martedì 17 maggio 2016

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In un dibattito politico quasi sempre urlato, spesso degradato a rissa, ormai da troppo tempo intollerabilmente intossicato dal ricorso pressoché costante a pratiche di mistificazione e di impostura, una voce che ci invita a ragionare, ad affrontare una questione armati solo di buon senso, non può restare inascoltata. In questo caso, poi, si tratta di una voce che chi sa apprezzare la sempre più rara virtù dellonestà intellettuale non può non considerare amica, dunque porgiamo orecchio.
Linvito di Massimo Bordin – chi lo conosce potrà tranquillamente chiudere un occhio sul fatto che il suo invito parta dalle pagine del quotidiano più schifosamente renziano – è a far uso del solo buon senso per discutere di quella che a molti è parsa esplicita intenzione di Matteo Renzi – ora da lui risolutamente negata: gli sarebbe stata disonestamente attribuita dai suoi avversari – di trasformare il referendum di ottobre in un plebiscito sulla sua persona.
Questione interessante di là dal caso che la solleva, perché attiene al più generale tema della comunicazione in ambito politico. Qui, in sostanza, ci troveremmo di fronte a un clamoroso misunderstanding. Ne sarebbe stato fatto oggetto proprio luomo politico che da tanti è considerato il più abile comunicatore attualmente sulla piazza, sicché tertium non datur: o a Matteo Renzi è stata disonestamente attribuita unintenzione che davvero non aveva, e allora cè da denunciare un odioso complotto ai suoi danni, o quanto ha detto in numerose occasioni rendeva chiara ed inequivocabile lintenzione che gli è stata attribuita, e allora cè da segnalare la ritirata strategica di uno sbruffone, bugiardo matricolato, spudorato quaquaraquà.
Prima di passare allanalisi degli argomenti che portano Massimo Bordin a concludere che «se perdo, vado a casa» non intendesse affatto snaturare il senso del referendum sulla riforma costituzionale, ma solo «anticipa[re] una conseguenza logica del voto di ottobre» nel caso di una vittoria dei no, cè tuttavia da segnalare un motivo di perplessità riguardo al metodo che egli ci propone: che significa «con mente sgombra da sovrastrutture teoriche»? Per «sovrastruttura teorica» dobbiamo intendere quanto pretende di conferire sostanza veritativa a un principio meramente assertivo, come quando l’espressione è usata nei commentari di Diritto per richiamare a un’interpretazione più consona allo spirito che alla lettera della norma, o invece parliamo della costruzione ideologica che impone alla realtà lastrazione dei modelli analogici da cui procede, come accade nella più comune violazione del metodo scientifico? Tutto sommato, è problema marginale, forse il richiamo è solo a non vedere necessaria confliggenza tra senso comune e buon senso. Continua a perplimere, ma passiamo al testo, sennò ci impantaniamo.

«Proviamo a immaginare – propone Massimo Bordin – che il referendum di ottobre si concluda con una inequivocabile sconfitta della riforma voluta dal governo. Cosa succederebbe?», si chiede. «Di sicuro l’opposizione chiederebbe con un certo vigore che il governo, sconfitto su una questione certo non marginale, levasse il campo. Non ci sarebbe obbligo, secondo Costituzione, ma visto che già oggi non passa giorno senza che qualche esponente autorevole della minoranza parlamentare intimi a Renzi di dimettersi, sarebbe a dir poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si sentisse dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non restate al governo”. Non si capisce allora perché sia così grave che Renzi abbia anticipato una conseguenza logica del voto di ottobre».
È qui che il dover dare per scontato che Massimo Bordin sia in buona fede – mi è impossibile fare altrimenti – mi costringe alla sorpresa del constatare che il suo celebrato acume non riesca a cogliere la differenza tra il dover far fronte alle conseguenze di una sconfitta, come sarebbe la bocciatura di una riforma sulla quale Matteo Renzi ha più volte detto di volersi giocare la faccia, fra le quali vi sarebbe senza dubbio una richiesta di dimissioni da parte delle opposizioni – dimissioni di cui comunque non ci sarebbe obbligo – e il fare di questa eventualità una vera e propria posta in gioco nel lanciare una sfida. Il dover dare per scontato che Massimo Bordin sia in buona fede mi costringe alla sorpresa nel leggere che tale sfida sarebbe già tutta implicita dellimpossibilità che si realizzi il caso «a dir poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si sentisse dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non restate al governo”». Da che mondo è mondo, quandè che un governo è tenuto a ritenere fondate le richieste delle opposizioni, se queste sono al di fuori delle condizioni poste dalla Costituzione? È legittimo che, anche al di fuori di tali condizioni, le opposizioni dicano «se perdi, vai a casa», ma dire «se perdo, vado a casa» da Presidente del Consiglio cambia inevitabilmente il senso della partita.
È il caso che si ebbe con le Amministrative del 2000: nessuno obbligava Massimo DAlema a lasciare Palazzo Chigi dopo la batosta presa dal suo partito, ma prima del voto aveva ripetutamente legato la sopravvivenza del governo da lui presieduto al risultato di quelle elezioni, personalizzandone il significato. Forse non ne aveva neppure voglia, ma accadde che un giornalista gli gettò il guanto e lo sventurato raccolse la sfida. È probabile che, dopo quella batosta, le opposizioni avrebbero comunque chiesto le sue dimissioni, ma, se non le avesse messe nel piatto, chi avrebbe potuto pretenderle come atto dovuto?
Se è vero, daltronde, che Matteo Renzi è legittimamente alla guida del governo – non ha mai avuto tale investitura dallesito di elezioni politiche, ma la Costituzione non la rende necessaria per andare a Palazzo Chigi – non è altrettanto vero che ha più volte preteso che tale investitura gli sarebbe stata conferita dal risultato delle Europee del 2014? È errato affermare che ci troviamo di fronte a un tizio per il quale la Costituzione a volte è tutta letterale e a volte è tutta materiale? Nega, oggi, di aver voluto, fino a ieri, fare del referendum di ottobre un plebiscito sulla sua persona, ma è evidente che questo sia dovuto solo al timore di aver caricato la sfida di un peso che non è più sicuro di poter reggere.
Nel voler legare il risultato del referendum di ottobre alla sua permanenza al governo vi era la convinzione che le urne gli assicurassero lapprovazione della sua riforma costituzionale per scongiurare una crisi dagli sviluppi incerti e dalle conseguenze potenzialmente gravissime, prima fra tutte la tremendissima ingovernabilità, che oggi fa più paura dell’anarchia: era un modo per dire che a lui non cerano alternative credibili, ma adesso, con i guai giudiziari in cui annaspa il suo partito, sente di non poterlo più dire. E dunque, sì, non ha mai detto testualmente «dopo di me, il diluvio», ma lha abbondantemente dato a credere, in ciò sostenuto anche da chi non gli ha risparmiato critiche: meno peggio di Berlusconi, meno peggio di Grillo, meno peggio di Salvini – così, più o meno, si argomentava – e altri in giro non ce nè, dunque teniamocelo. Ma comincia a farsi strada, seppur molto lentamente, troppo lentamente, che in realtà, peggio di lui, nessuno. Matteo Renzi lo ha capito: «Personalizzare lo scontro non è il mio obiettivo...», dice; con una faccia tosta che ormai non ci stupisce più, aggiunge: «... ma quello del fronte del No». Quale buon senso, quale logica, quale mente sgombra da sovrastrutture teoriche può tollerare questa patente menzogna?

