Capisce
di aver sbagliato, ma figuriamoci se può permettersi di ammetterlo,
e allora cerca di cambiare le carte in tavola: «Personalizzare
lo scontro non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del No» (*).
Con la faccia di culo che si ritrova, vedrete, non avrà alcuna
difficoltà a fare anche di più: se i sondaggi metteranno male, finirà col dire che, per evitare
che il referendum di ottobre si trasformi in un plebiscito sulla
sua persona, è disposto a fare un sacrificio, a tornare indietro sui
suoi passi: se la sua riforma costituzionale sarà bocciata, non
lascerà Palazzo Chigi, non lascerà la segreteria del Pd, non
lascerà la politica. Pressappoco dirà: «Avevo detto che ci mettevo
la faccia e che in caso di sconfitta ne avrei tratto le dovute
conseguenze, me ne sarei andato a casa, ma con amarezza sono
costretto a prendere atto che un’assunzione
di responsabilità è
stata volgarmente strumentalizzata dai miei avversari, dunque,
comunque vada, resto. Però sono sicuro di stravincere, anzi, pardon,
sono sicuro che stravincerà l’Italia
che vuol cambiare». E allora il referendum lo vincerà davvero.
Povia sarà un mentecatto, ma ha ragione: era meglio Berlusconi.
lunedì 16 maggio 2016
La maschera è caduta
Oltre
a quella torva, che è la più nota, c’è
una forma bonaria della velleità totalitaria, tanto bonaria che del totalitarismo mostra solo l’anelito, peraltro mitigato in aspirazione alla concordia, alla convergenza, alla grande intesa. Qui, l’annientamento
degli avversari è perseguita per assorbimento, previa aggregazione dichiarata indispensabile a fronte di cogenti istanze
emergenziali, non importa quanto reali o fittizie, in vista di
quell’unità
nazionale che è l’eufemismo dell’equivalenza
tra nazione, stato e partito.
Sotto diverse maschere, la via italiana
al socialismo del Pci ebbe proprio questa forma, e perciò sembrò sempre avere un volto umano: con Togliatti,
prima, con Berlinguer, dopo, ma anche con Occhetto, con D’Alema,
con Veltroni, con Bersani, quando dunque il Pci già aveva cambiato
pelle, e in quella prendeva a cambiare il resto, l’obiettivo
rimaneva quello di aggregare, per assorbirle, le tradizioni politiche
che avevano dato vita – sorvoliamo con quale risultato – alla Dc e al Psi: quella della dottrina sociale della Chiesa e quella del riformismo. Obiettivo che col Pd possiamo
dire sia parzialmente riuscito nel metodo, ma completamente fallito
nel merito, visto che, a otto anni dalla sua fondazione, il partito –
mi auguro che in quanto sto per affermare si sappia leggere l’ellissi
– è assai più democristiano che comunista, assai più craxiano che amendoliano o ingraiano.
Nulla di scandaloso,
quindi, nel fatto che i pochi sopravvissuti della vecchia dirigenza
del Pci di Togliatti e di Berlinguer siano tutti renziani: nel merito
non ha importanza quale sia il risultato, sta di fatto che Renzi
sembra dare successo al metodo, e allora si capisce perché
Napolitano lo coccoli, si capisce perché, dopo il risultato riscosso
alle Europee, Reichlin lo abbia designato a segretario di un Partito
della Nazione (l’Unità,
29.5.2014). E tuttavia il golem plasmato con tanto amore sembra
rischiare la stessa fine di quello creato da rabbi Yehudah Loew ben Bezalel:
di energia ne ha tanta, ma non sa controllarla a dovere, dando cenno
a pericolose pulsioni autodistruttive.
Si può comprendere, allora, l’angustia
di Napolitano: «Renzi
non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale [al
referendum di ottobre]»
(Corriere
della Sera,
3.5.2016). Si può comprendere la preoccupazione di Reichlin, che
oggi, in una lettera indirizzata a Mario Calabresi, scrive: «Non
mi piace il modo come si sta discutendo della riforma
costituzionale... Io
non voglio una crisi di governo al buio... Considero una sciagura
questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti
contrapposti...» (la
Repubblica,
16.5.2016). C’è
da capirlo: ha più di 90 anni, più di 70 ne ha spesi sognando il megapartitone dell’unità nazionale e, ora che la creatura ha preso forma, la vede messa a repentaglio dal suo mostrare la vera faccia, tutt’altro che bonaria.
«La
“rottamazione” era in una certa misura necessaria – scrive – ma si è
creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo
di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo”
né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le
condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un
nuovo compromesso sociale». Troppo tardi, forse. La maschera è caduta. Dietro il Partito della Nazione si è scorto il partito-stato, l’indomita tentazione di trasformare il consenso in egemonia.
domenica 15 maggio 2016
«Invertire la tendenza»
Sul
rapporto tra sviluppo economico e crescita demografica si è detto di
tutto e il contrario di tutto, ma è fuor di dubbio che da almeno un
secolo a questa parte continuino a nascere più bambini proprio dove
più si muore di fame; fuor di dubbio è che nei paesi a più alto
reddito pro capite siano proprio le famiglie più povere ad avere il
maggior numero di figli; fuor di dubbio è che il calo della natalità
sia un dato costante in tutti i paesi economicamente emergenti, che
da sommersi figliavano assai più.
Troppo poco per affermare che lo
sviluppo economico deprima la crescita demografica, troppo
poco perfino per mettere definitivamente a tacere chi vorrebbe sia indiscutibile che invece la stimoli, ma pensare che un bonus di 160 euro per
il primo figlio, e di 240 per il secondo, possa «invertire la
tendenza» del calo della natalità, costante ormai da decenni
qui in Italia, non è follia? Cifre che a stento coprono la spesa per
quattro mesi di pannolini, ma Beatrice Lorenzin è convinta che
«rappresentino un sostegno serio»
a scongiurare quella che definisce «un’apocalisse»
(la
Repubblica, 15.5.2016).
