martedì 9 maggio 2017

Una pagina di Avvenire

Un «dibattito» – prendo la definizione che ne dà il De Mauro – dovrebbe essere una «discussione di più persone nella quale le diverse opinioni vengono discusse e vagliate». Avvenire parte male fin dallocchiello, dunque, nel presentare come «dibattito» i tre interventi pubblicati a pag. 3 del numero in edicola martedì 9 maggio, perché questi non esprimono affatto «opinioni diverse»: Lucio Romano (Disposizioni o dichiarazioni: la differenza è di sostanza), Gian Luigi Gigli (Ridurre la portata negativa di una legge nata male) e Carmelo Leotta (Se un pm afferma che una vita vale meno) hanno un dichiarato idem sentire sulle tematiche relative al «fine vita» e a tutti e tre non vanno affatto bene le Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento approvate alla Camera lo scorso 20 aprile.
Più che un «dibattito», insomma, Avvenire manda in pagina un monologo a tre voci, e a tanto, già di per sé irritante, aggiunge il carico, francamente insopportabile, di dar conto delle possibili «opinioni diverse» unicamente attraverso l’infedele esposizione che ne fanno i tre prestigiosi avanzi di sagrestia chiamati a intervenire sul tema. Un modo molto disonesto di procedere, perché neppure il fatto di essere un organo di partito – cosaltro è, la Cei? – solleva Avvenire dall’obbligo di dare una corretta informazione ai suoi lettori. Ma veniamo al merito.

«Le disposizioni anticipate di trattamento – scrive Lucio Romano – si rappresentano come estensione nel tempo di un consenso informato anticipato [ma] solo ad una lettura generica […] possono essere assimilate al consenso informato, [che] è accettazione libera, cosciente, attuale, revocabile e consapevole del paziente a sottoporsi ad un atto medico, con una informazione preliminare, adeguata e specifica, circa benefici, rischi, complicanze correlate o prevedibili».
Bene, tutto questo verrebbe meno col concedere ad un individuo il diritto di decidere per tempo sul proprio «fine vita», perché «le “disposizioni” esprimono volontà vincolanti da seguire quando non più in grado di esprimersi». In più, «non sono assimilabili al consenso informato perché, seppur stabilite in libertà e consapevolezza, non potranno essere mai attuali perché redatte “ora per allora”; dovranno essere prevalentemente generiche non potendo definire lo specifico; non sono informate in quanto formulate prima dell’insorgere della patologia, senza conoscenza di circostanze e modalità; non potranno essere più revocabili in situazione di irrecuperabile incapacità di intendere e di volere».
La natura capziosa di questargomentazione si rivela al solo controbattere che in questione è quello che comunemente è detto «biotestamento», e cioè un testamento relativo alla vita, inteso come bene personale del quale è lecito disporre come meglio di creda. Superfluo rammentare che, al pari di ogni testamento, anche quello relativo al «fine vita» può avere revisioni senza limiti.
Accogliendo le obiezioni di Lucio Romano, non dovrebbe esserci permesso di far testamento su alcun bene di nostra proprietà. Non dovremmo forse ritenere valide le disposizioni di quanti hanno lasciato i loro averi alla Chiesa? Certo, hanno deciso in libertà e consapevolezza, ma il loro testamento fu redatto “ora per allora”, senza poter essere più revocabile in situazione di irrecuperabile incapacità di intendere e di volere. Dovremmo ritenere nulle, perché illegittime, quelle disposizioni? Lo Stato dovrebbe procedere alla confisca di tutti quei beni che nel corso dei secoli tanti privati cittadini hanno lasciato alla Chiesa?
La fin troppo prevedibile controbiezione a questa che in realtà – confesso – è una provocazione (voleva provocare proprio una controbiezione del genere) è la seguente: la vita non è un bene di cui si possa liberamente disporre. Bene, ma allora, prima di contestare la legittimità di quanto viene concesso al cittadino nelle Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, si chieda al Parlamento di approvare una legge che sanzioni il tentato suicidio, anche quando non sia assistito. Per il suicida che riesca nel suo intento, infatti, sarà impossibile procedere (ci penserà Dio a ficcarlo nel girone dei violenti verso se stessi), ma a chi fallisce spetterebbe una pena, e severa. Vedete a cosa costringe, uno come Lucio Romano? A prenderlo sul serio, e con quanto ne consegue. 
E già accaduto, perché lho conosciuto personalmente. Era un assistente nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dove io facevo il praticantato di specializzando, e un giorno mi chiese di procurargli qualche immagine ecografica di embrione alla sesta o settima settimana di gestazione, ne doveva ricavare delle diapositive per i sermoni pro-life che a quei tempi – parlo degli anni a cavallo dei Settanta e degli Ottanta del secolo scorso – teneva per conto di Carlo Casini, lallora presidente del Movimento per la vita. Quando gliene diedi una mezza dozzina, le guardò deluso: «Non si poteva far di meglio? Sembrano solo fagiolini». Gli risposi: «Quello sono, Lucio, tutto il resto spetta allimmaginazione».
Ma divagavo, torniamo alla pagina di Avvenire.