Manderei a cagare chiunque provasse a dimostrarmi che Matteo Renzi non avesse intenzione di personalizzare il referendum di ottobre, ma qui, forzandomi a quella signorilità tutta eufemismo ed ironia che è la sua cifra inconfondibile, a Massimo Bordin mi limito a dire: direttore, ma sa che non mi ha convinto? 

lunedì 16 maggio 2016

Era meglio Berlusconi (cit.)

Capisce di aver sbagliato, ma figuriamoci se può permettersi di ammetterlo, e allora cerca di cambiare le carte in tavola: «Personalizzare lo scontro non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del No» (*). Con la faccia di culo che si ritrova, vedrete, non avrà alcuna difficoltà a fare anche di più: se i sondaggi metteranno male, finirà col dire che, per evitare che il referendum di ottobre si trasformi in un plebiscito sulla sua persona, è disposto a fare un sacrificio, a tornare indietro sui suoi passi: se la sua riforma costituzionale sarà bocciata, non lascerà Palazzo Chigi, non lascerà la segreteria del Pd, non lascerà la politica. Pressappoco dirà: «Avevo detto che ci mettevo la faccia e che in caso di sconfitta ne avrei tratto le dovute conseguenze, me ne sarei andato a casa, ma con amarezza sono costretto a prendere atto che unassunzione di responsabilità è stata volgarmente strumentalizzata dai miei avversari, dunque, comunque vada, resto. Però sono sicuro di stravincere, anzi, pardon, sono sicuro che stravincerà lItalia che vuol cambiare». E allora il referendum lo vincerà davvero. Povia sarà un mentecatto, ma ha ragione: era meglio Berlusconi. 

