soggetti di cui
la storia non smette mai di rimodellare profili e ruoli? Perché
Claudio Magris ci lascia sospesi nel vago e invece non ci indica
dov’è
che la storia dovrebbe fermarsi, sazia di aver raggiunto il top di
ciò che è «autentico»
e di ciò che è «umano»?
Terzo: «La
famiglia tradizionale può essere e molte volte è stata anche
violenta, soffocante e nemica del libero sviluppo della persona»,
certo, ma questo ci consente di considerarne illegale il modello? «È
ovvio che persone capaci di intelligente e attento amore possano far
crescere un bambino meglio di genitori carnali incoscienti e
snaturati o anche solo ottusamente incapaci di intelligente amore»,
certo, ma questo è possibile se i genitori sono dello stesso sesso?
«Ho
conosciuto e conosco omosessuali bravi genitori del loro figlio»,
perfetto, e allora perché vuoi negar loro il pieno riconoscimento
che sono famiglia?
Perché non sarebbe giusto trasformare il loro desiderio in famiglia?
Perché «il
protagonista
– dice Claudio Magris – non
è il desiderio della coppia né omo né eterosessuale, bensì il
bambino, che comunque nasce da un uomo e da una donna e la cui
maturazione è verosimilmente arricchita dalla crescita non
necessariamente con i genitori naturali ma con un uomo e una donna,
espressione per eccellenza di quella diversità (culturale,
nazionale, sessuale, etnica, religiosa e così via) che è di per sé
più creativa e formativa di ogni identità a senso unico».
E da quali studi si evincerebbe questa norma aurea? Prim’ancora:
la maturazione di un bambino sarebbe necessariamente più arricchita
quando la mamma sia esquimese e il babbo filippino? Quando il babbo
sia musulmano e la mamma scintoista? Ce n’è
abbastanza per vietare di allevare figli a genitori che abbiano la stessa
nazionalità o che appartengano alla stessa confessione religiosa:
sul piano nazionale e su quello religioso la coppia non rispetterebbe
quei requisiti di diversità che sul piano sessuale ci dovrebbero consentire di vietarlo a una coppia omosessuale.
No, senza dubbio
dev’essermi
sfuggito qualcosa nell’articolo
di Claudio Magris per darmi l’impressione
che abbia scacazzato un mucchio di stronzate, e questo non può
essere. Sì, ma chi mi dà la forza di leggere l’articolo per la
quarta volta? No, rinuncio a scrivere il post che avrei voluto
scrivere.
mercoledì 16 marzo 2016
Bertolaso e il Toxoplasma
Google
non mi ha dato alcun riscontro in merito, ma
non ho dubbi che Guido Bertolaso abbia davvero detto quanto gli
attribuisce Daniela Ranieri, e cioè che abbia spiegato l’invito
rivolto a Giorgia Meloni («deve
fare la mamma»,
sottinteso: non deve candidarsi a sindaco di Roma)
mosso da benevolente istinto di protezione, «in
quanto medico e maschio, dunque in pieno diritto di dire a una donna
cosa fare affinché la gestazione proceda e il lattante non contragga
la toxoplasmosi a contatto coi sorci capitolini»
(La
protezione mammaria dei due B. –
Il
Fatto Quotidiano,
16.3.2016): do per scontato che si sia espresso proprio in questo
modo perché, a naso, Daniela Ranieri mi dà l’impressione
di una assai precisina.
E qui, allora, sorge il problema. Perché è vero che il Toxoplasma
può trovarsi in molti animali, gatti e cani soprattutto, ma perfino
rettili e molluschi, e topi pure, ma di regola il passaggio delle sue ovocisti
all’uomo
avviene per ingestione di tessuti animali che siano stati
infettati dal parassita (carne suina e ovina, per lo più) o di
vegetali (verdure e ortaggi, solo raramente frutta) sporchi delle feci
di animali che ne siano portatori.