Il secondo intervento, a firma di Gian Luigi Gigli, che di Carlo Casini ha preso il posto, mira a reclutare forze per impedire che la legge approvata alla Camera superi il vaglio del Senato.
«È giunto il momento – scrive – di chiedersi se c’era davvero bisogno di una simile legge». [Invece di «c’era», forse, andava meglio «ci fosse», ma possiamo chiudere un occhio, perché Gigli non è un grillino.] La risposta? «Certamente no, se l’intenzione era di evitare situazioni di ostinazione terapeutica. La medicina ha superato ogni tentazione in tal senso e, se non fosse bastato, le esigenze di controllo della spesa sanitaria e l’intervento degli ordini dei medici avrebbero potuto dissuadere qualunque nostalgia di accanimento».
Un brivido di orrore ci corre lungo tutto il rachide: sono le esigenze di controllo della spesa sanitaria tra i motivi a dissuadere dallaccanimento? Ma poi: chi potrebbe averne nostalgia? Insomma: chi è il nostalgico dellaccanimento terapeutico che si piega dinanzi a basse ragioni di natura economica quando è in gioco la vita, peraltro inteso come bene indisponibile a chi ne è titolare? La sensazione è che sarebbe difficile poter avere una risposta, quindi procediamo.
Inutile, la legge, «se si voleva garantire la possibilità di rifiutare l’avvio di trattamenti non desiderati. La redazione del consenso informato è obbligatoria negli ospedali e un medico non potrebbe imporre trattamenti senza ricorrere all’intervento dei carabinieri ed esponendosi a rischi e rivendicazioni». Certo, ma il concetto di «consenso informato» si è storicamente affermato a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti delluomo (1948), che la Santa Sede si è sempre rifiutata di riconoscere proprio per quanto in esse vi è affermato relativamente alla «libertà della propria persona» (art. 3).
Va inoltre rammentato che il Catechismo della Chiesa Cattolica recita che, «anche se la morte è considerata imminente, le cure che dordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte» (2279). È questo, infatti, il punto di caduta dellargomentazione di Gigli, per il quale «obiettivo reale [della legge sul biotestamento] era evidentemente un altro: permettere l’interruzione di qualunque trattamento», con riferimento alle «cure che [il Catechismo ritiene] d’ordinario dovute», come si esplicita col dire «assurdo» che una legge definisca «terapie» l’idratazione e la nutrizione assistite, «per renderle rifiutabili in qualunque momento».
E qui siamo di nuovo costretti alla provocazione. Sembrerebbe, infatti, che non si voglia tener conto di cosa esattamente si intenda per idratazione e nutrizione assistite. Perché queste possano essere messe in atto, occorre personale medico qualificato, con lespletamento di procedure relativamente complicate, e per mezzo di strumenti che sono propriamente clinici: come ci si può azzardare a non considerarle «terapie»? Parliamo di tubi e siringhe, non di acqua e pane. E perché un malato non avrebbe il diritto di rifiutare un sondino nasogastrico, se poi può rifiutare una qualsiasi infusione che anche lo stesso Gigli sarebbe disposto a concedere costituisca «accanimento terapeutico»?

Col terzo intervento mandato in pagina da Avvenire possiamo cavarcela più brevemente.
Carmelo Leotta se la prende col pm che ha fatto domanda di archiviazione per Marco Cappato, autodenunciatosi per aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera, aiutandolo in tal modo ad esaudire la sua volontà di procedere ad un suicidio assistito, e scrive che «l’articolo 580 parla chiaro e stabilisce che “chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni”», mentre invece nelle motivazioni alla richiesta di archiviazione viene affermato un «principio di dignità [che] impone l’attribuzione a tutti coloro che vivono in condizioni gravissime o irreversibili, percepite dal malato come lesive del senso della propria dignità, “di un vero e proprio diritto al suicidio”, esigibile non solo in via indiretta con la rinunzia alla terapia ma anche in via diretta, con l’assunzione di una “terapia finalizzata allo scopo suicidario”», e questo gli pare scandaloso, perché così si affermerebbe una grave disparità di diritti, che in apparenza sarebbe in favore del soggetto ammalato e a scapito del soggetto sano, ma che in realtà farebbe passare il principio che «la vita del malato “vale” meno della vita del sano, visto che il primo ne può disporre, e il secondo no».
L’eleganza con la quale ci è presentato il sofisma non ci consente di liquidare anche qui l’argomentazione con una provocazione. Verrebbe, sì, di tagliar corto obiettando che, tanto per fare un esempio, anche nel caso della legittima difesa una vita (quella dell’aggressore) finisce col “valere” meno di un’altra (quella dell’aggredito), ma che al momento il Codice Penale (art. 52) continua a contemplarla come «legittima», così consumando quella che per Leotta sarebbe «una insanabile violazione del principio di uguaglianza». Verrebbe da esortarlo a portare l’art. 52 dinanzi alla Consulta, e subito, perché lì dentro passa un’intollerabile differenza di “valore” che ci sarebbe tra vita e vita. Verrebbe, ma rinunciamo.
Lasciamo che dinanzi alla Consulta vengano portati gli artt. 579 (Omicidio del consenziente) e 580 (Istigazione o aiuto al suicidio), ma poi non mettiamo cruccio al musetto se saranno dichiarati incostituzionali sulla base delle stesse motivazioni che il pm ha addotto in favore dell’archiviazione. Se ci si appella alla legge degli uomini, non sempre si ha risposta illuminata dalla legge di Dio. E siamo sicuri che Leotta non abbia bisogno di esempi. 

giovedì 4 maggio 2017

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Con le modifiche che la Camera dei Deputati apporta allart. 52 del Codice Penale («Difesa legittima»), viene accolto lemendamento che inserisce dopo il primo comma il seguente testo: «Si considera legittima difesa, nei casi di cui all’art. 614 , primo e secondo comma, la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia o con inganno».
Non ha alcun fondamento, dunque, quanto lascia intendere Matteo Salvini scrivendo: «Legittima difesa, per il PD un cittadino si può difendere se è “aggredito di notte”. Quindi di mattina e pomeriggio tutto è lecito?». Né ha ragion d’essere quanto ha affermato Silvio Berlusconi, che di rincalzo ha parlato di una «norma troppo blanda»
Niente affatto, inemendabili teste di cazzo, perché con la riforma dellart. 52 si considera legittima difesa non solo «la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte», ma anche quella «a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose», e senza alcuna restrizione relativa allora del giorno in cui questo accada, né contemplando eccezione di sorta in favore di chi «sintroduce nellabitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi sintroduce clandestinamente o con inganno» (art. 614). E che volete di più?

martedì 2 maggio 2017

[...]


Dieci anni fa andava in onda la prima puntata di Boris, una delle più riuscite allegorie dellItalia doggi. Anche chi abitualmente ha in uggia gli anniversari non può fare a meno di celebrare un evento che da mera ricreazione si eleva a riflessione fenomenologica.