Degna rappresentante di questo governo, non a caso 160 e 240 sono
multipli di 80, il numero magico col quale Matteo Renzi è solito
ipnotizzare i polli.
Aggiornamento Pare non se ne faccia nulla, non c’è copertura finanziaria per scongiurare l’apocalisse.
Aggiornamento Pare non se ne faccia nulla, non c’è copertura finanziaria per scongiurare l’apocalisse.
sabato 14 maggio 2016
Due domande
Con
lo stralcio della stepchild adoption dal ddl Cirinnà, l’11
maggio 2016 è giunta a definita approvazione del Parlamento una
legge che, pur non contemplando per uno dei due
partner di un’unione civile la possibilità di adottare il figlio dell’altro,
specifica che, riguardo a tale eventualità, «resta
fermo quanto previsto e consentito in materia di adozioni dalle norme
vigenti»
(art.
3).
Il rimando è alla legge n. 184 del 4 maggio 1983, che, al
co. 1 dell’art.
7, dice che «l’adozione
è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di
adottabilità»,
rimandando ai seguenti (artt.
8-21),
per chiarire quali siano i casi in cui un minore possa essere
considerato adottabile. Il co. 1 dell’art.
44 della stessa legge dice che comunque «i
minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le
condizioni di cui al co. 1 dell’art.
7»:
possono essere adottati, ad esempio, «dal
coniuge, nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo
dell’altro
coniuge»,
ma anche «da
persone unite al minore da preesistente rapporto stabile e duraturo»,
con esplicita specifica che «l’adozione
è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato».
Ora, l’art.
12 delle Preleggi dice che «nell’applicare
la legge
non
si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e
dalla intenzione del legislatore».
In tal senso, la legge n.
184 del 4 maggio 1983 non si presta ad ambiguità interpretative di
sorta: un’unione
civile è condizione entro la quale il figlio di uno dei due partner
è adottabile dall’altro.
Né si presta a dubbio alcuno l’intenzione
del legislatore nel rimando ad essa, che è contenuto nel testo della
legge che regola le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Ciò
premesso, siano consentite due domande:
(1) dove sarebbe la
«creatività»
di una sentenza che consente a un minore
di essere adottato dal partner del proprio genitore?
(2) quanta cacca
c’è
nella testa di chi afferma che «in
tema di stepchild adoption fino a oggi la giurisprudenza ha dato
delle interpretazioni creative»?
venerdì 13 maggio 2016
«Ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo»
Sempre
più spesso mi capita di ritenere superfluo spendere un commento su
quanto dichiarato da questo o quel protagonista della vita pubblica,
con prontezza diffuso dai canali di informazione, per essere
immediatamente fatto oggetto di ampia discussione in ogni sede. Sia
chiaro che per commento intendo un’opinione
adeguatamente argomentata, perché la sensazione che il virgolettato
attribuito a Caio o a Tizio non meriti la fatica, e che al più valga
la pena di porre ogni attenzione solo alle ragioni che gli procurano
adesione o dissenso, può ben lasciare spazio almeno a una battuta, che proprio nella sua estemporaneità esprime il rigetto di una problematicità tutta fittizia.
Non sempre, ma quasi sempre, accade perché, a dispetto del rilievo
che sembrerebbero meritare, si tratta di affermazioni
fatte senza altro scopo che ottenere quella visibilità che –
insieme – nutre e divora il personaggio pubblico, senza risparmiare chi
aspira ad esserlo agganciandosi al bandwagon dei like e dei dislike. Semplificando, direi che si possano distinguerne
due tipi, secondo il genere di visibilità che si ripromettono di
riscuotere: ci sono le affermazioni provocatorie, paradossali,
iperboliche, che spesso sembrano voler squarciare il velo
dell’ipocrisia
o del conformismo con quelle che sono offerte – ma sarebbe più
corretto dire somministrate – come verità che pretendono di essere
inconfutabili per il solo fatto di essere sgradevoli o irritanti;
e quelle che si limitano a enfatizzare, cercando di renderli solenni o
appassionati, concetti di una
banalità disarmante, spesso racchiusi in frasi fatte, perfino in
idiomatismi d’accatto.
In entrambi i casi, a dispetto dell’effetto
che possono comunque riuscire ad ottenere perfino in chi abbia una
capacità critica adeguatamente sorvegliata, anche
una sbrigativa analisi è in grado di rivelarle invalide sul piano
della logica proposizionale, quasi sempre per tautologia o per
paralogismo.
Di
questo genere mi pare sia una frase come «ho giurato sulla
Costituzione, non sul Vangelo», che volentieri avrei evitato di
commentare su queste pagine, se non fosse che da quando è stata
pronunciata da Matteo Renzi (e non era la prima volta, perché era già accaduto nel 2011, nel 2013, nel 2014 e a febbraio di quest’anno)
sono stato raggiunto da numerosi inviti a farlo, in due o tre casi addirittura pressanti. Inviti nei quali,
pur con segno diverso, ho letto il retropensiero di chi da un
mangiapreti come il sottoscritto pretende un riconoscimento di
merito, come atto dovuto, in favore di un uomo politico da me
pesantemente maltrattato in numerose occasioni, ma qui – mi si dice
– indubitabilmente splendido campione di laicità.