Ora viene spontaneo chiedersi: il problema dei «sorci
capitolini»
può essere risolto solo con la partecipazione attiva del sindaco di
Roma alle operazioni di disinfestazione? Ammesso e non concesso così
sia, e in sovrappiù che tutti i «sorci
capitolini» siano
portatori di Toxoplasma, è statisticamente più alto il rischio di
contrarre l’infezione
da sindaco o da gravida alla quale possa capitare a tavola la fettina
di prosciutto o il piatto di insalata sbagliati? Se il sindaco non ha
lo sghiribizzo di festeggiare ogni mille topi uccisi con le proprie mani arrostendone uno
per mangiarselo, per giunta senza averlo cotto bene, perché lo gradisce al sangue, il rischio è senza dubbio
più alto per la gravida. Se la gravida, poi, esibisce un Toxotest
che documenti la sua avvenuta immunizzazione per aver già contratto
l’infezione
in passato, il problema cade?
Più di tutto, cos’è
che ci costringe a domande così balzane? Semplice: il link che Guido
Bertolaso ha creduto fosse estremamente forte tra la gravidanza di
Giorgia Meloni e l’emergenza
dell’infestazione
murina che di recente si è aggiunta alle croniche emergenze della
Capitale. Link estremamente forte sul piano della suggestione, quanto
estremamente debole su quello dell’epidemiologia.
martedì 15 marzo 2016
[...]
Fra
i tanti guasti che il cristianesimo ha arrecato alla nostra salute
c’è
quell’infliggerci
da soli una pena pari a quella che merita un assassino per il solo
aver desiderato la morte altrui, che pure gli studenti al primo anno
di Psicologia sanno essere cosa innocente, del tutto fisiologica, e poi di grande compagnia.
Malfamato dappertutto, condannato in mille modi, crudelmente perseguitato, perciò costretto a nascondersi,
travestirsi, rinnegarsi, fino a ingaglioffirsi e farsi vile, l’odio
è così diventato un sentimento irriconoscibile, perfino un po’
ridicolo a dispetto della sua lirica grandezza, corrotta in egual modo quando va ad estinguersi in violenza, dove trova la caduta per
calo di tensione, o in perdono, dove si consuma tutta per sublimazione. Non
sappiamo più odiare in modo nobile, ecco. Non sappiamo star seduti
in riva al fiume concentrando cuore e mente in quella delicata e laboriosa
pazienza che può impegnare anni e anni per darci quel che
desideriamo: o smaniamo, e finiamo per scivolare in acqua, per lo più affogando, o ci
stanchiamo, e leviamo le tende, e per andare dove, poi? A costruirci un mondo parallelo dove chi odiamo non ne turba l’armonia. Questo è brutto, molto brutto. Anche per questo, maledetto il cristianesimo.
[11.6.1984]
[...]
Ogni
tanto torna il refrain di Luigi Petroselli miglior sindaco di Roma di
ogni tempo (variante: insieme a Ernesto Nathan). Tenuto conto degli
altri, può esser vero, ma giacché a Roma lo sfascio è ormai
sistema, e ha radici nello sperpero di risorse pubbliche per nutrire
clientele d’ogni
risma, torni utile la testimonianza di Franco Ferrarotti, che
all’offerta
di un assessorato fattagli da Luigi Petroselli pose «come
condizione la rescissione dei contratti che legano il Comune di Roma
a duemila piccole ditte che fanno buchi e poi li riempiono, e non si
capisce cosa fanno», riavendone in risposta un «ah, no, non
possiamo, quella è la nostra base elettorale». Placcare d’oro
il passato
è inevitabile, ma poi basta un’unghiata.
lunedì 14 marzo 2016
La signora ne ha bisogno
Un mio amico ritiene che l’articolo sia delirante, dice sia un esempio di quella pornografia informativa che dell’attacco alla privacy altrui fa lo strumento per lucrare attenzione. Parlo l’articolo che apre il numero de la Lettura da ieri in edicola, quello nel quale Marco Santagata raccoglie indizi sparsi nei romanzi della scrittrice che si cela dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante per arrivare a formulare un’ipotesi sulla sua reale identità. Io non condivido: l’ho trovato interessante, ben costruito, ben scritto, ma soprattutto penso sia decisamente fuori luogo apparentarlo, come fa il mio amico, ai blitz di Striscialanotizia.
Decisamente fuori luogo anche il paragone col fotoreporter che viola la privacy di Salinger fotografandolo mentre fa la spesa al supermercato: esagerazione per esagerazione, sarebbe più corretto dire che l’articolo è un saggio di filologia che prova a dare attribuzione certa all’opera di un anonimo. Esagero, ripeto, ma è che ritengo pienamente legittimo che si indaghi sulla reale identità di chi pubblichi i suoi libri usando uno pseudonimo: direi che faccia parte del gioco cui è l’autore stesso ad aver dato il via.