La maschera è caduta

Oltre a quella torva, che è la più nota, cè una forma bonaria della velleità totalitaria, tanto bonaria che del totalitarismo mostra solo l’anelito, peraltro mitigato in aspirazione alla concordia, alla convergenza, alla grande intesa. Qui, lannientamento degli avversari è perseguita per assorbimento, previa aggregazione dichiarata indispensabile a fronte di cogenti istanze emergenziali, non importa quanto reali o fittizie, in vista di quellunità nazionale che è leufemismo dellequivalenza tra nazione, stato e partito.
Sotto diverse maschere, la via italiana al socialismo del Pci ebbe proprio questa forma, e perciò sembrò sempre avere un volto umano: con Togliatti, prima, con Berlinguer, dopo, ma anche con Occhetto, con DAlema, con Veltroni, con Bersani, quando dunque il Pci già aveva cambiato pelle, e in quella prendeva a cambiare il resto, lobiettivo rimaneva quello di aggregare, per assorbirle, le tradizioni politiche che avevano dato vita – sorvoliamo con quale risultato – alla Dc e al Psi: quella della dottrina sociale della Chiesa e quella del riformismo. Obiettivo che col Pd possiamo dire sia parzialmente riuscito nel metodo, ma completamente fallito nel merito, visto che, a otto anni dalla sua fondazione, il partito – mi auguro che in quanto sto per affermare si sappia leggere lellissi – è assai più democristiano che comunista, assai più craxiano che amendoliano o ingraiano.
Nulla di scandaloso, quindi, nel fatto che i pochi sopravvissuti della vecchia dirigenza del Pci di Togliatti e di Berlinguer siano tutti renziani: nel merito non ha importanza quale sia il risultato, sta di fatto che Renzi sembra dare successo al metodo, e allora si capisce perché Napolitano lo coccoli, si capisce perché, dopo il risultato riscosso alle Europee, Reichlin lo abbia designato a segretario di un Partito della Nazione (lUnità, 29.5.2014). E tuttavia il golem plasmato con tanto amore sembra rischiare la stessa fine di quello creato da rabbi Yehudah Loew ben Bezalel: di energia ne ha tanta, ma non sa controllarla a dovere, dando cenno a pericolose pulsioni autodistruttive.
Si può comprendere, allora, langustia di Napolitano: «Renzi non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale [al referendum di ottobre]» (Corriere della Sera, 3.5.2016). Si può comprendere la preoccupazione di Reichlin, che oggi, in una lettera indirizzata a Mario Calabresi, scrive: «Non mi piace il modo come si sta discutendo della riforma costituzionale... Io non voglio una crisi di governo al buio... Considero una sciagura questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti contrapposti...» (la Repubblica, 16.5.2016). Cè da capirlo: ha più di 90 anni, più di 70 ne ha spesi sognando il megapartitone dellunità nazionale e, ora che la creatura ha preso forma, la vede messa a repentaglio dal suo mostrare la vera faccia, tuttaltro che bonaria.
«La “rottamazione” era in una certa misura necessaria – scrive ma si è creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo” né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un nuovo compromesso sociale». Troppo tardi, forse. La maschera è caduta. Dietro il Partito della Nazione si è scorto il partito-stato, l’indomita tentazione di trasformare il consenso in egemonia. 

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domenica 15 maggio 2016

«Invertire la tendenza»


Sul rapporto tra sviluppo economico e crescita demografica si è detto di tutto e il contrario di tutto, ma è fuor di dubbio che da almeno un secolo a questa parte continuino a nascere più bambini proprio dove più si muore di fame; fuor di dubbio è che nei paesi a più alto reddito pro capite siano proprio le famiglie più povere ad avere il maggior numero di figli; fuor di dubbio è che il calo della natalità sia un dato costante in tutti i paesi economicamente emergenti, che da sommersi figliavano assai più.
Troppo poco per affermare che lo sviluppo economico deprima la crescita demografica, troppo poco perfino per mettere definitivamente a tacere chi vorrebbe sia indiscutibile che invece la stimoli, ma pensare che un bonus di 160 euro per il primo figlio, e di 240 per il secondo, possa «invertire la tendenza» del calo della natalità, costante ormai da decenni qui in Italia, non è follia? Cifre che a stento coprono la spesa per quattro mesi di pannolini, ma Beatrice Lorenzin è convinta che «rappresentino un sostegno serio» a scongiurare quella che definisce «unapocalisse» (la Repubblica, 15.5.2016).
Degna rappresentante di questo governo, non a caso 160 e 240 sono multipli di 80, il numero magico col quale Matteo Renzi è solito ipnotizzare i polli.


Aggiornamento Pare non se ne faccia nulla, non c’è copertura finanziaria per scongiurare lapocalisse.

sabato 14 maggio 2016

Due domande

Con lo stralcio della stepchild adoption dal ddl Cirinnà, l11 maggio 2016 è giunta a definita approvazione del Parlamento una legge che, pur non contemplando per uno dei due partner di un’unione civile la possibilità di adottare il figlio dell’altro, specifica che, riguardo a tale eventualità, «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozioni dalle norme vigenti» (art. 3).
Il rimando è alla legge n. 184 del 4 maggio 1983, che, al co. 1 dell’art. 7, dice che «ladozione è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità», rimandando ai seguenti (artt. 8-21), per chiarire quali siano i casi in cui un minore possa essere considerato adottabile. Il co. 1 dellart. 44 della stessa legge dice che comunque «i minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al co. 1 dellart. 7»: possono essere adottati, ad esempio, «dal coniuge, nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dellaltro coniuge», ma anche «da persone unite al minore da preesistente rapporto stabile e duraturo», con esplicita specifica che «ladozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato».
Ora, lart. 12 delle Preleggi dice che «nellapplicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». In tal senso, la legge n. 184 del 4 maggio 1983 non si presta ad ambiguità interpretative di sorta: ununione civile è condizione entro la quale il figlio di uno dei due partner è adottabile dallaltro. Né si presta a dubbio alcuno lintenzione del legislatore nel rimando ad essa, che è contenuto nel testo della legge che regola le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Ciò premesso, siano consentite due domande:
(1) dove sarebbe la «creatività» di una sentenza che consente a un minore di essere adottato dal partner del proprio genitore?
(2) quanta cacca cè nella testa di chi afferma che «in tema di stepchild adoption fino a oggi la giurisprudenza ha dato delle interpretazioni creative»

venerdì 13 maggio 2016

«Ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo»