E
allora comincerò col dire che aver
«giurato sulla Costituzione» non impedirebbe affatto a un
Presidente del Consiglio di poter ritenere non utile, né necessaria,
tanto meno indispensabile, anzi inopportuna o addirittura dannosa,
una legge che riconosca le unioni civili tra persone dello stesso
sesso. Proprio facendo appello alla Costituzione (art. 81), infatti,
e rinunciando a ogni altro argomento di natura etica o di stampo
confessionale, si potrebbe essere contrari alla sua approvazione,
ritenendo che comporti «nuovi oneri» (si parla di qualche centinaia
di milioni di euro) senza essere stata in grado di contemplare i
«mezzi per farvi fronte» (l’articolato
in merito li quantifica a meno di un decimo di quanto sarebbe
realmente necessario).
Di
converso: aver «giurato sul
Vangelo», impedirebbe a un Presidente del Consiglio di essere a
favore di una tal legge? Lasciamo stare il Vecchio Testamento, gli
Atti degli Apostoli e le Lettere di Paolo, lasciamo stare la dottrina
cattolica, le linee pastorali della Cei, che qui non sono chiamate
formalmente in discussione: in quale punto dei Vangeli si legge
esplicita condanna delle unioni tra persone dello stesso sesso? E
forse non esistono paesi – il caso principe è quello degli Stati
Uniti d’America
– nei quali chi al momento dell’insediamento
ai vertici degli organi più alti del governo locale o federale ha
giurato sulla Bibbia senza per questo sentire contraddizione
nell’esprimersi
in favore del matrimonio gay?
Via,
guardiamo ai fatti: è da tempo che in Italia non c’è
più un partito che raccolga la stragrande maggioranza di chi sente
appartenente al mondo cattolico; l’attuale
pontificato ha imposto alla Cei di abbandonare la politica ruiniana,
lasciando la difesa dei cosiddetti principi non negoziabili a frange
ormai minoritarie di tradizionalisti; nei confronti dei diritti
rivendicati dal movimento Lgbt l’opinione
pubblica ha mutato notevolmente il suo atteggiamento; rapidamente
mutato, è necessario aggiungere, se si pensa al fatto che Matteo
Renzi era fra i partecipanti al Family Day del 2007, a sostenere
ragioni che oggi, evidentemente, ritiene superate.
Concedo sia
possibile un’obiezione:
una genuina laicità è dimostrata proprio dall’essere
capace di avere, da Presidente del Consiglio, un’opinione
diversa da quella di un comune cittadino cattolico, recependo le
istanze di chi non intende essere prono ai veti della Chiesa di Roma.
È obiezione debole, perché Matteo Renzi, nel 2007, non era un
comune cittadino, ma Presidente di Provincia, e in più,
in opposizione a una legge che riconoscesse le unioni civili tra
persone dello stesso sesso, sosteneva che Governo e Parlamento
stessero commettendo «un
errore gravissimo»
a non cogliere «il
fatto storico di un milione di persone in piazza»:
è evidente che, da membro del Governo o del Parlamento, la sua
posizione sarebbe stata opposta a quella odierna. Ammesso e non
concesso che la sua affermazione odierna basti a dar prova certa di
una genuina laicità, deve trattarsi di acquisizione assai recente,
che, nell’impossibilità
di una controprova, è legittimo sospettare sia tutta funzionale a
raccogliere le simpatie di un’opinione
pubblica che nel 2007 non era favorevole, come invece lo è oggi, a
una legge come quella varata l’altrieri.
Non è un caso, infatti, che lo stralcio della stepchild adoption sia
seguita alla diffusione di sondaggi che la segnalavano come questione
assai controversa.
Mi
pare di poter concludere dicendo che siamo all’ennesima
prova di quel cinismo e di quell’opportunismo
che nei demagoghi del «populismo dall’alto»
mettono i sensori del vento che tira a servizio del consolidamento di
un potere personale necessariamente disintermediato. E aggiungerei
che proprio la scelta di una frase come «ho
giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo» ne riveli il tratto più
spregiudicato. Non a sorpresa di avere un laico come Presidente del
Consiglio, ma a conferma di avere un uomo di merda come aspirante a
dittatorello.
giovedì 12 maggio 2016
[...]
Meno
l’individuo ha strumenti di autocoscienza e di autodeterminazione,
più la persona, che ne è la maschera di scena, ha bisogno di darsi
cifra identitaria (etnica, religiosa, sessuale, ecc.). È questo che
impone (in-pone) una fascia elastica di color rosa, eventualmente
fucsia, con un bel fiocco sopra, alla neonata che viene alla luce
senza troppi capelli: deve essere evidente che sia femmina, anche se
poi era tanto atteso un maschio. Dov’è l’identità sessuale ad
essere chiamata come strumento più sicuro per dare saldi punti di
riferimenti nella selva relazionale, l’individuo è giocoforza
chiamato a esplicitarla con ampio anticipo rispetto alla sequela
degli eventi che le conferiscono la maturità anatomica e funzionale, fino al punto che spesso anche questa è chiamata ad anticiparsi (non a
caso il menarca è anticipato nella favela brasiliana rispetto al
collegio svizzero). Stessa cosa accade quando all’individuo
è imposta la cifra identitaria religiosa: sarà fin da bambino che a
ogni Ashura il coltello inciderà il suo cuoio capelluto.