Altra cosa che molestare chi pubblichi col proprio nome, ma intenda lasciare tutto il resto nel privato: qui è corretto denunciare l’intrusione, non nel caso di chi proprio sull’anonimato conta - può sembrare un paradosso, ma in tutta evidenza non lo è nel caso di Elena Ferrante - per dar enfasi alla qualità del prodotto, avvolgendolo nella fascinosa nube del mistero.
Qui però sarà il caso che confessi che a me i romanzi di Elena Ferrante fanno cagare, e che l’unico interesse che in me sollevano - peraltro assai blando - è proprio quello relativo alla reale identità di chi si nasconde dietro lo pseudonimo, sicché mi azzardo a dire che ho trovato più interessante l’articolo di Marco Santagata che le ultime pagine de L’amore molesto.
Non sono in grado di stabilire quanto il suo gioco al rimpiattino contribuisca ad esaltare il piacere della lettura in chi trova belli suoi mattoni, ma ritengo naturale che neanche lei abbia interesse a scoprirlo. Smettiamola dunque di immaginarcela importunata da insopportabili ficcanaso: la signora ne ha bisogno.
Decisamente fuori luogo anche il paragone col fotoreporter che viola la privacy di Salinger fotografandolo mentre fa la spesa al supermercato: esagerazione per esagerazione, sarebbe più corretto dire che l’articolo è un saggio di filologia che prova a dare attribuzione certa all’opera di un anonimo. Esagero, ripeto, ma è che ritengo pienamente legittimo che si indaghi sulla reale identità di chi pubblichi i suoi libri usando uno pseudonimo: direi che faccia parte del gioco cui è l’autore stesso ad aver dato il via.
Altra cosa che molestare chi pubblichi col proprio nome, ma intenda lasciare tutto il resto nel privato: qui è corretto denunciare l’intrusione, non nel caso di chi proprio sull’anonimato conta - può sembrare un paradosso, ma in tutta evidenza non lo è nel caso di Elena Ferrante - per dar enfasi alla qualità del prodotto, avvolgendolo nella fascinosa nube del mistero.
Qui però sarà il caso che confessi che a me i romanzi di Elena Ferrante fanno cagare, e che l’unico interesse che in me sollevano - peraltro assai blando - è proprio quello relativo alla reale identità di chi si nasconde dietro lo pseudonimo, sicché mi azzardo a dire che ho trovato più interessante l’articolo di Marco Santagata che le ultime pagine de L’amore molesto.
Non sono in grado di stabilire quanto il suo gioco al rimpiattino contribuisca ad esaltare il piacere della lettura in chi trova belli suoi mattoni, ma ritengo naturale che neanche lei abbia interesse a scoprirlo. Smettiamola dunque di immaginarcela importunata da insopportabili ficcanaso: la signora ne ha bisogno.
sabato 12 marzo 2016
Zompapérete
Contrariamente
a quel sembra suggerire l’immagine
evocata dal
termine, zompapérete
(più frequentemente usato al femminile: zompapéreta)
è
solo in senso figurato chi procede sobbalzando (zompando)
sulle proprie scoregge (pérete),
perché invece è il risultato della crasi di ’onna
(donna,
qui inteso al pari del don
preposto a un nome proprio maschile, come attributo di persona
autorevole o rappresentativa, secondo il largo uso che ancora residua
in gran parte dell’Italia
meridionale)
e di Péreta
(con
attribuzione al termine dell’antonomastico
per la donnetta sciocca e supponente, incarnata dal personaggio che
la tombola napoletana allega al numero 43 con l’immagine
di ’Onna
Péreta for’
’o
balcone,
la popolana che dispensa le sue presunte perle di saggezza al
vicinato e a chiunque le passi sotto casa).