Uno stronzo a forma di serpente, sì, ma non solo

Si trattasse solo della sua parabola umana, potremmo anche fare a meno di occuparcene, perché quella di Matteo Renzi è del genere che non offre alcun interesse particolare. Noto il fuoco, nota la direttrice, nota la formula che ne genera la curva, noti i valori che ne determinano il profilo, quale che sia il piano sul quale possiamo andare a considerarla come percorso personale, apologo morale o caso clinico, è parabola che sappiamo come sale e che sappiamo come scende. Lungo tutta la salita, d’altronde, abbiamo visto confermati tutti i caratteri di questo genere di curva, mentre dal 4 dicembre ad oggi, in questo primo tratto di discesa, ne abbiamo puntualmente avuto il riscontro atteso.
Potremmo, insomma, lasciar perdere Matteo Renzi, dedicandoci a questioni più interessanti, per limitarci a metterci una pietra sopra quando tra tre o quattro anni sarà tornato da dovera partito, ma coperto di merda. E invece occorre occuparcene, perché alla sua parabola umana sembra ormai indissolubilmente legata quella di una parte del paese.
A scanso di equivoci, però, chiariamo: Matteo Renzi non nasce dal nulla per legare indissolubilmente a sé il Pd con chissà quale fatale e subdolo sortilegio. Senza voler affatto sottovalutare gli strumenti che gli hanno permesso di trasformarlo in un partito personale, è il caso di aprire gli occhi su ciò che il Pd era fin dalla sua nascita, e che spesso pare sia rimosso, per piegare alla vulgata della «mutazione genetica» che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista.
Il rimosso è che, almeno in nuce, il Pci aveva, fin dal 1975, acquisito i tratti di quel partito socialista borghese (cfr. Gian Franco Venè, La borghesia comunista, SugarCo 1976), che «corrisponde al suo proprio carattere solo quando diventa pura figura retorica» (Karl Marx/Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, 3, 2). Di questa figura retorica del socialismo era riuscito a conservare i tratti fin dopo la Svolta della Bolognina, quando, peraltro senza alcuna elaborazione critica del suo più prossimo e recente passato, cominciava a dirsi socialdemocratico, per diventare sempre più solido cooperante della trasformazione cui intanto il capitale andava incontro, a fronte del processo di globalizzazione del mercato. Restava solo la blairizzazione del partito in cui il Pci-Pds-Ds andava a confluire, per dare pienamente conto delle politiche sempre meno «di sinistra» del Pd, e tuttavia rivendicate come tali, con una temeraria faccia di culo. [Per citare solo due dei più recenti tentativi di accreditare come partito «di sinistra» quello che ormai sarebbe il caso di ribattezzare PdR (Partito di Renzi), bastino quelli di Francesco Cundari con «Lottimismo è di sinistra (e pure marxista)» (Left Wing, 17.1.2017) e «Una Leopolda gramsciana» (lUnità, 14.3.2017), che è difficile dire se più irritanti o esilaranti.]
Il fatto che Matteo Renzi vinca le primarie del Pd con il 68% nel 2013 e con il 71% nel 2017, dunque, non è da interpretare come investimento sulluomo che promette di dare al partito una salda e duratura egemonia culturale e politica, costi quel che costi, fosse pure il rendere sempre più problematico poterlo dire (anche solo in parte, e per «pura figura retorica») «di sinistra». Al contrario, rivela in una consistente parte di quell’elettorato che cominciò a votare il Pci dal 1975 in poi, per rimanervi fedele mentre diventava Pds, e poi Ds, fino a confluire nel Pd, un acquistato disinteresse per quella «pura figura retorica» del socialismo che prima sembrava indispensabile a far da velo a un partito borghese, dunque sostanzialmente prono alla logica del capitale.
Un punto, tuttavia, resta da chiarire sul perché, e sul come, sia venuta a mancare la preoccupazione di salvare almeno le apparenze, fino a sentire rivendicare quasi con orgoglio una sostanziale neutralità ideologica nell’analisi dei problemi e nella ricerca delle soluzioni. [È il caso, per esempio, delle politiche riguardanti il flusso di migranti dalle coste africane verso quelle italiane: dopo aver affermato che «il problema della sicurezza non è di destra, né di sinistra», si è passati a rivendicare come senza dubbio «di sinistra» la soluzione dei Cpr avanzata da Marco Minniti in forza della sola ragione che sarebbero più efficienti dei Cie, così come definiti nel 2008 dal governo allora presieduto da Silvio Berlusconi, e con Roberto Maroni agli Interni: stessa logica concentrazionaria, ma – appunto – più efficace, e senza alcuna rottura rispetto al modo in cui il centrodestra concepiva e affrontava il problema.]
Senza addentrarci troppo nelle dinamiche socio-economiche che hanno cambiato corpo e faccia al ceto medio negli ultimi trentanni (con una sensibile accelerazione negli ultimi venti, diventata convulsa negli ultimi dieci), potremmo semplificare dicendo che la crisi in cui è precipitato sul piano economico, prima, e su quello culturale, dopo, ha sottratto il lusso di poter essere «di sinistra» a buona parte di quellelettorato che dal 1975 in poi ha preso a votare Pci-Pds-Ds-Pd, finendo infine per toglierle anche il lusso di onorarne almeno la «pura figura retorica».
In buona sostanza, parliamo di quella «aristocrazia operaia» che non è affatto da intendere come la parte degli operai meglio pagati, ma come quelleterogeneo insieme di dirigenti e di funzionari di partito e di sindacato, di intellettuali (giornalisti, scrittori, ecc.) in maniera diretta o indiretta orbitanti attorno al Pci, prima, e al Pd, poi, e dei parlamentari, dei consiglieri regionali, provinciali e comunali in rappresentanza nazionale o locale del partito (cui ovviamente vanno aggiunti i componenti dei loro staff e quantaltri adibiti in pianta stabile alle attività di propaganda sovvenzionate dal partito).
Per il progetto di «egemonia culturale» perseguito dal Pci fin dai primi anni dellultimo dopoguerra, quando gli accordi di Yalta sbarrarono la strada ad ogni soluzione violenta per la presa del potere in Italia, questa «aristocrazia operaia» è venuta a rappresentare una consistente porzione della base elettorale comunista, ampliandosi nei numeri proprio grazie alle politiche sociali promosse dal Pci nel regime di sostanziale consociativismo pattuito con la Dc.
Scrive Venè nel lavoro già citato: «La borghesia comunista è composta da borghesi che, con il loro voto, hannofatto del Pci un partito candidato ad entrare nellarea del potere. Quali interessi e quali prospettive può avere un borghese per offrire il proprio suffragio a una forza politica che, per propria natura, dovrebbe essere “antiborghese” e “anticapitalista”? […] Tutto ciò pone il Pci di fronte a una serie di scelte essenziali, delle quali si cerca di non parlare mai, e meno che mai nellimminenza delle elezioni. Quale atteggiamento può assumere, concretamente, un partito che nasce dal movimento operaio nei confronti dei milioni di borghesi che si sono giovati delle lotte sindacali per mantenere i propri privilegi parassitari partecipando allo sfruttamento della classe operaia? In base a quali criteri il Pci può selezionare, allinterno degli strati borghesi, i voti realmente utili alla formazione di una nuova società da quelli suggeriti dallopportunismo o da una semplice fiducia nelle riforme “tecniche” proposte dagli efficienti quadri di partito? E soprattutto: a quali voti “borghesi” il Pci dovrebbe rinunciare per tener fede ai suoi programmi di rinnovamento?».
È da correggere, dunque, lidea che in questi ultimi anni si è fatta strada anche nelle analisi dei commentatori politici più acuti: con il PdR non siamo dinanzi alla «mutazione genetica» che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista, ma alla chiusura di quel lento processo che ha portato con successo la «borghesia comunista» a marginalizzare la base elettorale tradizionalmente «di sinistra», per renderla dapprima solo esornativa, quasi esclusivamente epidittica nella narrazione del partito «di (centro)sinistra», fino a espellerla di fatto dal partito. Basti pensare che da tempo in Parlamento non siede un solo operaio sui banchi del Pd, mentre abbondano figure dell«aristocrazia operaia», insieme a imprenditori e notabili di questo o quel potentato. Matteo Renzi non ha democristianizzato il Pd: è la democristianizzazione del Pci iniziata nel 1975 ad essersi finalmente palesata in modo inequivoco, per finire col non avere nemmeno più bisogno di essere dissimulata.
Ecco perché la parabola di Matteo Renzi riveste un interesse che va ben oltre lo studio dellennesimo stronzo a forma di serpente, soprattutto adesso che il pieno controllo del Pd gli consente di non avere altri freni lungo la discesa. È chiaro che, per assecondare la sua malata smania, non potrà che stringere un patto col centrodestra un minuto dopo aver incassato il risultato delle prossime elezioni politiche, e alla perdita di consensi cui lo porterà la frettolosa rimozione della lezione del 4 dicembre si aggiungerà quella ulteriore conseguente alla grande coalizione che stringerà con Silvio Berlusconi, la cui vita non si prospetta facile, né lunga, a fronte delle spinte che verranno da un paese ormai avvitato in un declino dal quale potrebbe venir fuori solo con politiche sgradite tanto allelettorato del centrodestra quanto a quello del Pd, per quel che ormai è diventato. Matteo Renzi non consegnerà lItalia al M5S nel 2018, ma nel 2020 o nel 2021 senza meno.
È solo lì che la sua parabola toccherà il punto più basso, e quasi certamente gli risulterà assai più doloroso di quanto oggi sia in grado di immaginare, perché il «buon selvaggio» di Rousseau, contrariamente a quanto riteneva Rousseau, sa essere candidamente cattivo, praticamente una bestia.