Questo
avrebbe dovuto dire Corrado Augias, invece di mantenersi in quel vago
che lo ha portato ad essere frainteso fino ad essere ingiustamente
accusato di aver voluto insinuare che le violenze e la morte subite
dalla piccola Fortuna Loffredo fossero dovute all’averla
abbigliata a 6 anni da signorinella di 16 o 18: la sua osservazione
non era affatto stupida, ma l’ha
argomentata malissimo. Poi, ha fatto di peggio: alle critiche
piovutegli addosso (più che altro, alla minaccia di querela) ha
ritrattato, ha chiesto scusa, e anche qui con un pessimo argomento:
ha detto gli dispiaceva aver ferito la sensibilità dei genitori
della bambina, ha detto che la sua osservazione
era d’un uomo d’altri tempi, quelli in cui i bambini erano
vestiti da bambini. E nel salottino di Fabio Fazio si è beccato applausi prima e dopo. Brutta pagina. Bruttissima.
martedì 10 maggio 2016
La seconda volta come farsa
«Hegel
nota in un passo delle sue opere
che
tutti i grandi fatti e i grandi personaggi
della
storia universale si presentano
per,
così dire, due volte. Ha dimenticato
di
aggiungere: la
prima volta come tragedia,
la
seconda volta come farsa»
Karl
Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte
Uomo
di Sinistra, il Depretis. È con la nascita del suo V governo, il 19
maggio 1883, che il trasformismo diventa esplicito programma
politico. Senza scrupoli di sorta, perché il termine non ha
acquistato ancora l’accezione
negativa che acquisterà dopo, molto dopo (al momento è solo
quell’anima
bella di De Sanctis a storcere il muso), ed è sinonimo di
evoluzione, «la
legge generale delle cose viventi»,
come dirà il Minghetti, uomo di Destra, per dichiararsi – potenza
dell’eufemismo
– disponibile a discuterne.
Il trasformismo non è il cambio di
casacca: a trasformarsi devono essere i partiti, perché Destra e
Sinistra sembrano categorie superate, per giunta logoranti. Ad essere
logorata, in realtà, è solo la Sinistra, e Depretis cerca di darle
una base più solida in Parlamento, in nome di qualcosa che unisca
gli eletti di là dalle ideologie. Il bene comune? Senza dubbio, ma
cosa è comune agli uomini dei fin lì opposti schieramenti?
«In
buona coscienza fanno prima di tutto e soprattutto gli interessi loro
propri, dei parenti, dei congiunti, degli amici, dei protetti,
facendovi entrare, quando si possa senza proprio incomodo, anche
quelli del pubblico»: qualunquista ante litteram, padre Carlo Maria
Curci, ma, nel concedere che «Destri e Sinistri si dividevano e si
dividono ancora così per i riguardi personali, per divergenze in
particolari opinioni, ma quanto al principio generale l’uno vale
sostanzialmente l’altro», ammette che il programma di Depretis
abbia una solidità di fatto nell’evidenza
che ormai Destra e Sinistra sono termini «arcaici». Sbarazziamoci
delle ideologie, si faccia largo a un sano pragmatismo che porti a
confluire tutti gli uomini di buona volontà e di solido appetito in
un bel Partito della Nazione.
Vabbè, qui sono andato un po’
oltre, perché Depretis e Minghetti non si azzardarono a immaginare
di poter far confluire Sinistra e Destra in un partito unico. Uomini
dell’Ottocento,
c’è
da capire.
Dovendo sbarazzarsi delle ideologie per poter meglio
conciliare i traffici e le spartizioni, era necessario liberarsi
degli abiti che si erano indossati fino ad allora per officiare ai
riti dello scontro tra chi era al governo e chi all’opposizione.
L’appartenenza
ad una tradizione culturale diventava d’impaccio
e chi ne coltivava il culto – si noti dal bisticcio che occupazione
stronza – diventava un solenne rompicoglione, un idealista del
cazzo, un seccante brontolone.
Quel gufo del Carducci, per esempio:
«A questa nazione, giovine di ieri e vecchia di trenta secoli, manca
del tutto l’idealità...
Uomini e partiti non hanno idee, o per idee si spacciano affocamenti
di piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli
vantaggi: dove si baratta per genio l’abilità,
e per abilità qualche cosa di peggio; dove tromba di legalità e
alfiere dell’autorità
è la vergogna sgattaiolante tra articolo e articolo del codice
penale». Peggio di uno Zagrebelsky,
via, quasi un Davigo.
Per fortuna non mancò chi seppe dare una copertura culturale all’operazione. Provate a indovinare. Bravi, fu quella merdaccia di Benedetto Croce: non importa se il politico sia onesto o meno, l’importante che è sia bravo. Bravo a che? Che domande, bravo a far politica, che è scienza dell’utile. Utile a chi? Basta con le domande, ché Sua Eccellenza ha cose più importanti a cui pensare, ha da scrivere un saggio sulla poesia barocca e non può perdere tempo a battibeccare sui social. Date tempo al tempo, aspettate che tutto questo schifo diventi fascismo e vi concederà di venerarlo come iconetta dell’antifascismo. Riempitelo di like, ché ci tiene tanto.
Per fortuna non mancò chi seppe dare una copertura culturale all’operazione. Provate a indovinare. Bravi, fu quella merdaccia di Benedetto Croce: non importa se il politico sia onesto o meno, l’importante che è sia bravo. Bravo a che? Che domande, bravo a far politica, che è scienza dell’utile. Utile a chi? Basta con le domande, ché Sua Eccellenza ha cose più importanti a cui pensare, ha da scrivere un saggio sulla poesia barocca e non può perdere tempo a battibeccare sui social. Date tempo al tempo, aspettate che tutto questo schifo diventi fascismo e vi concederà di venerarlo come iconetta dell’antifascismo. Riempitelo di like, ché ci tiene tanto.
lunedì 9 maggio 2016
[...]