Appena qualche settimana
fa, su queste pagine, abbiamo dedicato un fuggevole commento a un
tizio che dal suo balcone sentenziava che «i
fautori delle nozze gay e delle unioni civili sono animati dagli
stessi principi cardine che avevano spinto all’azione più o meno
sanguinaria i loro precursori
[i giacobini] che
al posto della bandiera arcobaleno sfoggiavano la coccarda tricolore»
(Il
Foglio,
28.1.2016). Pensavamo si trattasse di zompapérete
occasionale, ma già due giorni dopo, quando l’abbiamo
sentito dire che Lévi-Strauss ci avesse lasciato una «formidabile
arringa in favore della “famiglia naturale”» (Il
Foglio,
30.1.2016), a dispetto dell’esatto
contrario come siamo stati costretti a documentare, abbiamo avuto il sospetto che si trattasse di zompapérete
professionale. Oggi, la conferma.
Recensendo un «pamphlet»
(in realtà un sermone) di Jonathan Swift che le Edizioni Dehoniane
hanno da poco mandato in libreria, Antonio Gurrado dice che il
libriccino sarebbe il non
plus ultra
per «per
smontare chi fa sarcasmo su chiesa e cristianesimo» (Il
Foglio,
11.3.2016). Inutile correre a comprarlo, in lingua originale è
online già da
diversi anni:
si tratta di On
sleeping in church, lo trovate su gutenberg.org,
che
ospita l’opera
omnia
di Swift (Vol. IV).
«Finalmente
un pamphlet –
scrive Gurrado – in
cui vengono sbertucciati coloro che “con grande impegno e molto
sarcasmo si fanno una scorta di battute umoristiche” per esercitare
il disprezzo della fede e proclamare la propria superiorità
cerebrale a un mondo che altrimenti li ignorerebbe; finalmente lo
smascheramento di individui che “parlano in modo scortese e
irriverente” per celare di essere “così ottusi da non darci
altro che noiose ripetizioni e meschini, volgari luoghi comuni, così
triti, così logori, così banali”. Di costoro viene denunciata “la
rozza, evidente, inescusabile ignoranza degli stessi principii
fondamentali della religione”, curiosa a trovarsi “in persone che
attribuiscono tanto valore alla propria cultura” ma che in realtà
“imparano meccanicamente una serie di buffonate che possono essere
usate in tutte le occasioni”, “hanno un assortimento fisso di
sarcasmi e riescono a essere estremamente spiritosi servendosi sempre
degli stessi pretesti” per colpire il cristianesimo. Questi
sarcastici che si ritengono eccezionali e illuminati dovrebbero
apprendere che “chiunque è capace di immaginare un berretto da
buffone sulla testa dell’uomo più saggio, per poi ridere della
propria stessa trovata”.
In realtà, non è chiaro quali sarebbero gli argomenti coi quali
Swift annichilirebbe la «sbruffoneria
degli atei»,
anche perché afferma che, «of
all misbehaviour, none is comparable to that of those who come here
to sleep»,
a conferma del fatto che anche per lui, come per ogni pastore, il più
temibile nemico della fede non è l’ateismo
militante, ma l’indifferenza
che già ai suoi tempi serpeggiava nel gregge.
A parte occorrerebbe dire che un capolavoro come Gulliver’s travels e un gioiellino come A modest proposal sono di qualità molto al di sopra della media del corpo swiftiano, che per gran parte è grigio ciarpame nel quale non si trova molta traccia della straordinaria forza letteraria che la critica ha giustamente riconosciuto in quelle due opere dalla cifra estremamente originale, dalla scrittura eccezionalmente brillante, dalla vena sapidissima e arguta, dalla mirabile misura di paradosso e iperbole che ne è il tratto distintivo. Diremmo che di swiftiano Swift ha scritto solo Gulliver’s travels e A modest proposal, e che On sleeping in church può sembrare swiftiano solo a chi sappia che l’ha scritto Swift.
A parte occorrerebbe dire che un capolavoro come Gulliver’s travels e un gioiellino come A modest proposal sono di qualità molto al di sopra della media del corpo swiftiano, che per gran parte è grigio ciarpame nel quale non si trova molta traccia della straordinaria forza letteraria che la critica ha giustamente riconosciuto in quelle due opere dalla cifra estremamente originale, dalla scrittura eccezionalmente brillante, dalla vena sapidissima e arguta, dalla mirabile misura di paradosso e iperbole che ne è il tratto distintivo. Diremmo che di swiftiano Swift ha scritto solo Gulliver’s travels e A modest proposal, e che On sleeping in church può sembrare swiftiano solo a chi sappia che l’ha scritto Swift.