martedì 25 aprile 2017

È un po’ come il 6 gennaio

È un po come il 6 gennaio. La cosa nasceva come Epifania, cioè come apparizione della divinità in forma visibile, così ci ragguaglia Wikipedia, con riferimento alla visita dei Tre Re Magi alla grotta in cui da poco era nato Gesù. In realtà, non erano tre e non erano nemmeno re, ma insomma, via, la cosa stava in piedi, e poi c’erano le statuine di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre a fugare ogni dubbio: tre, e re.
Poi, si sa che fine ha fatto, l’Epifania: cè voluto del tempo, ma è diventata una vecchiaccia a cavallo di una scopa, per giunta cambiando a tal punto il nome che oggi a chiederti donde venga il termine Befana è il Trivial Pursuit, e ovviamente parlo delledizione italiana, perché anche in questo noi italiani vantiamo la ben nota eccezionalità che ci accompagna da sempre.

Su cosa si commemori esattamente il 25 aprile non siamo forse allo stesso punto, daltronde dal 1945 sono passati solo 72 anni, però il tempo ci sta lavorando sopra, e occorre dire che anche qui promette altrettanto bene. Resta la Festa della Liberazione, al momento, ma, chissà, può darsi che di qui a qualche lustro sarà Festa della Libagione, una specie di Oktoberfest di cui solo gli storici sapranno rintracciare lorigine.
Intanto è ancora relativamente chiaro da cosa ci si è liberati, però il termine nazifascismo genera qualche ambiguità, nel senso che, insieme, cadde il fascismo e finì loccupazione dellItalia da parte dei soldati del Terzo Reich, ma più duna questione resta senza soluzione condivisa, al punto che si è convenuto di non riproporla più, sennò latmosfera di festa si sarebbe guastata.

Tanto per dire, in che misura sono da spartire i meriti della Liberazione tra partigiani antifascisti e Forze Alleate? Lidea di un paese che almeno fino al 1940, ma anche fino al 1942, era quasi interamente fascista fa nascere il problema di dove fossero nascosti tutti questi partigiani in grado, solo pochi anni dopo, di cacciare via i tedeschi, da soli, mentre inglesi e americani si limitavano a fare il tifo per loro, per rifocillarli di tanto in tanto con cioccolato e sigarette: tesi che, almeno oggi, nessuno sposa più, ma che per qualche tempo è scivolata nelle pieghe retoriche dellepica vulgata di un paese che non vedeva lora di liberarsi di Mussolini fin dall’indomani della Marcia su Roma, mentre ormai pacificamente si conviene che, salvo quattro gatti, l’Italia fu tutta fascista prima che il fascismo cadesse, e tutta antifascista quando cadde.
Chi vince finisce per convincere, non foss’altro perché col tempo i vinti devono adeguarsi, tutt’al più coltivando nostalgie in spazi molto angusti, dove peraltro non è raro riescano a tenere in vita il germoplasma di una pianta che intanto va in estinzione.
Non che la pianta che ne prende il posto ha vita infinita, perché la mancanza di cure può rinsecchirla, e così, in fondo, è accaduto con quella dell’antifascismo, prima irrigata con fiumi di parole, notte e giorno, per 365 giorni all’anno, e poi innaffiata solo il 25 aprile, e tanto per dar da vedere. Le radici quasi spaccavano il vaso, che infatti mostra qualche crepa, ma oggi, a guardarci dentro, è evidente che sono diventate vizze.