Sempre più spesso mi capita di ritenere superfluo spendere un commento su quanto dichiarato da questo o quel protagonista della vita pubblica, con prontezza diffuso dai canali di informazione, per essere immediatamente fatto oggetto di ampia discussione in ogni sede. Sia chiaro che per commento intendo unopinione adeguatamente argomentata, perché la sensazione che il virgolettato attribuito a Caio o a Tizio non meriti la fatica, e che al più valga la pena di porre ogni attenzione solo alle ragioni che gli procurano adesione o dissenso, può ben lasciare spazio almeno a una battuta, che proprio nella sua estemporaneità esprime il rigetto di una problematicità tutta fittizia. Non sempre, ma quasi sempre, accade perché, a dispetto del rilievo che sembrerebbero meritare, si tratta di affermazioni fatte senza altro scopo che ottenere quella visibilità che – insieme – nutre e divora il personaggio pubblico, senza risparmiare chi aspira ad esserlo agganciandosi al bandwagon dei like e dei dislike. Semplificando, direi che si possano distinguerne due tipi, secondo il genere di visibilità che si ripromettono di riscuotere: ci sono le affermazioni provocatorie, paradossali, iperboliche, che spesso sembrano voler squarciare il velo dellipocrisia o del conformismo con quelle che sono offerte – ma sarebbe più corretto dire somministrate – come verità che pretendono di essere inconfutabili per il solo fatto di essere sgradevoli o irritanti; e quelle che si limitano a enfatizzare, cercando di renderli solenni o appassionati, concetti di una banalità disarmante, spesso racchiusi in frasi fatte, perfino in idiomatismi daccatto. In entrambi i casi, a dispetto dell’effetto che possono comunque riuscire ad ottenere perfino in chi abbia una capacità critica adeguatamente sorvegliata, anche una sbrigativa analisi è in grado di rivelarle invalide sul piano della logica proposizionale, quasi sempre per tautologia o per paralogismo.
Di questo genere mi pare sia una frase come «ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo», che volentieri avrei evitato di commentare su queste pagine, se non fosse che da quando è stata pronunciata da Matteo Renzi (e non era la prima volta, perché era già accaduto nel 2011, nel 2013, nel 2014 e a febbraio di questanno) sono stato raggiunto da numerosi inviti a farlo, in due o tre casi addirittura pressanti. Inviti nei quali, pur con segno diverso, ho letto il retropensiero di chi da un mangiapreti come il sottoscritto pretende un riconoscimento di merito, come atto dovuto, in favore di un uomo politico da me pesantemente maltrattato in numerose occasioni, ma qui – mi si dice – indubitabilmente splendido campione di laicità.

E allora comincerò col dire che aver «giurato sulla Costituzione» non impedirebbe affatto a un Presidente del Consiglio di poter ritenere non utile, né necessaria, tanto meno indispensabile, anzi inopportuna o addirittura dannosa, una legge che riconosca le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Proprio facendo appello alla Costituzione (art. 81), infatti, e rinunciando a ogni altro argomento di natura etica o di stampo confessionale, si potrebbe essere contrari alla sua approvazione, ritenendo che comporti «nuovi oneri» (si parla di qualche centinaia di milioni di euro) senza essere stata in grado di contemplare i «mezzi per farvi fronte» (larticolato in merito li quantifica a meno di un decimo di quanto sarebbe realmente necessario).
Di converso: aver «giurato sul Vangelo», impedirebbe a un Presidente del Consiglio di essere a favore di una tal legge? Lasciamo stare il Vecchio Testamento, gli Atti degli Apostoli e le Lettere di Paolo, lasciamo stare la dottrina cattolica, le linee pastorali della Cei, che qui non sono chiamate formalmente in discussione: in quale punto dei Vangeli si legge esplicita condanna delle unioni tra persone dello stesso sesso? E forse non esistono paesi – il caso principe è quello degli Stati Uniti dAmerica – nei quali chi al momento dellinsediamento ai vertici degli organi più alti del governo locale o federale ha giurato sulla Bibbia senza per questo sentire contraddizione nellesprimersi in favore del matrimonio gay?

Via, guardiamo ai fatti: è da tempo che in Italia non cè più un partito che raccolga la stragrande maggioranza di chi sente appartenente al mondo cattolico; lattuale pontificato ha imposto alla Cei di abbandonare la politica ruiniana, lasciando la difesa dei cosiddetti principi non negoziabili a frange ormai minoritarie di tradizionalisti; nei confronti dei diritti rivendicati dal movimento Lgbt lopinione pubblica ha mutato notevolmente il suo atteggiamento; rapidamente mutato, è necessario aggiungere, se si pensa al fatto che Matteo Renzi era fra i partecipanti al Family Day del 2007, a sostenere ragioni che oggi, evidentemente, ritiene superate.
Concedo sia possibile unobiezione: una genuina laicità è dimostrata proprio dallessere capace di avere, da Presidente del Consiglio, unopinione diversa da quella di un comune cittadino cattolico, recependo le istanze di chi non intende essere prono ai veti della Chiesa di Roma. È obiezione debole, perché Matteo Renzi, nel 2007, non era un comune cittadino, ma Presidente di Provincia, e in più, in opposizione a una legge che riconoscesse le unioni civili tra persone dello stesso sesso, sosteneva che Governo e Parlamento stessero commettendo «un errore gravissimo» a non cogliere «il fatto storico di un milione di persone in piazza»: è evidente che, da membro del Governo o del Parlamento, la sua posizione sarebbe stata opposta a quella odierna. Ammesso e non concesso che la sua affermazione odierna basti a dar prova certa di una genuina laicità, deve trattarsi di acquisizione assai recente, che, nellimpossibilità di una controprova, è legittimo sospettare sia tutta funzionale a raccogliere le simpatie di unopinione pubblica che nel 2007 non era favorevole, come invece lo è oggi, a una legge come quella varata laltrieri. Non è un caso, infatti, che lo stralcio della stepchild adoption sia seguita alla diffusione di sondaggi che la segnalavano come questione assai controversa.