In definitiva,
sembrerebbe che anche con Swift, come già con Lévi-Strauss, Gurrado abbia il vizietto di attribuire ad un autore quanto presume di poter leggere in quello che in questo caso definisce «livello
esoterico»,
e che in realtà sarebbe il piano sul quale gli sembra legittimo
conferirgli intenzioni né dichiarate né in altro modo rese
esplicite, fino a distorcerne, come abbiamo visto nel caso di
Lévi-Strauss, addirittura il contenuto: pérete, diremmo, che gli fanno correre il rischio di zompare giù dal balcone.
giovedì 10 marzo 2016
Er Porchetta
Come ai craxiani preferivo Craxi, e i craxiani più fanatici, mossi da un craxismo quasi mistico, agli scaltri opportunisti dalla fredda e calcolata fedeltà a scadenza, sotto la quale costruivano una reputazione di craxiani per necessità storica, così preferisco Renzi ai renziani, e i renziani più ottusi, quelli che gli hanno venduto tutto il sangue e i due etti di cervello che si ritrovavano, a un tizio come Giachetti. Niente di personale, è una scelta - scusate la parola grossa - esistenziale: al furbetto bravo a cucirsi addosso la pelle del simpatico a tutti, che salta da una fedeltà all’altra lasciandosi dietro una tiepida scia di sorrisi, preferisco l’uomo di merda fiero di esserlo, il fetente buono per una sola stagione, capace di bruciarsi per poi rinascere dalle sue ceneri. Preferisco l’arrosto andato in fumo al paziente uomo di mondo che sa procurarsi quella deliziosa crosticina da porchetta rosolata a puntino, con le spezie giuste aggiunte al momento giusto.
mercoledì 9 marzo 2016
[...]
Solo
chi è in malafede può negare la gravità di quanto è stato
ampiamente e incontestabilmente documentato da Fanpage, ma per
affermare che il risultato delle Primarie tenutesi a Napoli debba
comunque ritenersi fuori discussione non basta la malafede: occorre
una robusta faccia tosta per negare l’evidenza
e un
fiero disprezzo per le più elementari regole democratiche, doti che
non difettano agli sgherri di Matteo Renzi, nelle cui dichiarazioni a
commento del ricorso presentato da Antonio Bassolino riverbera
l’arroganza
di chi si sente padrone del Pd e non tollera che si sollevino
obiezioni sull’esito
di un voto che era proprio quello desiderato: a Valeria Valente
saranno andati i voti di cosentiniani, di cuffariani, di poveracci
che non ne conoscevano neppure il nome prima che li si portasse ai
seggi mettendogli un euro in mano, ma quel che importa è che abbia vinto, non importa come, perché era la candidata gradita a Matteo Renzi.
Lo scarto di voti che le ha dato la vittoria su Antonio Bassolino è
così esiguo da porre seri dubbi sulla validità del risultato? Non
importa, dice Matteo Orfini.
Fa
niente, gli fa eco Lorenzo Guerini. E in due non fanno un grammo di
pudore.
martedì 8 marzo 2016
Non c’è teoria, non c’è modello
La
psicologia sociale piscia come un colabrodo, però, detto così, il
concetto suona male. Diciamo, allora, che per la natura stessa del
sociale, prodotto
di fattori molto spesso assai difficilmente quantificabili e quasi
sempre solo assai approssimativamente qualificabili, sembrerebbe
ampiamente
giustificato lo scetticismo sull’efficacia
del metodo scientifico applicato allo studio dei suoi svariati
ambiti, e in primo luogo di quelli in cui il sociale si offre come
oggetto di ricerca psicologica, dove i risultati, quand’anche
consentano la costruzione di modelli spesso assai suggestivi, di
regola non rispondono ai requisiti di oggettività, affidabilità,
verificabilità, condivisibilità e predittività, sui quali
comunemente si misura il metodo scientifico, tutt’al
più rispondendo a quello di inficiabilità (termine che ritengo sia
da preferire a quello di falsicabilità, la popperiana
Fälschungsmöglichkeit,
che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti), se non fosse che
è questione ancora aperta se sia scienza solo ciò che
permanentemente inficiabile (Karl Popper, Logik
der Forschung,
1934) o ciò che di un modello riesce a fare un solido paradigma
(Thomas Kuhn, The structure of scientific revolutions,
1962).