Della guerra civile che si concluse con la vittoria dell’antifascismo sul fascismo resta solo il lontano ricordo, scolorito come i petali del fiore che cogliemmo dai rami della Liberazione, quando il fusto era ancora rigoglioso. Sta in un libro che raccoglie le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, ma conviene non toccarlo nemmeno, sennò va in briciole. Conviene non riaprirlo nemmeno, il libro, sennò quelle lettere ci sembrano scritte invano.
Accontentiamoci del fatto che il 25 aprile non si lavora e si può passare la giornata coi nostri figli. Poi, certo, per chi voglia, resta l’occasione di frugare nelle memorie dei propri padri e dei propri nonni, per trarre dalla storia quello che può tornarci comodo, chessò, l’apologo consolatorio che ci assicura della sicura punizione che tocca a chi confida troppo nell’amore che sembrano mostrargli quanti lo scelgono a sollevarli dalla preoccupazione di essere liberi e responsabili. 


lunedì 24 aprile 2017

Corrispondenze

Gigi Manca mi chiede un commento su ciò che Beppe Grillo ha scritto a margine della discussione parlamentare sul biotestamento (Fine vitabeppegrillo.it, 22.4.2017), e con ciò mi mette in grande difficoltà, perché, al pari di molti altri testi a firma del comico prestato alla politica, anche qui è davvero temerario l’esser certi di aver capito tutto. Questo, d’altronde, è il motivo per cui, pur avendo spesso criticato le sue posizioni, non ho mai affrontato in dettaglio il modo in cui le esponeva, e sì che ho sempre ritenuto essenziale partire dal come ci si esprime per arrivare a capire cosa davvero si pensa. Qualche tentativo, in realtà, lho fatto, ma confesso di aver incontrato le stesse difficoltà che ebbi tanti anni fa quando lessi per la prima volta le Memorie di un malato di nervi di Schreber.
In generale, direi che Beppe Grillo non sappia articolare le proprie argomentazioni, per giunta quasi sempre scorrette (per conclusioni che seguono da premesse infondate) o invalide (per conclusioni non congrue a premesse che pure abbiano un qualche fondamento), procedendo a balzi e a tonfi in un caotico assemblaggio di avvilenti banalità e sgangherati paradossi, che in patenti svarioni lessicali, grammaticali e perfino ortografici danno forma a insopportabili sproloqui.
Anche quello sul quale Gigi Manca mi chiede un commento non fa eccezione, e tuttavia, pur a fatica, si riesce a rintracciare il fine che lo muove: lintenzione è quella di costruirsi una terza posizione tra chi è contrario al testo di legge passato alla Camera, e su di esso si prepara a dar dura battaglia al Senato, e chi invece lo ritiene solo un primo passo, per giunta timido, sulla strada che porta al diritto di scelta eutanasica.

Ve nè un buon donde. La scorsa settimana, intervistato da Cesare Zapperi per il Corriere della Sera, Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ha detto che «sono tanti i cattolici che partecipano alle iniziative del M5S» e che, «dal lavoro alla lotta alle povertà, nei tre quarti dei casi abbiamo la stessa sensibilità».
Sono affermazioni che hanno sollevato molti mugugni in campo cattolico, al punto che lintervistato si è dovuto affrettare a precisare di aver espresso solo opinioni personali. È innegabile, tuttavia, che questultimo pontificato abbia dato un forte accento populista alla dottrina sociale della Chiesa, rendendo suggestivamente simili su molti temi i fervorini di Bergoglio e le intemerate di Grillo. Tarquinio, insomma, ha fotografato una realtà di fatto, senza peraltro dimenticare di rilevare il punto sul quale la sintonia viene a cadere: «Non riesco a capire come [i grillini] possano portare fino alle estreme conseguenze il loro concetto di libertà su temi eticamente sensibili come quello del fine vita e dell’eutanasia».
Ecco, dunque, la necessità di rigettare laccusa di estremismo costruendosi una posizione favorevole al biotestamento, come daltronde lo è pure la gran parte di quanti in Italia si dichiarano cattolici (almeno a quanto riportano i sondaggi), ma decisamente contraria all’eutanasia, dunque ossequiosa alla dottrina morale della Chiesa. E come poteva essere resa meglio, questa contrarietà, se non con un attacco ai radicali, gli unici ad essersene fin qui fatti espliciti fautori, fino alla raccolta di firme a sostegno di un disegno di legge di iniziativa popolare che a tuttora riposa nei cassetti della Presidenza della Camera dei Deputati?

Grillo li aveva sempre ignorati, i radicali. Per rompere l’isolamento in cui le sue ciniche e opportunistiche giravolte lo avevano precipitato, Pannella gli twittava con la boccuccia a cuoricino: «Finalmente together? Lo sai che t’aspetto da tempo?», ma Grillo non lo degnava neppure di un freddissimo «no, grazie!». Allora da Pannella arrivavano gli insulti, perfino con qualche colpo basso: «Se rifiuti il dialogo, rifai l’errore per il quale anni fa un tribunale ti ha condannato: vai a sbattere, e ancora una volta sarai di danno a chi ti dà fiducia», e Grillo niente, neppure uno sdegnato «che miserabile!». Come non esistessero, i radicali. Che poi è il miglior modo per farli soffrire sul serio, visto che pure il parlarne male li esalta, dandogli comunque un segno che dunque esistono.
Mai esistiti, per Grillo, i radicali. Ora, invece, è il caso di prenderli in considerazione, ma solo per stornare nei loro confronti l’accusa di «portare fino alle estreme conseguenze il concetto di libertà su temi eticamente sensibili» che Tarquinio rivolgeva ai grillini, e dichiararsi equidistanti, di qua, da loro e, di là, dagli integralisti cattolici, che d’altronde, dal vecchio pontificato a quello nuovo, si sono ritrovati come orfani. In tal senso, non è da considerare poi tanto assurda la definizione che Bersani ha dato del M5S affermando possa essere considerato «una forza di centro». Su molti temi, infatti, col crescere dei consensi attribuitigli dai sondaggi, la cosa grillina ha già da tempo cominciato ad operare un sensibile riposizionamento mirante ad accreditarsi come affidabile forza di governo, e con lo stesso espediente che qui serve a presentare come moderata la posizione sul fine vita.