Mi pare di poter concludere dicendo che siamo allennesima prova di quel cinismo e di quellopportunismo che nei demagoghi del «populismo dallalto» mettono i sensori del vento che tira a servizio del consolidamento di un potere personale necessariamente disintermediato. E aggiungerei che proprio la scelta di una frase come «ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo» ne riveli il tratto più spregiudicato. Non a sorpresa di avere un laico come Presidente del Consiglio, ma a conferma di avere un uomo di merda come aspirante a dittatorello. 

giovedì 12 maggio 2016

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Meno l’individuo ha strumenti di autocoscienza e di autodeterminazione, più la persona, che ne è la maschera di scena, ha bisogno di darsi cifra identitaria (etnica, religiosa, sessuale, ecc.). È questo che impone (in-pone) una fascia elastica di color rosa, eventualmente fucsia, con un bel fiocco sopra, alla neonata che viene alla luce senza troppi capelli: deve essere evidente che sia femmina, anche se poi era tanto atteso un maschio. Dov’è l’identità sessuale ad essere chiamata come strumento più sicuro per dare saldi punti di riferimenti nella selva relazionale, l’individuo è giocoforza chiamato a esplicitarla con ampio anticipo rispetto alla sequela degli eventi che le conferiscono la maturità anatomica e funzionale, fino al punto che spesso anche questa è chiamata ad anticiparsi (non a caso il menarca è anticipato nella favela brasiliana rispetto al collegio svizzero). Stessa cosa accade quando allindividuo è imposta la cifra identitaria religiosa: sarà fin da bambino che a ogni Ashura il coltello inciderà il suo cuoio capelluto.
Questo avrebbe dovuto dire Corrado Augias, invece di mantenersi in quel vago che lo ha portato ad essere frainteso fino ad essere ingiustamente accusato di aver voluto insinuare che le violenze e la morte subite dalla piccola Fortuna Loffredo fossero dovute allaverla abbigliata a 6 anni da signorinella di 16 o 18: la sua osservazione non era affatto stupida, ma lha argomentata malissimo. Poi, ha fatto di peggio: alle critiche piovutegli addosso (più che altro, alla minaccia di querela) ha ritrattato, ha chiesto scusa, e anche qui con un pessimo argomento: ha detto gli dispiaceva aver ferito la sensibilità dei genitori della bambina, ha detto che la sua osservazione era d’un uomo d’altri tempi, quelli in cui i bambini erano vestiti da bambini. E nel salottino di Fabio Fazio si è beccato applausi prima e dopo. Brutta pagina. Bruttissima.

martedì 10 maggio 2016

La seconda volta come farsa

«Hegel nota in un passo delle sue opere
che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi
della storia universale si presentano
per, così dire, due volte. Ha dimenticato
di aggiungere: la prima volta come tragedia,
la seconda volta come farsa»

Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte



Uomo di Sinistra, il Depretis. È con la nascita del suo V governo, il 19 maggio 1883, che il trasformismo diventa esplicito programma politico. Senza scrupoli di sorta, perché il termine non ha acquistato ancora laccezione negativa che acquisterà dopo, molto dopo (al momento è solo quellanima bella di De Sanctis a storcere il muso), ed è sinonimo di evoluzione, «la legge generale delle cose viventi», come dirà il Minghetti, uomo di Destra, per dichiararsi – potenza delleufemismo – disponibile a discuterne.
Il trasformismo non è il cambio di casacca: a trasformarsi devono essere i partiti, perché Destra e Sinistra sembrano categorie superate, per giunta logoranti. Ad essere logorata, in realtà, è solo la Sinistra, e Depretis cerca di darle una base più solida in Parlamento, in nome di qualcosa che unisca gli eletti di là dalle ideologie. Il bene comune? Senza dubbio, ma cosa è comune agli uomini dei fin lì opposti schieramenti?
«In buona coscienza fanno prima di tutto e soprattutto gli interessi loro propri, dei parenti, dei congiunti, degli amici, dei protetti, facendovi entrare, quando si possa senza proprio incomodo, anche quelli del pubblico»: qualunquista ante litteram, padre Carlo Maria Curci, ma, nel concedere che «Destri e Sinistri si dividevano e si dividono ancora così per i riguardi personali, per divergenze in particolari opinioni, ma quanto al principio generale l’uno vale sostanzialmente l’altro», ammette che il programma di Depretis abbia una solidità di fatto nellevidenza che ormai Destra e Sinistra sono termini «arcaici»Sbarazziamoci delle ideologie, si faccia largo a un sano pragmatismo che porti a confluire tutti gli uomini di buona volontà e di solido appetito in un bel Partito della Nazione.
Vabbè, qui sono andato un po oltre, perché Depretis e Minghetti non si azzardarono a immaginare di poter far confluire Sinistra e Destra in un partito unico. Uomini dellOttocento, cè da capire.