C’è
da supporre che, se ci fosse stato il quadrumane, il posto a tavola
sarebbe costato duemila euro; di Matteo Renzi, invece, c’era
solo il braccio destro, quello addetto ai lavori sporchi, e la cena
ne costava solo cinquecento. Chi c’era
dice che Luca Lotti è stato perentorio: «Matteo è disposto a
perdere anche Roma, ma Napoli deve essere nostra». A questo – dice
chi c’era
– la sguessa della Valente è parsa ancora più volitiva, tanto che
di profilo non aveva nulla da invidiare alla prua di Mascalzone
Latino. Sul volto dei verdiniani e dei cosentiniani – dice – è
passata una rapida espressione di commozione per tanta fiducia
accordata loro, ma da uomini tutto d’un
pezzo l’hanno
subito affogata in battutacce indirizzate a Bassolino, fra le quali
la più divertente è risultata quella in rima con bucchino. Uommene
scic e femmene pittate, il Vesuvio guardava, ma molto strafottente.
Frasi che costeranno care / 2
Dell’intervista
che ieri sera Matteo Renzi ha concesso a Fabio Fazio (Che
tempo che fa – Raitre,
8.5.2016) stamane ogni quotidiano ha dato il resoconto con scrupolosa
analisi in dettaglio, ma nessuno sembra aver trovato alcunché da
ridire su un passaggio che a me pare contenga un’affermazione
estremamente grave, e mi riferisco a quella che fotografa una
patologia ormai cronica nel nostro sistema politico, quella che ha
trasformato il governare nelle
leggi, e cioè nell’ambito
delle leggi, nel governare mediante
le leggi, che poi è un modo di sottrarsi al loro controllo (cfr.
Giovanni Sartori, Democrazia:
cosa è, Rizzoli 2006). Con la
consueta aria da gradasso, il Sommo Cretino ha sparato: «Io
dico: “Cari giudici, fate il vostro lavoro, io faccio il mio: io
devo fare le leggi, voi dovete applicarle”».
Tu devi fare le leggi? E allora il Parlamento a che serve? Domanda retorica: serve solo a convertire in legge i decreti del Governo, tutti coperti dalla foglia di fico dell’urgenza. Come non dargli l’opportuna delega, al Governo, quando si è dei semplici cooptati dalle segreterie dei partiti che lo sostengono? Fanculo alla separazione dei poteri: esecutivo e legislativo possono ben stare in capo a una sola persona, meglio se poi cumula le cariche di Presidente del Consiglio e di Segretario del partito di maggioranza relativa, che l’apposita legge elettorale trasformerà in assoluta. Perché tutto proceda in modo snello, togliamo l’intoppo di una seconda Camera, e poi che manca? Ah, sì, manca che al Quirinale ci sia un Mattarella e al Csm un Legnini: presto, portate una corona d’alloro, ché il gradasso la pretende.
Tu devi fare le leggi? E allora il Parlamento a che serve? Domanda retorica: serve solo a convertire in legge i decreti del Governo, tutti coperti dalla foglia di fico dell’urgenza. Come non dargli l’opportuna delega, al Governo, quando si è dei semplici cooptati dalle segreterie dei partiti che lo sostengono? Fanculo alla separazione dei poteri: esecutivo e legislativo possono ben stare in capo a una sola persona, meglio se poi cumula le cariche di Presidente del Consiglio e di Segretario del partito di maggioranza relativa, che l’apposita legge elettorale trasformerà in assoluta. Perché tutto proceda in modo snello, togliamo l’intoppo di una seconda Camera, e poi che manca? Ah, sì, manca che al Quirinale ci sia un Mattarella e al Csm un Legnini: presto, portate una corona d’alloro, ché il gradasso la pretende.
Frasi che costeranno care / 1
Quando Renzi ripete che andrà a casa in caso di sconfitta al referendum che si terrà ad ottobre, è chiara la consegna ai suoi: ogni mezzuccio è lecito per incassare il risultato, sennò tutti si torna ad essere insignificanti merdine, proprio come si era prima. Comprensibile che a dare il meglio debba essere la Maria Elena, che a toglierle la poltrona di sotto tornerebbe buona solo per qualche comparsata in discoteca, come spetta di diritto a chi ha partecipato a una edizione del Grande Fratello. E allora eccola: «Chi
voterà no alla riforma costituzionale si metterà sullo stesso piano
di Casapound». Frase da appuntare, per quando ci sarà da pagare il conto.
Come fosse il Leicester, si fa per dire
Non
c’è
una Chirico, non c’è
un Manconi, non c’è
un Cerasa, non c’è
un Bordin, non c’è
neppure un Rondolino, un Facci, un Taradash che spenda una parolina
per il poveretto – si fa per dire – accusato di aver gettato
dall’ottavo
piano di un palazzone di Caivano una bambina di sei anni dopo averla
stuprata. I disegni della vittima, le testimonianze di alcune sue
amichette, qualche intercettazione telefonica: tutta roba che un
garantista di quelli in servizio permanente non avrebbe alcuna
difficoltà a ridurre al classico pugno di mosche, per passare subito
ad accusare gli inquirenti.
E invece niente, non c’è
uno straccio di giornale che ci provi, neppure Il Foglio, che di
solito non lascia mai un fetente senza assistenza legale, e più
fetente è, più l’assistenza
è generosa, perfino temeraria. Zero, nessuno ci rammenta che il
poveretto – si fa per dire – è da considerare innocente fino a
condanna definitiva, eventualmente pure dopo: nessuno, in questo
caso, a difendere il principio. Neppure per lucrare un po’
di quell’attenzione
che non si nega mai a chi difende il principio a dispetto di tutto.
Neppure per una scommessa di quelle sul Leichester, metti caso saltasse fuori che il colpevole è un altro.
Sarà che in
questo caso il reato è davvero abominevole. Sarà che l’impianto
accusatorio è più solido che in altri casi. Sarà che il poveretto
– si fa per dire – ha dei precedenti. (Pardon, come non detto, per
un vero garantista i precedenti tornano a favore dell’accusato.) E però il poveretto – si fa per dire – piange in carcere, e si
dichiara innocente, e in sostanza lo è davvero, perché non è stato
condannato neanche in primo grado per il reato che gli è contestato.