Col primo capoverso del suo lungo post, Grillo marca la distanza dai paladini dei «valori non negoziabili». Dovrebbe essergli più facile che marcarla dai radicali, ma stranamente s’avvoltola in modo assai infelice in una sconcertante serie di infortuni logici.
«In che modo – attacca – un parlamento, la legge scritta oppure ancora da scrivere, può contenere in sé la più grande paura dell’uomo?». È evidente che «la più grande paura delluomo» stia per perifrasi della morte, e già qui, allora, siamo dinanzi a una premessa infondata, peraltro affermata con la categoricità che «uomo» dà alla totalità degli uomini, fra i quali, invece, vanno considerati quanti hanno più paura di soffrire che di morire, e che proprio perciò ritengono di aver diritto ad uno strumento legislativo che consenta loro di scegliere, in una data situazione, la morte piuttosto che la sofferenza.
«Come possiamo pensare – prosegue – di trovarci tutti d’accordo su qualcosa, la fine della vita per come la conosciamo, che ognuno di noi vede e teme in modo differente?». Qui siamo dinanzi ad unaltra premessa infondata, ancorché formulata con l’espediente della domanda retorica. Se, infatti, è vero che non possiamo avere tutti le stesse opinioni riguardo alla morte, è pur vero che ciascuno può averne riguardo alla propria, e nel caso del biotestamento ciò che viene consentito a chi lo stende non implica un giudizio, tanto meno una disposizione attiva, sulla morte altrui, ma esclusivamente sulla propria.
«Nulla è più soggettivo della morte», dice Grillo, e infatti è proprio questo che sta in radice alla legittimità di poter decidere, quando possibile, del come e del quando sia più opportuna la propria morte. E dunque, sì, ciascuno può avere della propria morte unopinione diversa da quella di un suo simile, ma questo mette in discussione cosa realmente la morte sia? No, di certo. E allora che senso ha chiedersi in cosa consista «il passaggio dall’essere vivi al non esserlo più», lasciando intendere che non esista una risposta certa, peraltro proprio dopo aver opportunamente concesso che è possibile dare una definizione oggettiva («in modo scientifico») «dello stato di vita e quello di morte»? Dove vuol andare a parare, Grillo, con due premesse infondate, al momento lasciate in sospeso, e una fondata, ma che porta a conclusione che non le è assolutamente congrua?
È presto detto: «C’è solo una cosa chiara riguardo a questo tipo di argomenti: finiscono per diventare la passerella di schieramento politico preferita da coloro che non intendono affrontare la questione in sé ma, piuttosto, vogliono dispiegare come ruote di pavoni il loro colore morale. Invece di essere in contatto con temi potenzialmente sconvolgenti si approfitta per schierarsi, pronti a dichiarare “inaccettabile” oppure “inammissibile” l’argomento stesso». Non è evidente leco della condanna che Bergoglio ha in più occasioni scagliato contro i politici che pensano di poter far carriera usando in modo strumentale i cosiddetti «valori non negoziabili»?

Come marcare, invece, la distanza dai radicali? Sui contenuti relativi al fine vita è oggettivamente assai difficile (basta dare una scorsa agli interventi tenuti dai deputati del M5S nel corso della discussione sul testo di legge, dove è evidente quanto il diritto di autodeterminazione, che ha fatto da Stella Polare a più di una battaglia radicale, sia pienamente fatto proprio dagli argomenti in favore delle disposizioni anticipate di trattamento), e allora il bersaglio, anche abbastanza in vista, resta quello che, con qualche approssimazione per eccesso, potremmo definire habitus radicale. Faccio riferimento a quella supponenza tutta radicale nel pretendere di incarnare un superiore modello antropologico, che è sempre stato il fianco che i radicali hanno offerto ai loro critici, spesso con esiti catastrofici delle loro pur nobili iniziative.
«Ma neppure possiamo fare la fine dei radicali», dice Grillo. «La fine dei radicali»: già in questa locuzione sono evidenti tutte le ragioni che spingono Grillo allo smarcamento da coloro che – dice – «nascono da una posizione morale e basta, lì finiscono». Giudizio che potrà sembrare ingeneroso, ma che in fondo coglie la sostanziale differenza tra pannelliani e grillini, rimandando alla sostanziale differenza tra Pannella e Grillo: entrambi padroni di linea, roba e simbolo, entrambi istrionici, bizzosi e aggressivi, e poi contraddittori, cinici, opportunisti, stessi modi spicci e stessa voce grossa, entrambi insofferenti ad ogni critica interna o esterna al loro movimento – e qui lelenco dei tratti comuni potrebbe procedere ancora per lunga pezza – ma il primo aspirante al ruolo di papa laico (o almeno, come premio di consolazione, a un seggio di senatore a vita, semmai per prendersi lo sfizio di rifiutarlo prima e poi accettarlo, ma con sufficienza, come Dylan col Nobel), il secondo a quello di piccolo padre o di grande fratello.

[...] 