Dovendo sbarazzarsi delle ideologie per poter meglio conciliare i traffici e le spartizioni, era necessario liberarsi degli abiti che si erano indossati fino ad allora per officiare ai riti dello scontro tra chi era al governo e chi allopposizione. Lappartenenza ad una tradizione culturale diventava dimpaccio e chi ne coltivava il culto – si noti dal bisticcio che occupazione stronza – diventava un solenne rompicoglione, un idealista del cazzo, un seccante brontolone.
Quel gufo del Carducci, per esempio: «A questa nazione, giovine di ieri e vecchia di trenta secoli, manca del tutto lidealità... Uomini e partiti non hanno idee, o per idee si spacciano affocamenti di piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli vantaggi: dove si baratta per genio labilità, e per abilità qualche cosa di peggio; dove tromba di legalità e alfiere dellautorità è la vergogna sgattaiolante tra articolo e articolo del codice penale». Peggio di uno Zagrebelsky, via, quasi un Davigo.
Per fortuna non mancò chi seppe dare una copertura culturale alloperazione. Provate a indovinare. Bravi, fu quella merdaccia di Benedetto Croce: non importa se il politico sia onesto o meno, limportante che è sia bravo. Bravo a che? Che domande, bravo a far politica, che è scienza dell’utile. Utile a chi? Basta con le domande, ché Sua Eccellenza ha cose più importanti a cui pensare, ha da scrivere un saggio sulla poesia barocca e non può perdere tempo a battibeccare sui social. Date tempo al tempo, aspettate che tutto questo schifo diventi fascismo e vi concederà di venerarlo come iconetta dell’antifascismo. Riempitelo di like, ché ci tiene tanto.

lunedì 9 maggio 2016

[...]

Cè da supporre che, se ci fosse stato il quadrumane, il posto a tavola sarebbe costato duemila euro; di Matteo Renzi, invece, cera solo il braccio destro, quello addetto ai lavori sporchi, e la cena ne costava solo cinquecento. Chi cera dice che Luca Lotti è stato perentorio: «Matteo è disposto a perdere anche Roma, ma Napoli deve essere nostra». A questo – dice chi cera – la sguessa della Valente è parsa ancora più volitiva, tanto che di profilo non aveva nulla da invidiare alla prua di Mascalzone Latino. Sul volto dei verdiniani e dei cosentiniani – dice – è passata una rapida espressione di commozione per tanta fiducia accordata loro, ma da uomini tutto dun pezzo lhanno subito affogata in battutacce indirizzate a Bassolino, fra le quali la più divertente è risultata quella in rima con bucchino. Uommene scic e femmene pittate, il Vesuvio guardava, ma molto strafottente. 

Frasi che costeranno care / 2

Dellintervista che ieri sera Matteo Renzi ha concesso a Fabio Fazio (Che tempo che faRaitre, 8.5.2016) stamane ogni quotidiano ha dato il resoconto con scrupolosa analisi in dettaglio, ma nessuno sembra aver trovato alcunché da ridire su un passaggio che a me pare contenga unaffermazione estremamente grave, e mi riferisco a quella che fotografa una patologia ormai cronica nel nostro sistema politico, quella che ha trasformato il governare nelle leggi, e cioè nellambito delle leggi, nel governare mediante le leggi, che poi è un modo di sottrarsi al loro controllo (cfr. Giovanni Sartori, Democrazia: cosa è, Rizzoli 2006). Con la consueta aria da gradasso, il Sommo Cretino ha sparato: «Io dico: “Cari giudici, fate il vostro lavoro, io faccio il mio: io devo fare le leggi, voi dovete applicarle”».
Tu devi fare le leggi? E allora il Parlamento a che serve? Domanda retorica: serve solo a convertire in legge i decreti del Governo, tutti coperti dalla foglia di fico dellurgenza. Come non dargli lopportuna delega, al Governo, quando si è dei semplici cooptati dalle segreterie dei partiti che lo sostengono? Fanculo alla separazione dei poteri: esecutivo e legislativo possono ben stare in capo a una sola persona, meglio se poi cumula le cariche di Presidente del Consiglio e di Segretario del partito di maggioranza relativa, che lapposita legge elettorale trasformerà in assoluta. Perché tutto proceda in modo snello, togliamo lintoppo di una seconda Camera, e poi che manca? Ah, sì, manca che al Quirinale ci sia un Mattarella e al Csm un Legnini: presto, portate una corona dalloro, ché il gradasso la pretende. 

Frasi che costeranno care / 1


Quando Renzi ripete che andrà a casa in caso di sconfitta al referendum che si terrà ad ottobre, è chiara la consegna ai suoi: ogni mezzuccio è lecito per incassare il risultato, sennò tutti si torna ad essere insignificanti merdine, proprio come si era prima. Comprensibile che a dare il meglio debba essere la Maria Elena, che a toglierle la poltrona di sotto tornerebbe buona solo per qualche comparsata in discoteca, come spetta di diritto a chi ha partecipato a una edizione del Grande Fratello. E allora eccola: «Chi voterà no alla riforma costituzionale si metterà sullo stesso piano di Casapound». Frase da appuntare, per quando ci sarà da pagare il conto. 

