Incredibile,
lo so, ma ve la racconto lo stesso.
Leggevo l’articolo di un tizio
che lamentava il degrado della comunicazione pubblica: brutali
volgarità, laide menzogne, diffusa aggressività e, soprattutto,
ignoranza, tanta ignoranza. Bel pezzo, devo dire, non si poteva fare
a meno di annuire ogni tre righe.
Costretto ad annuire di continuo,
era possibile accadesse, e infatti è accaduto: annuendo mentre
accostavo alle labbra il mio tazzone di caffè, me n’è caduto un
po’ sul giornale.
D’istinto ho tamponato con un kleenex, ma ho
fatto peggio: un pezzo del giornale è venuto via, lasciando un buco
nella pagina. E qui viene il bello, perché attraverso il buco vedo
che sotto c’è la ruvida superficie di un papiro sul quale sono
impressi caratteri che compongono parole inconfutabilmente latine:
«-ata peroratio atque pro- / -ptum in quo rata- / -ibi bene
cecid- / …».
Trasalisco, ovviamente, e prima grattando con
l’unghia, poi strappando a brani tutta la pagina del giornale,
davanti a cosa mi trovo? Al De causis corruptae eloquentiae di
Quintiliano, per tutti andato perduto. In realtà
non si trattava dell’opera completa, ma solo del proemio, per
giunta mutilo del finale.
Non vi dico con quale eccitazione mi fiondo
a leggere. È lui, è lui, non c’è dubbio che sia proprio lui:
periodo faticoso, frequenti ripetizioni, ogni concetto espresso
sempre in due o tre modi diversi, ciascuno aperto a dare aggancio a uno sviluppo diverso. Da estenuare chi oggi non
concepisce un saggio che non sia innanzitutto una sequenza di
aneddoti, citazioni, citazioni di citazioni, carinerie e rimandi a ciò che si
dà scontato si sia già letto, e che poi semmai non ha letto neppure chi
scrive, ma di cui, a onor del vero, ha sentito parlare.
Quintiliano, no. Quintiliano procede per proposizioni che
sono squadrate con pazienza dal granito, che vanno a costruire edifici resistenti
pure ai terremoti di magnitudo 9, nei cui meandri a volte ci si
perde, ma solo per tornare da dove si è partiti.
È con piacere che
offro al mio lettore il proemio del De causis corruptae
eloquentiae. Tradotto con qualche libertà, ovviamente, per non tediare troppo chi è abituato ad argomentazioni non più lunghe di 280 battute.
Superfluo dire, com’è
d’obbligo per tutto ciò che è vecchio di secoli: di strabiliante
attualità.
Non
è obbligatorio scendere nel foro in cui l’uditorio sia
manifestamente refrattario alla retta argomentazione per cercare di
persuaderlo alle proprie ragioni. Se lo si fa, però, non ci si può
lamentare che la retta argomentazione non ottenga il risultato
voluto. D’altronde, se si sente irrinunciabile persuaderlo alle
proprie ragioni, la retta argomentazione non è l’unico strumento a
disposizione: ve ne sono di scorretti, ma assai efficaci, anzi, tanto
più efficaci quanto più scorretti, perché la refrattarietà alla
logica che informa la proposizione valida rende solitamente
estremamente ricettivi a sofismi, paralogismi, antinomie, fallacie.
Usare
strumenti scorretti potrà far sorgere qualche scrupolo, che però
non sarà difficile soffocare nella convinzione che il fine
giustifichi ogni mezzo, soprattutto se si sente indispensabile
ottenerlo in fretta. Se non si è dominati da questa urgenza e, ancor
più, se non si è disposti a usare un mezzo scorretto per ottenere
il proprio fine, rimangono due sole alternative: non scendere affatto
in quel foro; oppure scendervi, ma armati di coraggio e pazienza,
disposti a spendere tutte le proprie energie in uno sforzo che in
buona sostanza è tutto e solo pedagogico, avendo ben presente, però,
che, anche se instancabilmente operoso, non è affatto detto sia
destinato a trovare successo, tanto meno in tempi brevi.
Ciò
premesso, a nessuno sfuggirà che lo spazio di comunicazione pubblica
sia un foro; che il motivo per il quale solitamente vi si scende è
sempre (in senso stretto o in senso lato) politico; che in
quest’ambito relazionale la persuasione si traduce in consenso;
che, quando questo sia maggioritario, darà legittimità al governo
della cosa pubblica; che chi aspira al governo della cosa pubblica lo
considera quasi sempre un fine irrinunciabile.