Non è un politico, non è un imprenditore, capisco, ma è possibile
non ci sia un cane a prenderne le difese?
Io? Neanche a pensarci, e
poi può darsi che sia vero quel che si mormora, può darsi che, a
forza di leggere Kant prima di andare a letto, io sia diventato un
giustizialista. No, io non mi azzardo. Aspetto che per il presunto –
solo presunto – assassino della piccola Fortuna qualcuno spenda
almeno la metà della metà della metà di quanto spende per Uggetti
o Cosentino. Ci conto. Come fosse il Leicester.
sabato 7 maggio 2016
«Mi basta accavallare le gambe»
Ho
letto molti commenti all’intervista
che Piergiorgio Morosini ha concesso ad Annalisa Chirico (Il
Foglio, 5.5.2016), ma in nessuno mi è parso sia stato dato il
dovuto peso alla cornice. Ci si è soffermati a considerare se una
chiacchierata informale possa considerarsi intervista, se sia stato
corretto titolarla con un virgolettato non contenuto nel testo, se le
frasi attribuite al magistrato rispettino fedelmente quel che ha
veramente detto: questioni d’un
certo interesse, non voglio sottovalutarne il peso, ma del tutto
irrilevanti rispetto a quanto avrebbe dato occasione al colloquio.
Non smentita al riguardo nelle precisazioni che Morosini ha fatto
seguire al vespaio sollevato dall’articolo,
Chirico riferisce che si trovava a Palazzo dei Marescialli, sede del
Csm, per tutt’altra ragione che
un incontro col magistrato, e che da questi, per l’interposta
persona di un suo assistente, è stata invitata ad un colloquio nel
suo ufficio: «Dottoressa, mi scusi,
il dottor Morosini l’ha
vista passare nel corridoio e vorrebbe salutarla».
A mio modesto avviso, è qui che quanto segue perde ogni importanza,
perché al magistrato non poteva sfuggire che la persona con la quale
si disponeva a chiacchierare fosse una giornalista da sempre impegnata su
un fronte opposto a quello espresso dalla corrente di Magistratura
democratica, di cui egli è autorevole esponente, e che dunque
qualsiasi affermazione si fosse lasciato scappare su temi relativi al
rapporto tra politica e giustizia avrebbe potuto essere
opportunamente lavorata a suo danno. Delle due, una: o Morosini è
uno sprovveduto o si è scientemente costruito la trappola in cui si
è poi lasciato cadere.
Questa seconda ipotesi è la più
affascinante, perché a sostenerla potrebbero esservi solo ragioni luciferine. Tanto luciferine che non mi azzardo neppure a
prospettarle, implicherebbero scenari fantapolitici. Diversamente, saremmo in presenza solo di un povero
diavolo. Che vede passare davanti al suo ufficio la teorica del
«siamo tutti puttane»,
quella che mena vanto di darla preferibilmente ad anzianotti prestigiosi, e tenta
l’acchiappo,
per giunta servendosi di un assistente, va’
a capire se per evitare di beccarsi di persona un due di picche o per
dar sfoggio della servitù alle proprie dipendenze. In questo caso,
sarebbe facile trovare spiegazione a tutto, ma con un po’ di rammarico nel dover rinunciare alla fantapolitica. «Mi
basta accavallare le gambe per disporre meglio il mio interlocutore»,
spiegò la giornalista qualche tempo fa (Il
Foglio, 26.6.2013), e qui l’interlocutore
vi si sarà ottimamente disposto. Neanche avrà detto niente di tremendo – né
più, né meno, probabilmente, di quanto ha detto Piercamillo Davigo
a giornalisti assai meno accavallanti – ma ci avrà messo
un po’
più ardore e, voilà, avrà davvero assunto le parvenze di una sanguinaria toga rossa.
giovedì 5 maggio 2016
Cerchiamo di non ridicolizzare il garantismo
Gianluca
De Feo (la
Repubblica,
4.5.2016) scrive di aver letto le carte e di non aver bisogno che si
celebri il processo per esser certo che Simone Uggetti abbia commesso
«un
reato grave»,
ma di ritenere eccessiva la misura cautelare della sua detenzione in
carcere in attesa che il processo si celebri. In linea di principio,
direi che fili, perché chi ha certezze da giudice di Corte di
Cassazione può ben permettersi di fare un cazziatone a un gip. In
pratica, però, direi non fili troppo, perché De Feo è solo un
giornalista. Garantista, si potrebbe aggiungere, se non fosse che non
attende neppure il primo grado di giudizio per dichiarare fondato, e «tutto
fondato», l’impianto
accusatorio del pm.
In realtà, nemmeno aspetta che l’avvocato
difensore di Uggetti apra bocca per aver modo di dimostrare che eventualmente non lo sia: per esser certo che Uggetti abbia commesso «un
reato grave» –
un reato «che
mina la competitività del sistema economico, favorendo
l’arricchimento di cricche e camarille»
– gli basta «la
denuncia di una funzionaria, che ha registrato le riunioni con il
sindaco, le email che la testimone ha consegnato, le intercettazioni
telefoniche [che] descrivono con chiarezza la manipolazione del bando e la
spregiudicatezza con cui un professionista interessato all’appalto
entrava negli uffici e partecipava alla stesura del capitolato».
Ma neanche è tutto, perché riesce a produrre perfino un argomento
in favore della misura cautelare del carcere, che però –
incomprensibilmente – contesta: riconosce che «Uggetti
e il professionista riescono a venire a conoscenza dell’indagine e
tentano di cancellare le prove»,
ma cosa recita l’art.
274 del Codice di Procedura Penale?
La misura cautelare è legittima – si legge – «quando
sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle
indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a
situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione
o la genuinità della prova».