Così, forse, suona meglio, resta di fatto che, nonostante
Gustave
Le Bon (Psychologie
des foules,
1895), Gabriel
Tarde (L’opinion
et la foule,
1901), Floyd
Allport (Social
psychology,
1924), Theodore Newcomb (Personality
and social change,
1943), Solomon Asch (Social
psychology,
1952) e Stanley Milgram (Obedience
to authority,
1974), sul conformismo la psicologia sociale piscia come un
colabrodo: ne sappiamo tutto, tranne come si realizza. Sappiamo cosa
ne causa la propensione, cosa ne regge la tensione, cosa ne induce la
precipitazione, cosa ne favorisce la diffusione, cosa ne rende
possibile la cristallizzazione, tanto per riprendere lo schema
proposto da Neil Smelser (Theory
of collective behavior,
1963), ma non abbiamo alcun modello scientificamente valido per
rappresentarcene il divenire, solo profili che potremmo dire
letterari (in fondo pure il caso clinico e la storiografia sono
generi letterari), che per lo più ricalcano il ritratto
dell’individuo
o la
descrizione
della
massa affetti da pulsione gregaria (Sigmund Freud, Psicologia
delle masse e analisi dell’Io,
1921). È così che del conformismo sappiamo cause ed effetti, forme
e modi, ma poco più di niente sappiamo sul come si realizza. Per
meglio dire, ci manca una teoria del suo sviluppo: a fronte di
innumerevoli esperienze individuali e collettive che per
emblematicità ci illudono di poterne ricavare una, ci manca.
Così,
guardando Barbara D’Urso
che intervista Matteo Renzi, si ha l’impressione
di poterne costruire un idealtipo – «il
conformismo
– ci si azzarda a dire – si
realizza come resa per sfinimento della capacità critica»
– ma subito si è costretti a una rettifica – «il
conformismo
– ci si corregge – si
realizza come voluttà di resa»
– ma pure così non si va più in là dell’empirico:
ad ogni applauso il mostro cresce, ma su ciò che accade sotto le
file di scaglie che scivolano l’una
sull’altra
distendendosi a ventaglio – su ciò che ingrossa questa ributtante
bestia che ciclicamente esce dalla preistoria per esigere il tributo
che ciclicamente la storia gli elargisce – non c’è
teoria, non c’è
modello.
lunedì 7 marzo 2016
[...]
Da
oltre un secolo sappiamo che solo in un ambito relativamente
ristretto possiamo permetterci di continuare a fare un uso della
rappresentazione del tempo come quella classica, valida in assoluto,
in ogni punto dell’universo e lungo tutto il suo divenire: basta
provare a uscire da quest’ambito, conservando del tempo l’idea
che continua a funzionare alla perfezione quando vi si è dentro, per
constatare quanto sia inappropriato ritenere, ad esempio, che la sua
continuità sia omogenea: il tempo smette di essere un’entità
autonoma, si dilata o si contrae in relazione agli stati della
materia, per la quale, fuori dall’ambito relativamente ristretto
dal quale tuttavia non ci è indispensabile esorbitare, vale quanto
abbiamo detto per il tempo: la materia non è quello che ci appare:
come provano a spiegarci i divulgatori scientifici nel loro eroico
tentativo di aprirci al contro-intuitivo, «è fatta di onde».
Perché
possiamo permetterci di non aggiornare i concetti di tempo e di
materia? Perché la nostra vita può tranquillamente eludere la
realtà sub-atomica e quella extra-galattica, restando nell’ambito
relativamente ristretto in cui le leggi della fisica classica
continuano a funzionare come sempre. In generale: per evitare la
fatica di aggiornare un concetto, dobbiamo accontentarci di limitarne
l’uso ad un ambito che però la
conoscenza tende a restringere sempre di più. Volendo, potremmo
tranquillamente riadottare il sistema tolemaico, ma a patto di non
tentare viaggi interplanetari, necessariamente destinati al
fallimento rinunciando a programmarne le rotte sulla base di quanto è
implicito nel sistema copernicano. In definitiva, possiamo concludere
in questo modo: solo l’ignoranza
può rendere inscalfibile un concetto.
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