Come fosse il Leicester, si fa per dire


Non cè una Chirico, non cè un Manconi, non cè un Cerasa, non cè un Bordin, non cè neppure un Rondolino, un Facci, un Taradash che spenda una parolina per il poveretto – si fa per dire – accusato di aver gettato dallottavo piano di un palazzone di Caivano una bambina di sei anni dopo averla stuprata. I disegni della vittima, le testimonianze di alcune sue amichette, qualche intercettazione telefonica: tutta roba che un garantista di quelli in servizio permanente non avrebbe alcuna difficoltà a ridurre al classico pugno di mosche, per passare subito ad accusare gli inquirenti.
E invece niente, non cè uno straccio di giornale che ci provi, neppure Il Foglio, che di solito non lascia mai un fetente senza assistenza legale, e più fetente è, più lassistenza è generosa, perfino temeraria. Zero, nessuno ci rammenta che il poveretto – si fa per dire – è da considerare innocente fino a condanna definitiva, eventualmente pure dopo: nessuno, in questo caso, a difendere il principio. Neppure per lucrare un po di quellattenzione che non si nega mai a chi difende il principio a dispetto di tutto. Neppure per una scommessa di quelle sul Leichester, metti caso saltasse fuori che il colpevole è un altro.
Sarà che in questo caso il reato è davvero abominevole. Sarà che limpianto accusatorio è più solido che in altri casi. Sarà che il poveretto – si fa per dire – ha dei precedenti. (Pardon, come non detto, per un vero garantista i precedenti tornano a favore dellaccusato.) E però il poveretto – si fa per dire – piange in carcere, e si dichiara innocente, e in sostanza lo è davvero, perché non è stato condannato neanche in primo grado per il reato che gli è contestato. Non è un politico, non è un imprenditore, capisco, ma è possibile non ci sia un cane a prenderne le difese?
Io? Neanche a pensarci, e poi può darsi che sia vero quel che si mormora, può darsi che, a forza di leggere Kant prima di andare a letto, io sia diventato un giustizialista. No, io non mi azzardo. Aspetto che per il presunto – solo presunto – assassino della piccola Fortuna qualcuno spenda almeno la metà della metà della metà di quanto spende per Uggetti o Cosentino. Ci conto. Come fosse il Leicester. 

sabato 7 maggio 2016

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«Mi basta accavallare le gambe»


Ho letto molti commenti allintervista che Piergiorgio Morosini ha concesso ad Annalisa Chirico (Il Foglio, 5.5.2016), ma in nessuno mi è parso sia stato dato il dovuto peso alla cornice. Ci si è soffermati a considerare se una chiacchierata informale possa considerarsi intervista, se sia stato corretto titolarla con un virgolettato non contenuto nel testo, se le frasi attribuite al magistrato rispettino fedelmente quel che ha veramente detto: questioni dun certo interesse, non voglio sottovalutarne il peso, ma del tutto irrilevanti rispetto a quanto avrebbe dato occasione al colloquio.
Non smentita al riguardo nelle precisazioni che Morosini ha fatto seguire al vespaio sollevato dall’articolo, Chirico riferisce che si trovava a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, per tuttaltra ragione che un incontro col magistrato, e che da questi, per linterposta persona di un suo assistente, è stata invitata ad un colloquio nel suo ufficio: «Dottoressa, mi scusi, il dottor Morosini lha vista passare nel corridoio e vorrebbe salutarla». A mio modesto avviso, è qui che quanto segue perde ogni importanza, perché al magistrato non poteva sfuggire che la persona con la quale si disponeva a chiacchierare fosse una giornalista da sempre impegnata su un fronte opposto a quello espresso dalla corrente di Magistratura democratica, di cui egli è autorevole esponente, e che dunque qualsiasi affermazione si fosse lasciato scappare su temi relativi al rapporto tra politica e giustizia avrebbe potuto essere opportunamente lavorata a suo danno. Delle due, una: o Morosini è uno sprovveduto o si è scientemente costruito la trappola in cui si è poi lasciato cadere.
Questa seconda ipotesi è la più affascinante, perché a sostenerla potrebbero esservi solo ragioni luciferine. Tanto luciferine che non mi azzardo neppure a prospettarle, implicherebbero scenari fantapolitici. Diversamente, saremmo in presenza solo di un povero diavolo. Che vede passare davanti al suo ufficio la teorica del «siamo tutti puttane», quella che mena vanto di darla preferibilmente ad anzianotti prestigiosi, e tenta lacchiappo, per giunta servendosi di un assistente, va a capire se per evitare di beccarsi di persona un due di picche o per dar sfoggio della servitù alle proprie dipendenze. In questo caso, sarebbe facile trovare spiegazione a tutto, ma con un po’ di rammarico nel dover rinunciare alla fantapolitica. «Mi basta accavallare le gambe per disporre meglio il mio interlocutore», spiegò la giornalista qualche tempo fa (Il Foglio, 26.6.2013), e qui linterlocutore vi si sarà ottimamente disposto. Neanche avrà detto niente di tremendo – né più, né meno, probabilmente, di quanto ha detto Piercamillo Davigo a giornalisti assai meno accavallanti – ma ci avrà messo un po più ardore e, voilà, avrà davvero assunto le parvenze di una sanguinaria toga rossa. 