Caro Gigi, qui penso di potermi anche fermare. Il resto del post di Grillo, infatti, è tutto speso a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, qui col precisare che «il movimento non considera le posizioni morali, oppure religiose, come di meno o più qualificate ad esprimersi in questo senso», lì col puntare lindice sui «moltissimi parlamentari che si sono nascosti dietro improbabili atteggiamenti morali in cerca di un autore politico a cui asservirsi». In definitiva, direi che il post sia una lettera aperta alla Cei, la quale, vedrai, saprà leggerla come si deve. E comportarsi di conseguenza. Almeno fino a quando i sondaggi daranno il M5S attorno al 30%.

sabato 22 aprile 2017

Non vola una mosca

Per evitare di essere fraintesi – rischio che non dovrebbe mai essere sottostimato neppure da chi sappia contentarsi di essere in pace con la propria coscienza – sarebbe consigliabile non affrettarsi a entrare nel merito di una questione quand’essa è ancora in mano a quanti, per chiaro intento strumentale, ne stanno con successo stravolgendo i termini nei quali invece andrebbe correttamente posta: di qua e di là dalla linea che separa i fronti in campo, onestà intellettuale e rigore analitico risultano, in tal caso, parimenti intollerabili, finendo addirittura con lessere considerati via di fuga nel disimpegno. Se veramente la questione ci sta a cuore, occorre rinunciare alla pretesa che la ragione riesca a far sentire la propria voce fra gli strepiti, e aspettare che il frastuono si sposti altrove.
Spesso non c’è nemmeno da aspettar troppo, perché di solito a chi strepita la questione cade di mano dopo due o tre giorni, massimo quattro, mai più d’una settimana, per essere presto abbandonata nel disinteresse in cui abitualmente finiscono i pretesti che sulla scena del dibattito pubblico hanno vestito fino ad un istante prima i panni di problemi cardinali, principi non negoziabili, ragioni prime o ultime, e similari. È allora che può essere recuperata dal punto in cui è stata fatta cadere ed essere adeguatamente riformulata, semmai riconoscendo il merito di chi ha cercato di farlo, restando inascoltato.

Di questo genere mi pare sia la questione sollevata dalla tanto discussa puntata di Report sulle patenti lacune di cui gli organi deputati alla farmacovigilanza si sono fin qui rese responsabili nel controllo sugli effetti indesiderati di alcuni preparati vaccinali (sul punto mi pare non si possano sollevare obiezioni valide, visto che sono state ammesse perfino da Silvio Garattini, persona al di sopra di ogni sospetto in quanto a preconcetti relativi al mondo dell’industria farmaceutica): al netto di quello che si è arrivati a sostenere, o almeno ad insinuare, era questo il tema di quella puntata.
Non erano in discussione limportanza della pratica vaccinale in generale, né quella del vaccino contro linfezione da Papillomavirus, lì specificamente trattato. Non era in discussione neppure la necessità di una generale copertura vaccinale per quelle infezioni che, per pressoché unanime consenso del mondo scientifico e sennato recepimento da parte delle istituzioni pubbliche, da tempo hanno trovato la più adeguata soluzione nella obbligatorietà della profilassi. Nemmeno era in discussione che i casi di reazione avversa, più o meno dimostrabilmente associabili allavvenuta inoculazione di un vaccino, siano da considerare sempre un prezzo sociale enormemente inferiore rispetto a quello che si sarebbe costretti a pagare, e solitamente si paga, per le complicanze cliniche di quegli eventi epidemici che non di rado mietono vittime nei soggetti più deboli di una popolazione. Nulla, poi, lasciava adito a ritenere che gli autori dellinchiesta giornalistica intendessero affermare in qualche modo legittimo, per il medico, il poter opporre obiezione di coscienza in parola, atto od omissione alla pratica vaccinica o, per il cittadino, il poter fare richiamo al secondo capo dellart. 32 della Costituzione («Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario...») senza leggerlo per intero («... se non per disposizione di legge») e trascurando quanto lo precede, laddove al primo capo la salute non è intesa solo come «diritto dellindividuo», ma anche come «interesse della collettività» (ratio che proprio nel caso della vaccinazione obbligatoria trova il miglior esempio di balance). Nulla di tutto questo, invece, sembra esser stato chiaro a chi ha mosso critiche alla trasmissione, di cui in qualche caso si arrivati a chiedere la sospensione.

Proprio per evitare di svilire a mera occasione di polemica tutta strumentale, come anche in questo caso è accaduto, la questione che Report affrontava, direi non valga neanche la pena di prendere in considerazione le numerose prove di malafede consumatesi in questa occasione. Mi limiterei a segnalare la dinamica che le ha mosse.
In passato, alcuni esponenti del M5S (peraltro nemmeno di spicco, quasi sempre si è trattato di voci semianonime sollevatesi dal brodo di coltura in cui è venuta a crescere la cosa grillina) hanno elaborato tesi sgangherate, per lo più basate su documentazioni parziali, quando non palesemente farlocche, per muovere critiche ai principi e alle istituzioni della medicina cosiddetta ufficiale, accusata di essere strutturalmente al servizio di loschi e biechi interessi di strapotenti imperi farmaceutici, e fra queste critiche non poche sono state proprio quelle relative alla produzione e alla diffusione dei preparati vaccinali.
Superfluo sottolineare quanto questo atteggiamento sia in sostanza da considerare pura disinformazione. Anzi no, non riteniamolo superfluo: a scanso di equivoci, diciamo chiaramente che è stata , e continua ad essere, pura disinformazione, per giunta pure estremamente pericolosa. Ma non accontentiamoci: per dar segno di piena coscienza di questa pericolosità, rammentiamo che la legge punisce chi diffonde «notizie false o tendenziose» (art. 656 c.p.) o si rende responsabile di allarme per «pericoli inesistenti» (art. 658 c.p.), e poi chiediamoci perché si è sempre preferito lacerarsi le vesti dallindignazione di fronte a chi seminava frottole (scie chimiche, microchip sottopelle, cure anticancro a base di succo di limone o di bicarbonato, ecc.) invece di portarlo per le orecchie davanti a un giudice.