Perché non gli arresti domiciliari, invece del carcere? Nel suo
dispositivo il gip lo spiega, e De Feo ne prende atto – «con
l’attuale progresso tecnologico è impossibile monitorare e
controllare gli indagati»
– ma sembra che la spiegazione non lo convinca troppo, anche se poi
non riesce ad obiettare altro che allora si tratterebbe di «una
valutazione sull’obbligo del carcere che può essere applicata a
chiunque».
E
anche qui sbaglia, perché non
tutti gli indagati vengono pizzicati a confabulare al telefono sul
miglior modo per far sparire dai loro pc le prove del reato che hanno
commesso e del quale in sostanza si autoaccusano: è con questa
condotta che si realizza un «concreto
ed attuale pericolo» a
danno di un giusto processo, condotta che direttamente o
indirettamente può essere agevolmente reiterata avendo a
disposizione anche i più elementari strumenti elettronici di cui ogni casa è ormai piena.
Un garantista un
po’
confuso, direi, ma è ancora niente a confronto di Francesco Merlo
(la
Repubblica,
5.5.2016), che riprende gli stessi argomenti e li pompa a dismisura,
senza per questo renderli più convincenti. Vale la pena, tuttavia,
di farsi largo nella lussureggiante selva del suo articolo per
affrontare un altro tema che pure era stato sollevato
da De Feo, ma non con gli stessi toni febbricitanti. Dove, infatti,
il gip ha scritto che «la
personalità negativa dei due imputati porta a ritenere con decisa
verosimiglianza che gli stessi abbiano potuto sistematicamente
gestire la cosa pubblica con modalità illecite»,
a De Feo sembra che «si
pass[i]
dalla presunzione di innocenza alla presunzione di colpevolezza,
senza che negli atti ci sia anche una sola traccia di altri crimini».
In realtà, una «verosimiglianza»,
ancorché «decisa»,
non fa capo di imputazione, mentre è del tutto evidente che una
pratica illecita resa possibile da un ruolo o da una funzione sia
illimitatamente reiterabile al persistere delle condizioni che
rendono attivi quel ruolo o quella funzione. Così per quanto si
porrebbe con l’affermare
che i due imputati abbiano dato segno di «personalità
negativa» o,
come tiene a sottolineare Merlo citando un altro passaggio del
dispositivo firmato dal gip, «abietta
e negativa»: robe – scrive Merlo – che «avrebbero
spaventato Robespierre e confortato Stalin».
Un giudizio morale o, peggio, psicologico? Manco per niente:
l’aggettivo
«abietto»
è d’uso
comune nel Codice Penale, mentre il termine «personalità»
vi
ricorre con analoga frequenza senza che abbia alcun riferimento
all’ambito
morale o psicologico del soggetto interessato, ma solo a quello relativo all’esercizio
della sua capacità giuridica. Merlo si straccia le vesti per uno
scandalo che non sussiste: il gip si è limitato a considerare che il
reato di cui i due indagati si sono autoaccusati «desta
notevole allarme sociale»
in forza della «sua
gravità
e negatività, per le ricadute pubbliche che comporta»,
e che, commettendolo, essi «hanno
dimostrato assoluta
spregiudicatezza non
solo nelle modalità concrete tenute nel delinquere, ma portando
avanti con protervia i loro fini, intraprendendo attività volte a
distruggere ed eliminare tracce del loro accordo
illecito».
E che c’è
di tanto scandaloso nell’affermare
questo?
Benedetto sia il garantismo, sempre, ma cerchiamo di non
ridicolizzarlo a questo modo. A differenza di De Feo e di Merlo, per
i quali pare scontato che Uggetti e il suo compare siano colpevoli
del reato loro ascritto, anche se poi si tratterebbe solo di poche
migliaia di euro, quindi basterebbe una tiratina d’orecchio
ciascuno perché la società possa sentirsi risarcita del danno inflitto alla credibilità delle istituzioni, prim’ancora che all’erario pubblico – a differenza di De Feo e di Merlo –
io non so se quei due siano colpevoli o meno. Per meglio dire, ne ho
una mezza idea, ma aspetto un’eventuale condanna definitiva per dire che sono
due mariuoli. Perché sia una condanna giusta, se condanna avrà da
essere, voglio che gli elementi di prova non siano inquinati o
addirittura sottratti alla formazione di un corretto giudizio, sarebbe altrettanto grave che se ne producessero di falsi per condannarli ingiustamente: ogni
garanzia in favore degli indagati non può e non deve ostacolare la formazione di un corretto giudizio. Benedetto il garantismo, dunque, ma evitiamo che il garantista si riduca alla patetica macchietta del
portaborse dell’avvocato
difensore.
mercoledì 4 maggio 2016
martedì 3 maggio 2016
[...]
Intervistato
da Cazzullo (Corriere
della Sera,
3.5.2016), Napolitano dà forza al sospetto che la vecchiaia non sia
affatto il prezioso tabernacolo di virtù descrittoci da Cicerone e
da Seneca, ma solo il prepuzio in cui si ritrae il vizio che la
gioventù ha orgogliosamente esibito in tutto il suo turgore. Così,
come da giovane definiva «spregevoli
provocatori»
gli ungheresi in rivolta contro la dittatura comunista, salutando
l’arrivo
dei carri armati sovietici come «contributo
alla pace nel mondo»,
oggi Napolitano liquida come «conservatori»
i contrari allo scempio della Costituzione.
Se non «conservatori»,
«perfezionisti»:
a dire che la merda è merda, vuol dire che si è incontentabili. Se
non «conservatori»,
se non «perfezionisti»,
intellettualmente disonesti: «si
colpisce la riforma per colpire Renzi».