giovedì 5 maggio 2016

Cerchiamo di non ridicolizzare il garantismo

Gianluca De Feo (la Repubblica, 4.5.2016) scrive di aver letto le carte e di non aver bisogno che si celebri il processo per esser certo che Simone Uggetti abbia commesso «un reato grave», ma di ritenere eccessiva la misura cautelare della sua detenzione in carcere in attesa che il processo si celebri. In linea di principio, direi che fili, perché chi ha certezze da giudice di Corte di Cassazione può ben permettersi di fare un cazziatone a un gip. In pratica, però, direi non fili troppo, perché De Feo è solo un giornalista. Garantista, si potrebbe aggiungere, se non fosse che non attende neppure il primo grado di giudizio per dichiarare fondato, e «tutto fondato», limpianto accusatorio del pm. In realtà, nemmeno aspetta che lavvocato difensore di Uggetti apra bocca per aver modo di dimostrare che eventualmente non lo sia: per esser certo che Uggetti abbia commesso «un reato grave» – un reato «che mina la competitività del sistema economico, favorendo l’arricchimento di cricche e camarille» – gli basta «la denuncia di una funzionaria, che ha registrato le riunioni con il sindaco, le email che la testimone ha consegnato, le intercettazioni telefoniche [che] descrivono con chiarezza la manipolazione del bando e la spregiudicatezza con cui un professionista interessato all’appalto entrava negli uffici e partecipava alla stesura del capitolato». Ma neanche è tutto, perché riesce a produrre perfino un argomento in favore della misura cautelare del carcere, che però – incomprensibilmente – contesta: riconosce che «Uggetti e il professionista riescono a venire a conoscenza dell’indagine e tentano di cancellare le prove», ma cosa recita lart. 274 del Codice di Procedura Penale? La misura cautelare è legittima – si legge – «quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per lacquisizione o la genuinità della prova». Perché non gli arresti domiciliari, invece del carcere? Nel suo dispositivo il gip lo spiega, e De Feo ne prende atto – «con l’attuale progresso tecnologico è impossibile monitorare e controllare gli indagati» – ma sembra che la spiegazione non lo convinca troppo, anche se poi non riesce ad obiettare altro che allora si tratterebbe di «una valutazione sull’obbligo del carcere che può essere applicata a chiunque». E anche qui sbaglia, perché non tutti gli indagati vengono pizzicati a confabulare al telefono sul miglior modo per far sparire dai loro pc le prove del reato che hanno commesso e del quale in sostanza si autoaccusano: è con questa condotta che si realizza un «concreto ed attuale pericolo» a danno di un giusto processo, condotta che direttamente o indirettamente può essere agevolmente reiterata avendo a disposizione anche i più elementari strumenti elettronici di cui ogni casa è ormai piena.
Un garantista un po confuso, direi, ma è ancora niente a confronto di Francesco Merlo (la Repubblica, 5.5.2016), che riprende gli stessi argomenti e li pompa a dismisura, senza per questo renderli più convincenti. Vale la pena, tuttavia, di farsi largo nella lussureggiante selva del suo articolo per affrontare un altro tema che pure era stato sollevato da De Feo, ma non con gli stessi toni febbricitanti. Dove, infatti, il gip ha scritto che «la personalità negativa dei due imputati porta a ritenere con decisa verosimiglianza che gli stessi abbiano potuto sistematicamente gestire la cosa pubblica con modalità illecite», a De Feo sembra che «si pass[i] dalla presunzione di innocenza alla presunzione di colpevolezza, senza che negli atti ci sia anche una sola traccia di altri crimini». In realtà, una «verosimiglianza», ancorché «decisa», non fa capo di imputazione, mentre è del tutto evidente che una pratica illecita resa possibile da un ruolo o da una funzione sia illimitatamente reiterabile al persistere delle condizioni che rendono attivi quel ruolo o quella funzione. Così per quanto si porrebbe con laffermare che i due imputati abbiano dato segno di «personalità negativa» o, come tiene a sottolineare Merlo citando un altro passaggio del dispositivo firmato dal gip, «abietta e negativa»: robe – scrive Merlo – che «avrebbero spaventato Robespierre e confortato Stalin». Un giudizio morale o, peggio, psicologico? Manco per niente: laggettivo «abietto» è duso comune nel Codice Penale, mentre il termine «personalità» vi ricorre con analoga frequenza senza che abbia alcun riferimento allambito morale o psicologico del soggetto interessato, ma solo a quello relativo allesercizio della sua capacità giuridica. Merlo si straccia le vesti per uno scandalo che non sussiste: il gip si è limitato a considerare che il reato di cui i due indagati si sono autoaccusati «desta notevole allarme sociale» in forza della «sua gravità e negatività, per le ricadute pubbliche che comporta», e che, commettendolo, essi «hanno dimostrato assoluta spregiudicatezza non solo nelle modalità concrete tenute nel delinquere, ma portando avanti con protervia i loro fini, intraprendendo attività volte a distruggere ed eliminare tracce del loro accordo illecito». E che cè di tanto scandaloso nellaffermare questo?
Benedetto sia il garantismo, sempre, ma cerchiamo di non ridicolizzarlo a questo modo. A differenza di De Feo e di Merlo, per i quali pare scontato che Uggetti e il suo compare siano colpevoli del reato loro ascritto, anche se poi si tratterebbe solo di poche migliaia di euro, quindi basterebbe una tiratina d’orecchio ciascuno perché la società possa sentirsi risarcita del danno inflitto alla credibilità delle istituzioni, prim’ancora che all’erario pubblico – a differenza di De Feo e di Merlo – io non so se quei due siano colpevoli o meno. Per meglio dire, ne ho una mezza idea, ma aspetto un’eventuale condanna definitiva per dire che sono due mariuoli. Perché sia una condanna giusta, se condanna avrà da essere, voglio che gli elementi di prova non siano inquinati o addirittura sottratti alla formazione di un corretto giudizio, sarebbe altrettanto grave che se ne producessero di falsi per condannarli ingiustamente: ogni garanzia in favore degli indagati non può e non deve ostacolare la formazione di un corretto giudizio. Benedetto il garantismo, dunque, ma evitiamo che il garantista si riduca alla patetica macchietta del portaborse dellavvocato difensore.