Ora, possono esserci cento altre ragioni per considerare il M5S il peggio del peggio del panorama politico e (sprechiamo un parolone) culturale italiano, e certamente la centounesima può a buon diritto essere ciò che in questo genere di frottole distilla rozzo qualunquismo e crassa ignoranza, paranoia di qualità peraltro assai scadente e inemendabile citrulloneria, ma come si può ritenere corretto il nesso logico, primancora che lipotesi di concorso associativo, tra la puntata di Report e chi, al sostenere che le Twin Towers sarebbero venute giù per una demolizione controllata e che lallunaggio dellApollo 11 avrebbe avuto per regista Stanley Kubrick, aggiunge che i vaccini provocano lautismo? O fredda malafede o cecità pregiudiziale: non riesco a trovare altra spiegazione, quindi passo oltre, a considerare le critiche a Report che non si sono mosse lungo questa linea, ma lungo unaltra che tutto sommato è da considerare parallela, perché al vizio di metodo che si è preteso di intravvedere nellinchiesta giornalistica qui è conferito i tratti di quella particolare forma di egemonia di pensiero che qualche settimana fa, sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco affermava essere già in atto in un pressoché generale cedimento a tentazioni populistiche, complottistiche, giustizialistiche, ecc. In sostanza, a Report si è mossa laccusa di essersi adeguata a questa egemonia di pensiero, arrivando ad affermare che con i servizi mandati in onda nelle passate annate se sarebbe stata addirittura una colonna.
Per riconoscere a tale posizione unautonomia morale e intellettuale nella conventio ad excludendum di cui il M5S è fatto oggetto ormai da tempo, prenderò in considerazione il modo in cui è stata fatta propria da due opinionisti che da sempre possono vantare autonomia morale e intellettuale, talvolta perfino abusandone.

Massimo Bordin attacca in modo abbastanza scorretto il conduttore della trasmissione, Sigfrido Ranucci, senza entrare nel merito della questione: dice che si cerca di farne un eroe, forse perché ha un nome da «eroe nibelungico», ma è quello che nel 2001 mandò in onda, su Rainews24, unintervista che Paolo Borsellino aveva concesso nove anni prima a due giornalisti di Canal Plus, ed era unintervista manipolata, come riuscì a dimostrare Paolo Guzzanti, che ne addebitò la manipolazione a Ranucci, mentre invece era stata manipolata dai francesi, come si chiarì in tribunale, con lassoluzione di Guzzanti in sede penale, ma con «altre sentenze in sede civile in parte contraddittorie con quella penale», che fuor di perifrasi significa che della manipolazione Ranucci non era in alcun modo responsabile.
Questo, per Bordin, farebbe saggio del «metodo giornalistico di Ranucci», non dissimile peraltro da quello di chi lha preceduto nella conduzione di Report, trasmissione che si sarebbe distinta solo per aver cercato di infangare lonorabilità dei bar e delle pizzerie di Napoli. Non farà certamente saggio del metodo giornalistico di Bordin, ma questo è stato il taglio dato alla questione relativa al tema proposto da Report: fallacia ad hominem.
Stesso taglio dato da Massimo Mantellini, ma nella variante di fallacia ad hominen circumstantiale: «il giornalismo di Report è un giornalismo a tesi», per giunta «molto ideologico», come è evidente nel suo «dar voce anche alla controparte, ma mai fino al punto da rendere il punto di vista avverso credibile», e poi «è giornalismo dell’indignazione», quindi fa «più male che bene», perché «l’indignazione ha bisogno ogni volta di aumentare la dose» (e qui possiamo intravvedere unulteriore fallacia, quello del piano inclinato).

In entrambi i casi, sembra che la questione posta dalla puntata di Report non sia degna di essere presa in considerazione: se ne sarebbe potuto dare un giudizio anche senza averla vista, bastava averne visto qualche puntata precedente, avere qualche dubbio su un giornalismo che mira a terrorizzare il consumatore dicendogli che gli ftalati possono farlo diventare ricchione, e forse pure meno, nel senso che bastava sapere chi sia Ranucci, e meno ancora, perché bastava considerare che a prenderne le difese erano Roberto Fico e Marco Travaglio. E sia chiaro che Bordin e Mantellini sono due amabili cazzoni, niente a che vedere con chi pensa che la Marcia su Roma di Grillo e Casaleggio possa essere fermata segnalando gli errori grammaticali di Di Maio.
A questo pare debba essere condannato il dibattito pubblico in Italia, e dunque credo si possa comprendere chi non sta pronto sulla notizia del giorno, rifugiandosi nello studio della pittura fiamminga o della musica gregoriana.

In questi giorni molti mi hanno chiesto di esprimere un parere sulla questione: dopo averli fin qui intrattenuti sul modo in cui ne sono stati stravolti i termini, non posso esimermi dal dire come credo andrebbero correttamente riformulati. Sarò stringato, facendo mia la posizione espressa da Carlo Freccero nel corso della puntata di Piazza Pulita andata in onda lo scorso giovedì: Report non ha fatto altro che integrare il bugiardino che è allegato ad ogni confezione di vaccino anti- Hpv, richiamando a una più attenta e trasparente attività degli organi preposti alla farmacovigilanza.
I vaccini? Sono necessari. In molti casi credo sia più che giusto renderli obbligatori. Quello anti-Hpv? Non preclude in modo assoluto la possibilità di contrarre un carcinoma della cervice uterina, ma la riduce sensibilmente. Sulle possibili reazione avverse che può cagionare occorre esprimersi con cautela rimandando agli studi che hanno preceduto e accompagnano la sua somministrazione, ormai assai estesa, che allo stato non hanno dimostrato nessi significativi tra i preparati in commercio e le patologie che in alcuni casi hanno destato il sospetto di avere relazione con lavvenuta vaccinazione.
Più in generale, ritengo che sia necessario rimettersi a quanto è ampiamente assodato in campo scientifico quando siano correttamente messe in atto le severe procedure metodologiche che consentono di dare per consolidata una certezza in quel campo. A chiunque è lecito chiedere conto di queste procedure, ma a tutti è dovuto prendere atto delle conclusioni cui conducono gli studi che le rispettino.

Ecco perché resto a bocca aperta, senza sapermi dare una spiegazione, del perché passi in sentenza, e nel silenzio generale, che i cellulari causano cancro al cervello. Sul piano scientifico è men che dimostrato, ma ad affermarlo, qui, non è stato Napalm51: è stato un giudice, ancorché a conclusione di un processo di primo grado. Silenzio, ora non vola una mosca: stavolta pare che la scienza non sia stata stuprata.