Non
credo sia necessario tradurre nei termini che sono propri della lotta
politica quanto si è poc’anzi detto: se il discorso pubblico è,
al pari di ogni altra forma di comunicazione, l’articolazione di
proposizioni che possono rispondere o meno alle norme della retta
argomentazione, data una platea in cui gli analfabeti funzionali
siano oltre il 75%, c’è da attendersi che il ricorso a strumenti
scorretti possa senz’alcun dubbio dare risultati assai migliori, e
in tempi assai più brevi.
Cosa
può dissuadere dal farlo? Nulla, in realtà. In teoria
potrebb’esserci il sapere che un buon fine difficilmente resta tale
quando è ottenuto con mezzi disonesti; sta di fatto che, quando il
fine è considerato irrinunciabile, difficilmente si riuscirà a
valutarne la bontà lungo l’iter necessario a conseguirlo, e questo
a voler dar per certo che fosse buono all’inizio. Sempre in teoria
potrebb’esserci il sapere che la persuasione ottenuta in tempi
troppo brevi e con metodi scorretti è estremamente labile, perché
su basi poco salde; in pratica, tuttavia, si finisce quasi sempre per
credere, e anche a ragione, che a un consenso ottenuto con argomenti
invalidi si possa dare continuità con nuovi argomenti, altrettanto
invalidi, ma altrettanto efficaci.
Direi
sia veramente difficile rinunciare a strumenti retorici disonesti
quando si ha la certezza, fondata sull’esperienza, che una platea
in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75% risponde meglio a
questi che a quelli onesti. È del tutto naturale, dunque, che anche
chi scenda in un tal foro armato delle migliori intenzioni sia
costretto a scegliere: un consenso facile e immediato, largo ancorché
labile, ottenuto in modo disonesto, o un’onesta, lunga e faticosa
missione pedagogica che miri ad un consenso che c’è attendersi
comunque assai limitato? Solo scrupoli di natura morale possono
scoraggiare dallo scegliere la prima opzione, ma non s’è sempre
detto che politica e morale non hanno nulla da spartire? Come si può
continuare a dirlo sostenendo nel contempo che è lecito acquistare
consenso solo usando mezzi onesti? Che c’entra l’onestà con una
pratica i cui risultati devono essere giudicati solo sul piano della
capacità? E da cosa è dato, il giudizio, se non dalla misura del
consenso? È dato dalla sua misura, non già da come lo si è
ottenuto. E dunque si sia seri: chi ha fede nella retta
argomentazione non può e non deve attendersi consenso nel foro in
cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%.
Non
a caso parlo di fede. Se alla logica, infatti, attribuiamo le qualità
che il credente attribuisce a Dio (ve n’è
evidente corrispondenza quando questi lo chiama Logos), occorre
rassegnarsi al fatto che il suo regno – il regno in cui la logica
detta le norme al dire e al fare – non è di questo mondo; che, se
decide di incarnarsi, la logica, deve essere disposta ad esser
crocifissa, dopo essere stata offesa e derisa; che eventualmente può
risorgere, ma solo per tornarsene da dov’è venuta, dopo una fugace
Pentecoste che serve solo a lasciare a evangelisti, apostoli e
discepoli il mandato al martirio; che può darsi tornerà alla fine
dei tempi, ma solo per trovare sulla terra una sparuta manciata di
giusti.
Si
scherza, ovviamente, sappiamo che la logica non ha nulla di divino: è
una tecnica, oppure, per meglio dire, è una disciplina, e ha regole
ferree, inderogabili. Possiamo a buon diritto ribaltare quanto detto,
com’è per tutto ciò che è divino: non è la logica ad aver
creato l’uomo, ma viceversa; non apparve sulla terra così come la
vediamo oggi, ma nel tempo, a dispetto del ritenerla anteriore e
superiore ai tempi, ha subìto una profonda trasformazione, tanto
profonda da farle perdere la primigenia natura; ha pretese
universalistiche, ma deve fare i conti con le condizioni che incontra
e non di rado l’inculturazione le riesce male, trovando resistenze
che sembrano più biologiche che culturali; i suoi sacerdoti
predicano bene, ma spesso sono sorpresi a razzolare male, e in più
vestono insegne di casta; la fede in lei può facilmente trasformarsi
nella vuota celebrazione di rituali astrusi, in un arido sistema di
precetti algebrici che la vita quotidiana s’incarica di dimostrare
inapplicabili.
Si
fa torto al presente pensando che questo non sia accaduto sempre...
Nota
al testo
Al
lettore che si stupisse di trovare in un testo del I secolo la
locuzione «analfabeti
funzionali» occorre
far presente che nell’originale
essa era resa dalla perifrasi «stulti
qui vivunt, cogitant et loquuntur ad mentulam canis».