Ma chi, se non lo stesso Renzi, ha inteso fare del referendum che si
terrà in ottobre un plebiscito sulla sua persona? Sì, è vero, «Renzi non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale», ma, «prima
del voto definitivo sulla legge ha corretto il tiro, ha evitato
quella accentuazione, è entrato nel merito», fa niente che un minuto dopo abbia ricominciato a dire che a ottobre si giocava il culo e la faccia, dimostrando ancora una volta che in lui coincidono.
Sempre
lo stesso, Napolitano: diligentemente fascista, fino a quando il
fascismo resse; diligentemente togliattiano, fino a quando Togliatti
fu vivo; di simpatie craxiane, quando Craxi era allo zenith; cantore
della questione morale ai tempi di Mani pulite; gradito a Berlusconi
il tanto che bastasse a non buscarsi un veto per il Quirinale; e ora
renziano, sennò che altro?
Il governo Renzi procede a colpi di decreti sui quali mette di continuo la fiducia? Tutto normale, finito il tempo in cui «le distinzioni e le garanzie già fissate nella nostra Costituzione, e in leggi di particolare rilevanza istituzionale, vanno rigorosamente rispettate [perché non venga meno] il ruolo di indirizzo e di controllo del Parlamento, della sua autorità e dignità di suprema rappresentanza democratica [altrimenti mortificate dai] comportamenti di governo [che invece è tenuto ad un] ossequio non formale, alieno da insofferenze e arroganze, alle prerogative delle Camere» (Dove va la Repubblica, Rizzoli 1994 - pag. 180).
Referendum del 17 aprile: Renzi invita all’astensione? L’invito è legittimo. Nel 2005 non lo era: era un «venir meno a una norma di comportamento fondamentale, che è quella del sollecitare i cittadini a esprimersi» (Radio Radicale, 8.6.2005).
Anche quando sembrerebbe avere riserve sugli atti del governo Renzi, è solo per esortare a votare tutte le schifezze che scodella, poi eventualmente si miglioreranno, le opposizioni saranno benevolmente invitate a dare una mano, e chissà che questo non possa creare il clima favorevole a un tanto atteso Partito della Nazione: così l’anno scorso con l’Italicum, così oggi con la riforma costituzionale, perché, sì, è legittimo che si abbiamo riserve, ma è indispensabile approvarla, e poi, «una volta approvata, bisognerà mettersi al lavoro per costruire davvero questo nuovo Senato, e trarre dall’esperienza le possibili conseguenze».
Genuinamente renziano, dunque: fare per fare, e fare subito, poi eventualmente, se intanto non ci è caduto tutto addosso, si tappano i buchi, ma intanto fare, fare, fare, ché, «se
si affossa anche questo sforzo di revisione costituzionale, allora è
finita: l’Italia apparirà come una democrazia incapace di
riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi». Come sottovalutare l’allarme chi ha sempre dimostrato di saper essere al passo coi tempi, e tutti i tempi?
lunedì 2 maggio 2016
Questa riforma costituzionale è incostituzionale
Una
sentenza della Corte costituzionale, la n. 1146 del 29 dicembre 1988,
recita: «La
Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non
possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale
neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione
esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione
costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che,
pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non
assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale,
appartengono all’essenza
dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
È quanto basta perché la riforma costituzionale votata da questo
Parlamento possa essere messa in discussione, fino ad essere
dichiarata costituzionalmente illegittima, anche se venisse
confermata dall’esito del
referendum che si terrà ad ottobre: sarebbe sufficiente dimostrare
che quanto è stato riscritto, nel dettaglio o nel complesso,
sovverta o modifichi, nel suo contenuto essenziale, uno o più
principi non assoggettabili al procedimento di revisione. La stessa
sentenza della Corte costituzionale, d’altronde,
rammentava di aver «già
riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi
dell’ordinamento
costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre
norme o leggi di rango costituzionale»,
riaffermando di essere «competente
a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale
e delle altre leggi costituzionali»,
perché, «se
così non fosse, si perverrebbe all’assurdo
di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della
Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle
sue norme di più elevato valore».
Ciò
premesso, si potrebbe già passare, articolo per articolo,
all’analisi
del testo costituzionale così come riscritto dalla banda di
mascalzoni da oltre due anni inserrata a Palazzo Chigi e approvato
dal Parlamento di cooptati sub condicione consegnatoci dal Porcellum.
Lo faremo, fino a ottobre c’è
tempo, d’altronde
non sarebbe neanche necessario, perché fin qui non è mancato chi ha
segnalato più di un vulnus ai principi contemplati dalla I parte
della Costituzione in un testo che peraltro abbonda di fumose
ambiguità e sconcertanti paradossi, al netto di un lessico di merda,
che rivela tutta la zoticaggine di chi l’ha
steso. Tutto sommato, però, sarà superfluo: da un lato, è nel suo
insieme che questa riforma costituzionale è incostituzionale,
dall’altro,
solo la Corte costituzionale è autorizzata a sancirlo. Non sto
affermando che il referendum di ottobre sia inutile: è di piana
evidenza che una vittoria dei no farebbe a pezzi la riforma. Di
fatto, tuttavia, una vittoria dei sì non ne assicurerebbe la tenuta
al vaglio della Consulta, anche se potrebbero volerci due o tre anni
prima di mandarla al macero.
Anche
nel caso del referendum confermativo, dunque, come ampiamente
discusso su queste pagine nel caso di quello abrogativo, il risultato
della consultazione non sarebbe dirimente. E meno male, vorrei
aggiungere. Dove un popolo smarrisce ogni dignità, è più che
sacrosanto perda ogni sovranità, è più che ovvio perda voce in
capitolo sui fondamenti della legge, è più che naturale – direi
salutare – una supplenza della magistratura.
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